L'eroe e il Mare
L'
Eroe e Il Mare
La
cappa di nubi che fin dal primo pomeriggio aveva avvolto la città
di Zanarkand aveva raggiunto il suo culmine.
Lentamente,
nell'arco dell'intera giornata, le nuvole sottili e rade che
sfrecciavano solitamente nel cielo avevano lasciato gradualmente
posto, prima a grandi cumuli bianchi simili a panna montata, e poi a
quel grande ammesso di un nero uniforme che aleggiava ora, per tutta
la ,considerevole, ampiezza della città.
Lungo
la costa della città il mare si era risvegliato dal sonno
pacato e piatto in cui giaceva solitamente e rombava potentemente,
sconvolto da cavalloni sempre più alti e minacciosi, che si
infrangevano spumeggianti sulle abitazioni lungo che rasentavano il
bagnasciuga.
In
quello scenario che andava man mano incupendosi Auron camminava
lentamente sul tetto di un edificio non troppo alto (almeno per la
media di Zanarkand), fino a spingersi su una robusta trave di metallo
che sporgeva pericolosamente nel vuoto.
I
suoi passi producevano un rumore tintinnante appena udibile sotto le
frustate del vento. Il braccio sinistro giaceva inerte e le dita che
sporgevano dalla manica tremolavano leggermente, senza vita, ad ogni
passo. La destra invece era serrata attorno alla borraccia di sakè
che portava sempre con sé.
Si
arrestò sul ciglio della trave su cui passeggiava e si sporse
quanto gli era necessario per poter contemplare le acque turbinose
sotto di lui.
Non
ne sembrò particolarmente impressionato, men che mai
spaventato, quando la prospettiva di una simile caduta avrebbe fatto
venire le vertigini anche al più indomito avventuriero.
Alzò
lo sguardo verso l'orizzonte, e quello spettacolo sembrò
destare di più la sua attenzione. Le nubi turbinose e la
pioggia sottile e insistente (preludio di un imminente acquazzone)
avevano contribuito in maniera decisiva a rabbuiare ulteriormente
l'atmosfera di quel giorno, tanto che oramai nemmeno la luce rossa
del tramonto riusciva a penetrare il nero dell'oceano. Di quel colore
straordinario che tanto piaceva al ragazzino e che tanto aveva
colpito Auron il primo giorno in quella città, non restava che
una beffarda strisciolina all'orizzonte, simile ad un sorriso tirato
su una faccia corrucciata.
Adeguato
all'anniversario che stava per scadere, pensò il guardiano.
Adeguato ma comunque triste, il ragazzino non avrebbe avuto nemmeno
la soddisfazione di poter contemplare il suo adorato tramonto.
Si
chiedeva perchè Jecht facesse tutto questo. Perchè lui
era certo che ci fosse lui dietro tutto questo, lo sentiva in quelle
acque torbide. Dopotutto Sin e il mare sono praticamente la stessa
cosa.
A
quel pensiero Auron arricciò le labbra in un sorriso amaro,
che non faceva intendere il minimo divertimento, al massimo una
dolorosa accettazione. Una sconfitta.
Si
guardò alle spalle contemplando gli edifici dietro di lui.
L'oscurità precoce di quella giornata e la foschia che
aleggiava omogenea per miglia faceva sembrare le luci dorate di
Zanarkand soffuse e lontane, e il tormentato ululare del vento tra
gli anfratti metallici degli edifici nascondeva l'incessante rumore
della vita urbana. In quel modo “la città che non dorme mai”
sembrava essersi assopita per un momento, some un gigantesco naufrago
che, stremato dalla disperata nuotata, stramazza appena arrivato alla
spiaggia, lasciando i piedi ancora immersi nell'acqua.
E
proprio su quei piedi ora stava torreggiante ed immobile Auron. Se
qualcuno l'avesse visto in quel momento si sarebbe chiesto come il
corpo martoriato di cicatrici potesse stare placidamente in piedi
sotto il vento freddo e la pioggia sempre più insistente.
Ma
ormai erano passati anni ( dieci lunghi anni) da quando aveva smesso
di soffrire il freddo, il caldo, il dolore, e persino di sentire il
gusto del sakè che si accingeva a versarsi in gola.
Dopo
aver bevuto un sorso del liquido amaro ( che ancora prima di smettere
di sollazzargli il gusto aveva smesso di dargli alla testa) si staccò
la borraccia dalla labbra screpolate e la puntò verso
l'orizzonte in una sorta di brindisi col mare.
“A
te” disse al suo vecchio amico, senza dubitare un secondo della sua
presenza.
Dal
mare lo raggiunse un rombo pauroso quanto amaro, con il suo carico di
nostalgia.
Ancora
Auron diede quel sorriso spento.
“Ti
manca questa?” chiese indicando i grattacieli illuminati alle sue
spalle. Non vi fu risposta, ma Auron sapeva che non era quella
esatta.
“O
magari qualcos'altro ...”
In
quel momento quel qualcos'altro sbucò da una strada deserta
nelle vicinanze del palazzo su cui il guardiano stava appollaiato.
