.Cemento
armato.
Quando
Makoto arrivò sentì chiaramente il
frusciare dei suoi piedi sulla sabbia umida.
Se
qualcuno gli avesse chiesto di dar
metaforicamente un suono al momento in cui tutto era iniziato, sarebbe
probabilmente stato un fruscio, quello del respiro di Haruka quando si
appisolava sulla spalla di uno una volta, dell'altro un'altra.
Sssh,
sarebbe stato anche ciò che Haru avrebbe detto se
gli avessero chiesto di scegliere, adesso.
«Ehi,
Rin.» Makoto lo salutò normalmente, e fu in
quel momento soltanto che Rin pensò per la prima volta di
prenderlo davvero a
pugni, che si comportava come se non stessero ballando sui cocci di un
vaso
rotto. Ma di prendere a pugni proprio lui, Rin non ne aveva minimamente
il
coraggio.
Lo
guardò, con gli occhi lucidi e il sole del
tardo pomeriggio che gli batteva contro, invitandolo tacitamente a
sedersi.
Makoto aveva quella sua tipica increspatura delle labbra verso l'alto,
come
quella che aveva quando gli veniva incontro al club di nuoto della
Iwatobi.
Era
quasi autunno ed entrambi si sentivano cadere
giù come foglie secche, era quasi sera e i messaggi che si
erano scambiati
qualche giorno prima scottavano ancora come acciaio sotto il sole.
"Me
lo ha detto."
"Che
cazzo significa?"
"Non
ti è venuto in mente di dirmi che
stavate insieme?!"
"Dobbiamo
parlare, giovedì alle sette."
Rin
non ricordava quante cose di quel genere gli
avesse detto fino a sentir i polpastrelli bruciare, ed anche se tutto
era
ancora sul suo cellulare probabilmente se avesse letto di nuovo quelle
parole
le avrebbe tenute per sempre marchiate sulla fronte come una condanna,
e non
voleva.
Si
sentiva uno schifo anche perché Makoto non lo
aveva azzannato tramite messaggi, non lo aveva accusato, non gli aveva
chiesto
spiegazioni, non aveva preteso nulla e quella, probabilmente, era
un'altra
ennesima vergogna.
Lo
conosceva da tanti anni, ormai, e gli
sembravano così tanti che credeva non gli bastassero le dita
delle mani per
contarli. Fino ad allora gli era sempre sembrato che il loro rapporto
scorresse
come acqua fresca in delle sorgenti al riparo da qualsiasi cosa, o come
linfa
nei tronchi degli alberi, come sangue nelle vene. In un modo o
nell'altro, ai
suoi occhi, lui e Makoto erano sempre stati qualcosa di tanto
inscalfibile,
insieme, che ritrovarsi tutto d'un tratto capovolti e rivoltati gli
aveva fatto
scuotere la testa e dire "cosa cazzo sta succedendo?".
Con
Makoto aveva sempre creduto di correre nella
stessa corsia, in una staffetta, in una sfida amichevole o qualcosa in
cui
potevano stare spalla a spalla in ogni caso, sentirsi e ritrovarsi come
quelli
che erano davvero. All'improvviso il treno su cui viaggiavano aveva
preso un
dosso, aveva avuto uno scossone tanto forte che quando erano tornati in
equilibrio avevano sentito come un pezzo danneggiato, bucato, ciascuno
di sé,
un pugnale nella pancia dell'uno dalla mano dell'altro. Per anni si
erano
azzannati come cani senza rendersene conto e le ferite si erano
dilaniate solo
adesso.
Non
avrebbe mai creduto che, una volta faccia a
faccia, una volta fianco a fianco, si sarebbe sentito così
miseramente piccolo
da stringere i pugni sulla sabbia per non piangere.
«Quando
te l'ha detto?»
Makoto
aveva incrociato le gambe e affondato i
palmi nella sabbia dietro, guardando la sfumatura umida del mare sotto
il cielo
violaceo all'orizzonte.
«Giovedì
scorso.» rispose.
Rin
si morse il labbro inferiore. «A me sabato.»
«Ah
già, mi ha detto che usciva per incontrarti,
sabato.»
«Cazzo,
Makoto, e non hai detto niente?!»
