agosto 1900
Luglio 1900, Emilia Romagna
Il calore sprigionato dalla terra rendeva
l'aria compatta e
irrespirabile, quasi viscida mischiata agli umori del corpo;
nei
campi si continuava a lavorare instancabilmente anche col
solleone, ci si fermava solamente quel tanto che bastava per scacciare
un nugolo di mosche, asciugare la fronte dal sudore, affilare le falci.
I campi erano completamente pieni di lavoratori, intenti nella
mietitura finale del grano ormai di un giallo vivo, splendente. Covoni
incredibilmente ordinati iniziavano ad ammassarsi vicino al torrente.
Il gracidare delle rane richiamava stuoli di ragazzini scalzi e
seminudi che si gettavano fino alla vita nel pantano, nel tentativo di
arraffarne qualcuna per cena.
Una donna col pancione prominente si tolse il fazzoletto di testa, ci
si asciugò il petto e continuò ad infilzare con
la forca,
la gonna legata sopra le cosce inumidite; il suo uomo le
passò
affianco, le colpì la nuca con un buffetto affettuoso, un
mezzo
sorriso abbozzato e gli occhi chiusi dal sole.
Sputò a terra tre volte prima di addentrarsi nel cortile di
proprietà dei padroni, i Catellani. Quel posto lo aveva
amato e
odiato per tutta la vita.
Fernando Grossi non era un tipo da abbassar la testa alla prima
sferzata, ma, come suo padre prima di lui e suo nonno ancor prima,
aveva nei riguardi dei padroni una sorta di incondizionato istinto di
obbedienza; che poi lontano da occhi ed orecchie ci si mettesse a
parlar male dell'operato del fattore o della vita misera che
conducevano era tutt'altro paio di maniche, ma di fronte al padrone il
rispetto era qualcosa di quasi scontato, un dovere, una regola d'oro
inviolabile. I pochi che si opponevano erano destinati alla cacciata,
ad una vita da vagabondi, senza onore.
Ricordava ancora suo nonno mentre masticava tabacco e bofonchiava
insulti e raccomandazioni a mezza bocca.
- Il padrone è il padrone e tu sei tu. Se lui è
il
padrone e tu sei tu un motivo ci deve essere. Ricorda chi sei, figlio
di paesani, umili, onesti, gente per bene. Imparerai ad ubbidire e a
portar rispetto, ad avere quel minimo di educazione che ti serve per
essere benvoluto, lavorerai sodo e senza lamentarti, non disonorare mai
la famiglia, sposati una brava figliola, metti al mondo
più
marmocchi che puoi e vattene in pace da questo mondo. Il padrone ti ha
dato il lavoro, sei fortunato. Ma non schiacciare mai la tua
dignità, Fernandin... Quella vale più di ogni
altra cosa
al mondo!-
Quelle parole continuavano a ronzargli nelle orecchie anche a distanza
di anni ed anni. Il nonno ormai era morto, così come suo
padre,
ma ciò che era diventato, lo doveva anche e sopratutto a
quegli
insegnamenti, all'esempio, alle regole che aveva messo in pratica ed
assimilato. La vita non era facile, forse non era neppure giusta, ma
finchè le mani erano impegnate nel lavorare c'era poco
spazio
per i pensieri e con la stanchezza a fine giornata, ancor meno.
Era questa la differenza principale tra loro, i paesani e gli altri, i
padroni: quando un uomo non fa niente per tutta la vita ha troppo tempo
per pensare e a forza di pensare... Diventa un rimbambito.
La corte della fattoria era stranamente vuota, isolata, quasi fosse
tutto abbandonato, disabitato. Ma altro che disabitato! Quel posto era
pieno di persone, servi, camerieri, maggiordomi... Per non parlar di
loro, al di là della proprietà, nei campi, nella
cascina
che di notte il padrone veniva a chiudere col catenaccio. Non vi era
poi così differenza tra loro e le vacche da mungere, chiuse
nella stalla. Bestie. A volte qualcuno li chiamava con
quell'appellativo, ma non si sapeva mai se prenderlo come un insulto o
no.
Fernando proprio non capiva perchè in quel momento si
sentisse
così in soggezione, così... Inerme ed esposto.
Sentiva il
sangue che gli ribolliva nelle vene, non solo per il caldo; l'ansia si
mescolava al sudore forte e acre della fronte, i vestiti ne erano
impregnati ed era come se avesse la sensazione che chiunque avrebbe
potuto capir che aveva paura.