Il
ragazzino era accompagnato da qualche ragazzo rumoroso ed un paio di
ragazze ridanciane. Con tutta probabilità qualche amico di
fortuna rimediato in uno dei tanti (troppi a suo giudizio) locali di
Zanarkand.
“Tuo
figlio” disse parlando al mare, e a chi c'era dietro.
Tidus
uscì dalla cappa degli ombrelli dei suoi neo amici e, dopo
qualche battuta divertente, corse fino a ripararsi nel portico di
casa sua, salutandoli con il braccio finchè si allontanavano
rumorosamente come erano venuti.
Auron
era distante e la visuale era poco nitida ,per via della pioggia che
si era trasformata nel tanto pronosticato acquazzone, ma lui riuscì
comunque a scorgere il cambio di espressione sulla faccia del
ragazzo.
Nonappena
l'allegra combricola si fu allontanata il sorriso gli morì in
faccia, lasciando posto ad un espressione grigia di muta
rassegnazione, la stessa, constatò lui con tristezza, che
giaceva sul volto di Auron da dieci lunghi anni.
Poi
il ragazzo entrò, ma lui sapeva bene cosa avrebbe fatto, anche
senza vederlo.
“E'
domani. Lo sai che sta piangendo vero? Lui dice di odiarti, ma in
questi giorni piange sempre....è solo un ragazzino dopotutto.”
Auron
lanciò un'occhiata al cielo nero.
“Capisco
perchè lo hai fatto. E' molto più facile piangere
quando il cielo piange con te.”
Il
mare ripetè il suo lamento tempestoso.
Dopo
una pausa il guardiano parlò di nuovo.
“Jecht”
erano dieci anni che non pronunciava quel nome e sentirlo pronunciare
dalla sua voce odierna lo riempì di una strana, e del tutto
illogica, tristezza.
“Sono
passati dieci anni. Dieci anni dal giorno che quel ragazzino che sta
inzuppando il materasso di lacrime pensa sia il giorno della tua
morte. Dieci anni dal nostro primo incontro....dieci anni dalla
promessa che ti feci. Non pensi che sia giunta l'ora?”
La
risposta gli giunse chiara nella mente. Domani.
Domani
sarebbe stata la fine per quel luogo, e l'inizio per Spira.
Stavolta
toccò ad Auron essere invaso dalla nostalgia. Gli mancava
Spira. Gli mancava la terra in cui era cresciuto, in cui aveva
vissuto le sue avventure, le avventure di una gioventù che se
n'era andata (di una vita che se n'era andata),in cui aveva
conosciuto le due persona più care della sua vita, e in cui li
aveva persi entrambe.
Uno
era morto perchè aveva creduto nelle menzogne di quel mondo
(Auron aveva capito che Spira era pervasa dalle menzogne) e il
secondo, era stato vittima di una sorte peggiore della morte.
Intrappolato
dentro quelle scaglie, Jecht non era più se stesso, salvo in
quei giorni, in cui gli parlava dal mare. Una magra consolazione.
Auron
era rimasto legato a loro due dalle pesanti catene di due gravose
promesse. La prima che aveva come oggetto il biondo ragazzo che
versava lacrime sul cuscino e si ripeteva di odiare suo padre, e la
seconda una ragazza che Auron non aveva neanche mai visto, ma che lo
attendeva ( e di questo era sicuro) in quel mondo nostalgico che era
Spira.
Ne
aveva le prove proprio dalla presenza del suo vecchio amico Jacht,
anche lui era legato a quella promessa non più di quanto lo
fosse lui, e sapeva che dalla sua prigione di scaglie e destino
cercava di fare quanto possibile.
Il
mare ruggì un addio ed Auron seppe che se ne stava andando.
“A
presto amico mio.” salutò in tono grave.
In
poco tempo la pioggia smise di scendere piano piano, le nuvole si
allontanarono ognuna per la propria strada, dopo aver svuotato il
loro carico d'umidità, e il mare tornava di nuovo nella sua
calma placida.
Il
cielo di Zanarkand era tornato dominato dalle stelle, quelle stelle
che la univano al suo mondo, Spira.
Nella
casa sotto di lui Auron percepiva la presenza del ragazzino. In quel
momento Tidus giaceva addormentato, dopo aver esaurito le lacrime,
sul letto ancora fatto.
“Lasciamo
che si riposi” fece Auron “Domani inizierà la sua storia,
e sarà l'ultima storia a cui assisterò. Facciamola
iniziare come si deve.”
Per
quanto lo riguardava Auron aveva concluso la sua storia dieci anni
prima, ma le catene delle promesse ai suoi migliori amici, gli davano
la possibilità di viverne (se questa era la parola esatta) una
nuova.
Ma
questa non sarebbe stata la sua, oh no.
Sarebbe
stata la loro. Quella del figlio di Jecht, e della figlia di Braska.
E allora la promessa sarebbe stata adempiuta.
Le
prime luci dell'alba illuminavano fiocamente la superficie del
mare....prima che se ne fosse accorto era già domani.
“Questa
è la tua storia. Tutto comincia qui.”
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