Le
onde scivolavano sulla battigia come fosse
stata un pavimento di marmo, e nel complesso Makoto e le cose stesse
sembravano
così rilassati che Rin cominciò a sentirsi un
pesce fuor d'acqua, lì, come se
qualsiasi cosa avrebbe dovuto starci tranne che lui. Se Makoto poteva
diventare
tutt'uno con la quiete della spiaggia, lui probabilmente sarebbe
scomparso come
fumina durante una tempesta.
«No,
Rin, non gli ho detto niente. Lui mi aveva
già detto che si vedeva regolarmente con te, se non ho detto
nulla in quel
momento, come avrei potuto in un altro?»
«E
perché non hai detto niente, maledizione?!»
Spinse
con forza i palmi contro le ginocchia per
evitare che un pugno di sabbia partisse involontariamente.
Makoto
sospirò nel modo impercettibile con cui lo
faceva sempre. «Ho detto qualcosa.»
Rin
si costrinse a respirare. «Cosa?»
«Che
non doveva chiedersi come stessi io.»
Rin
sbarrò gli occhi e gli sembrò di aver tirato
giù nei polmoni tutta l'aria salmastra che stavano
respirando insieme.
Una
delle cose che aveva detto ad Haru, dopo che
gli aveva confessato di stare con Makoto, era stata "non ti chiedi come
sto adesso?".
"Non
deve essere facile rendersi conto di amare due persone
contemporaneamente e non volerne ferire nemmeno una."
Rin
ringhiò talmente rumorosamente mentre si
sollevava a braccia incrociate sull'asta di metallo che metà
del team lo sentì
e lo guardò corrucciato.
Per
comprendere quel tipo di ragionamento aveva
passato ore intere a guardare il soffitto alla ricerca di ogni esempio
più
plausibile che gli venisse in mente. Sarebbe stato come scegliere fra
Gou e sua
madre, fra la farfalla e la staffetta o, più precisamente,
come scegliere se
mangiare o bere. Era in quei termini, bene o male, che l'aveva messa
Makoto, ed
in quell'istante Rin si era sentito così debole che aveva
pianto silenziosamente
con gli occhi sulle onde, e nessuno dei due aveva più
parlato.
Era
di nuovo sabato pomeriggio e Haru aveva
chiesto di vederlo.
Rin
si era preso il tempo per aiutare Ai con gli
esercizi di inglese e pensare a cosa rispondere, ed alla fine era stata
proprio
quella, la risposta: pensare.
"Devo
pensare".
A
cosa dirti, a cosa dirmi, a come comportarmi, a
come non picchiarti, ma
alla fine solo "devo pensare".
Aveva,
invece, mandato un messaggio a Makoto.
"Stasera,
di fronte al vecchio club?"
"Va
bene."
Rin
guardò Makoto accomodarsi sul bordo della
vecchia piscina con i piedi a penzoloni.
Questa
volta aveva fatto lui gli onori di casa,
dopo aver titubato fra i corridoi oscuri del club, ed in un certo senso
non
poteva biasimarlo: l'Iwatobi SC apparteneva di sicuro più a
lui.
Lo
affiancò guardando il fondo vischioso e grigio,
gli sembrava quasi di sentire lo zampettare delle cimici fra le crepe
più
profonde.
«Allora,
come va?» cominciò, senza nascondere una
punta di sarcasmo nella voce.
Makoto
scosse le spalle. «Ieri sera siamo stati
insieme.»
Rin
non aveva ancora nemmeno immaginato che si
sarebbe sentito così frustato di fronte a quelle parole.
«Non
ha parlato molto, e io non lo costringo mai a
farlo, ma ha detto che gli dispiace.»
«Gli
dispiace?»
«Sì.»
«Di
cosa?»
«Di
non, mh, saper nuotare in una sola direzione.»
Makoto
stava sorridendo.
Rin
trovò la cosa talmente paradossale che si
sentì come rivoltato sottosopra e non riuscì a
non pensare che, in un qualche
modo dannatamente ingenuo, Haruka si stava prendendo gioco di entrambi,
e che
li aveva spinti tanto indietro da intrappolarli in due prigioni diverse
ma
vicine.