Ma questo non intendeva darlo a vedere; tutti lo
ritenevano un tipo forte, duro, gran lavoratore, senza grilli
per
la testa ne' strane idee politiche.
Era una grossa bestia da soma, con spalle larghe e muscolose, torace
ampio e possente, alto più di chiunque altro nella
proprietà e con una sopportazione della fatica quasi senza
euguali, rispettato fra i braccianti e anche dai padroni: non era raro
che mandassero loro qualcosa di avanzato per Natale o altre feste
comandate.
Comunque li vedeva gli sguardi delle ragazze quando portava i cavalli
del padrone, o seminava con l'aratro...Specie nelle giornate di calura
estiva, quando per forza di cose doveva togliersi la camicia e rimanere
a torso nudo. Era sempre stato un bel toso, anche da bambino,
già bello robusto, virile e forte, con una massa di riccioli
rossi indomabili e lo sguardo vigile e indomito, i buchetti alle guance
quando sorrideva.
Ma fra tutte quella che gli aveva rubato il cuore era stata lei, quella
che ora portava dentro il suo frutto, quella che quando lavorava,
faticando sotto il carico pesante di sacchi pieni di sementi lo
ignorava testardamente; lei con quel profilo ricercato, delicato e
così raro per una nata lì in mezzo, dalla mente
acuta e
sveglia e la lingua troppo lunga.
Fernando sorrise sghembo, mentre un raggio di sole gli trafiggeva lo
sguardo. Sarebbe stato un maschio o una femmina? Di certo il primo di
una lunga serie.
Si tolse il cappello prima di arrivare al portone principale.
Bussò piano, quasi a non voler disturbare.
Non era nemmeno la prima volta che veniva chiamato, ma...
Era come
se sapesse che questa volta era speciale, nel bene o nel male.
Venne ad aprirgli la graziosa cameriera dai capelli scuri e le
lentiggini, che gli sorrise. Lui fece lo stesso, pentendosene quasi
subito pensando all'Olga incinta.
- Il padrone m'è venuto a chiamare-
Disse, torcendosi il cappello fra le mani. La ragazza si fece da parte
per farlo entrare, gli disse di aspettare e poi sparì dietro
una
porta.
La casa era qualcosa di spettacolare agli occhi del contadino, del
povero bracciante mezzo di sudore che era. Si sentiva come un insetto a
camminar su quel pavimento lindo e pinto, a respirar la stessa aria
della famiglia del padrone, quasi potesse contaminarla, quasi si
potesse venir a sapere che aveva portato in casa una qualche malattia;
Fosse mai! Anche la moglie del padrone era incinta e se avesse avuto
qualcosa di sicuro la colpa sarebbe stata sua. Improvvisamente si
sentì così in colpa e fuori luogo che la
tentazione di
scappare lo attanagliò, fece due passi indietro,
cercò di
pulirsi le scarpe infangate sullo scalino di ingresso.
Una voce che lo chiamava lo gelò mentre tentava di togliersi
la polvere dalla giacca.
-Fernando! Cosa fai? Entra, non preoccuparti!-
Il padrone lo guardava dalle scale che portavano al piano di sopra,
sorrideva sornione. Fernando si sentì ancor più
insignificante di prima, quasi come se quel sorriso fosse messo
lì a mo' di scherno. Di nuovo ebbe l'istinto di
voltarsi e
tornare a mietere per tutto il giorno. Ma non lo fece.
-Cosa fai ancora lì sulla porta? Forza entra! Ti va un
goccio? Come sta l'Olga? Ci siamo quasi, mh?-
Sotto i baffi biondi e ben curati, faceva capolino una fila di denti
bianchissimi, sembravan quasi perle. Fernando rimase a viso basso,
incassando le spalle mentre passava di nuovo sotto la porta. Il padrone
non aveva che qualche anno più di lui e molti centimetri in
altezza in meno, eppure, riusciva comunque ad incutergli quel vago
timore che lo faceva apparire un mollaccione senza spina dorsale.
Enrico Catellani scese le scale, fermandosi al secondo scalino, poi
esortò il suo contadino a raggiungerlo. Fernando si
avvicinò, rimanendo ai piedi delle scale. Anche da
lì
superava di un braccio il padrone; ma quello non smise mai di
sorridere, anzi, pose un braccio attorno alle sue spalle massicce e lo
condusse al piano di sopra, nel suo studio.