Loro
due avrebbero potuto continuare a tirar fuori
la zampa e a far stridere gli artigli contro le sbarre per quanto
volevano, ma
la gabbia di Haru sarebbe stata sempre così maledettamente
distante da gettarli
nell’ossessione di poter guardare e non avere, non fin in
fondo, e quando i
loro corpi stremati dalla fame si sarebbero accasciati a terra,
probabilmente
Haru avrebbe trovato la via d’uscita e sarebbe venuto a
rubare l’ultimo respiro
di entrambi, prima di uno e poi dell’altro.
Ma
chi per primo e chi per secondo?
«Capisco.»
Un
topo da qualche parte nel buio della piscina
squittì insieme a lui, e Makoto sussultò.
Rin
lo fissò, con i gomiti sulle cosce e le dita
delle mani incrociate, mentre lui sospirava e si voltava a sua volta a
guardarlo, dritto negli occhi, ed entrambi tremarono quando si resero
conto che
era la prima vera ed effettiva volta che si guardavano così
da quando tutto era
cominciato. La pelle d'oca, le mani tremanti, i brividi lungo la
schiena che
facevano vibrare ogni piccola fibra dei loro corpi. Rin
sentì di star
precipitando giù, nel vuoto polveroso, e
ringraziò che Makoto avesse deglutito
rumorosamente e riportato entrambi a galla, oltre il pelo di un mare in
tempesta.
Era
per cose come quelle che Makoto era Makoto.
Rin
si stropicciò gli occhi con le nocche e si
passò una mano fra i capelli.
«Dobbiamo
decidere.»
Makoto
aprì leggermente le labbra. «Nh?»
«Dobbiamo
farlo decidere.»
Rin
digrignò i denti e Makoto guardò verso il
basso, scuotendo la testa.
«Penso
sia questo il punto.» disse, ed il suo tono
di voce fu sufficiente per suggerire che, forse, non stava soppesando
le cose
così come entrambi avevano creduto.
«Tu
pensi che gettando una rete in mare avrai per
forza di cose catturato un pesce. Ma non è così.
Haru-chan non è una persona a
cui puoi mettere dei paletti, dei fermi, Haru-chan non è
così. Fidati, se fosse
possibile intrappolarlo lo avrei già fatto da tempo, lo
avrei fatto quando tu
sei tornato.»
Da
qualche parte più vicina il topo squittì
ancora. Rin stava fissando una crepa che correva abbastanza in lungo
nella
piscina da coprire quasi tutta la distanza in larghezza fino alle
pareti, e si
ritrovò ad immaginarsi risucchiato dal dirupo immenso che
avrebbe creato la sua
frattura.
«Mi
dispiace... Rin, non volevo...» Makoto era
seriamente preoccupato.
Rin
deglutì, e ciò servì solo a
strozzargli
ulteriormente il fiato, ma riuscì a fare un cenno con la
testa e ad alzare le
spalle, mentre gli era improvvisamente molto più chiaro
perché per tutto quel
tempo fosse stato lui l'amante e Makoto il compagno.
«Lo
so.» sospirò, stringendogli il ginocchio
destro con la mano per pochi brevi secondi.
«Lo
avrei fatto anch'io.»
Non
passò molto tempo prima che si vedessero di
nuovo alla Samezuka, dopo gli allenamenti del club.
Rin
aveva cominciato a trovare nel parlare con
Makoto una valvola di sfogo, oltre che un buon pretesto per capire cose
che gli
sembrava di vedere sottosopra, o comunque nel modo sbagliato, e la cosa
era
vivacemente spaventosa nel suo contrasto. Si parlavano come se non
fosse l'uno
la causa delle ferite dell'altro.
«Cosa
pensi direbbe se gli chiedessimo di
scegliere?»
Rin
sussultò, quando si rese conto di non aver ben
calibrato la domanda.
«Non
intendo chi sceglierebbe, intendo... come
svierebbe il discorso?»
Makoto
non si era spaventato e doveva aver capito
il senso di ciò che aveva detto sin da subito, tuttavia non
parve pensare molto
per la risposta.
«Non
penso che parlerebbe.» diede una bracciata
fin al bordo della piscina e vi si arrampico per sedercisi.
Rin
seguì la sua scia nell'acqua e si fermò a
galleggiare a mezzo metro di distanza dalle sue gambe.
«Tacerebbe?»