- Fumi, Fernando?-
Le dita lunghe e affusolate, quasi femminee di Enrico Catellani fecero
scivolare sulla scrivania una scatola di latta piena di sigari.
- Non ne ho tempo, signor padrone-
Il padrone sembrò non cogliere la sottile ironia, la
sferzata
cinica della battuta o comunque non lo diede a vedere. Si
limitò
a chiudere la scatola con un colpo secco e ad accendersi il suo sigaro,
boccheggiando tra un sorriso e l'altro.
Fernando rimase qualche minuto ad osservare la stanza, piena di foto
della fattoria, volumi rilegati posti in mobili dal legno
pregiatissimo. Avrebbe voluto chiedere direttamente il motivo della sua
presenza lì, ma aveva già a malapena tenuto a
freno la
lingua, non era il caso di esagerare. L'Olga aveva una pessima
influenza su di lui, pessima.
Posò lo sguardo sul viso disteso del padrone, non lo
osservò con sfida, ne' aperta ostilità, solo una
genuina
e innocente curiosità.
Enrico boccheggiò ancora a lungo in silenzio.
Entrò in quel momento la morettina di prima, sempre
sorridendo.
Fernando finse di non vedere la mano del padrone che si insinuava sotto
il suo senalino quando ella portò il vassoio con i liquori.
- Ti va un po' di rosolio fatto in casa, eh Fernando?-
I capelli a spaghetto, lasciati lunghi sulla fronte sfioravano le
ciglia lunghe del Catellani, dando l'illusione che si trovasse dietro
ad un biondissimo ventaglio.
- Signore sì, ma devo tornar a lavorare...-
I denti di perla fecero di nuovo capolino sotto i baffi, un suono
gutturale esplose dalla gola del padrone.
- Quale lavoro, Fernando! Per oggi tu hai finito! Ah, Gilda, puoi
andare...Senti se la signora ha bisogno di qualcosa...-
La porta fu richiusa, il liquore versato.
- Alla salute dei nostri figlioli! E delle nostre famiglie, che da anni
coesistono e vivono l'una grazie all'altra!-
Fernando si ritrovò a pensare che quella grazie alla quale
tutto
l'intero sistema andava avanti fosse quella sua di famiglia, dei
Grossi, ormai figliati in quantità tale da fornire alla
fattoria
la forza lavoro principale, ma lasciò che il rosolio gli
bruciasse in gola, così come quei pensieri.
Lo sguardo del signor Enrico era liquido e lasciava trasparire altro,
apparte l'ilarità di quelle labbra sottili, ma Fernando non
chiese, ed egli non spiegò.
Sembrava in tutto e per tutto una visita ad un amico, sebbene egli
fosse vestito di un abito di cotone giallo limone e portasse un
dopobarba profumato e non avesse terra sotto le unghie. Parlarono dei
campi, della semina in autunno, della salute dei lavoratori e del
bestiame, discorsi futili e al contempo di vitale importanza, ma di cui
Fernando non riuscì a capire il nesso.
Fu congedato con una stretta di mano poderosa, una pacca sulla spalla e
in regalo una bottiglia di quel rosolio e saluti carissimi alla
consorte.
Mentre scendeva dalle scale Fernando avvertì la pesante
sensazione di essere stato preso in giro, di esser stato gabbato in
qualche modo, ma come quando aveva messo piede lì dentro
ormai
ore prima, non riuscì a comprendere dove fosse l'inghippo.
Si
ritrovò a camminare come un automa, stranito e confuso, come
in
un sogno.
Credere che quello del padrone fosse un semplice interessamento lo fece
sorridere amaramente. Da quando in qua i padroni si prendevan la briga
di curarsi di loro a quel modo? Scrollò le spalle e stette
attento alla testa mentre oltrepassava la porta, tenuta aperta da una
ancor sorridente Gilda, che lo salutò con la mano.
Orso Grossi nacque nei campi, tra un covone di fieno ed il letame di
vacca, il primo vagito a pieni polmoni d'aria aperta, nei grandi spazi
della pianura.
Bianca Catellani nacque in villa, tra l'odore degli iris, il
fiore preferito della signora, e l'angoscia del padre, il primo vagito
a pieni polmoni nell'aria odorata di talco della camera da letto
padronale.
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