«Farebbe
qualcosa.»
Scosse
la testa, immaginando cosa, e si ritrovò a
condividere con Makoto un sorriso divertito. Era diverso dall'ultima
volta che
ne avevano parlato apertamente e si era sentito tradito, umiliato,
frustato.
Era
diverso, ma non meglio, stavano ancora lottando
l'uno contro il fantasma dell'altro, a letto con Haruka.
«Lo
conosci meglio di me.» Sospirò, massaggiandosi
il collo.
Makoto
mantenne il suo sorriso, fissando la forma
dei suoi piedi sotto lo specchio d'acqua.
«Non
pensavo saremmo arrivati fino a questo punto.»
disse.
Rin
lo guardò, intendendo mille cose errate e
Makoto lo capì semplicemente guardandolo.
«A
sapere di tutte queste cose, intendo.»
Ed
in realtà non c'erano proprio "tutte
queste cose". Ce ne era
solo una, ed era Haru che annaspava di cinque passi verso l'uno e di
altri
cinque verso l'altro in continuazione, senza mai arrivare davvero da
nessuna
parte.
«Ho
sempre saputo che gli piaci.» confessò.
Rin
abbassò la testa. «Immagino che in cambio mi
sarei dovuto accorgere che stavate insieme.»
Si
impegnò seriamente per cercare di ricordare un
qualsiasi indizio che avrebbe dovuto cogliere nei pomeriggi con loro al
club e
si sentì uno schifo totale nel constatare che ne ricordava
almeno quattro.
«No,
non per forza. Non lo sanno nemmeno Rei o
Nagisa.»
«Io
lo sapevo, a modo mio.»
«E
pensi le cose sarebbero state diverse se tu l’avessi preso in
considerazione,
Rin?»
Era
una domanda apparentemente semplice, eppure Rin non riusciva a capire
se col
suo tuono stesse escludendo un certo tipo di risposta.
Sospirò sul pelo
dell’acqua e si fece un po’ più avanti.
«Non
mi sarei mai messo fra voi, diversamente da come puoi
pensare.»
Makoto
scosse lentamente la testa, sorridendo appena, ed immerse una mano
nell’acqua
per massaggiarsi i polpacci intorpiditi.
«Guardi
le cose dal punto di vista sbagliato.»
«E’
per questo che parlo con te.»
Rin
si rese conto di essere ad un soffio dalle sue gambe, ed il
gorgheggiare dei
filtri della piscina si faceva sempre più intenso e
fastidioso. Temeva quasi di
perdere una qualsiasi parola di Makoto.
«So
perché parli con me.» rispose lui, guardandolo
galleggiare placidamente col
mento quasi sulle sue ginocchia. «E’
perché ti senti solo. Anch’io.»
Rin
fissò la luce aranciata del sole che penetrava dai
finestroni in alto, cercando
di distrarsi dal modo in cui gli occhi cominciavano a pizzicargli.
Makoto
sembrò separare un po’ le ginocchia solo per
dargli lo spazio necessario per
farsi più vicino e, col fiato corto e la pelle delle dita
raggrinzita
dell’acqua, Rin appoggiò al fronte contro le sue
cosce e gli strinse le gambe
con le braccia.
Makoto
fece passare solo pochi secondi prima di cominciare ad accarezzargli i
capelli
e la schiena, lento, delicato come, molto probabilmente, accarezzava
Haruka
tutte le sere.
«Ti
accompagno.»
«Non
ce ne è bisogno, Rin!»
Aveva
insistito talmente tanto che Makoto non aveva potuto fare altro che
arrendersi
e farsi affiancare da lui nel tragitto verso la stazione. Rin gli aveva
detto
che si narrava in giro di un fantasma che infestava il treno, a
quell’ora,
aspettando che suo marito tornasse da lei nonostante lui avesse rubato
tutti i
risparmi e fosse scappato con una donna più giovane.
L’ultima
corsa sarebbe passata entro cinque minuti ed entrambi erano seduti su
una panca
affianco ad un distributore, a fissare i ciottoli sotto i binari e i
passeri
che zampettavano sulla banchina.
«E’
vera la storia del fantasma?» sibilò
all’improvviso Makoto, grattandosi la
tempia destra.
Rin
sbuffò. «Certo che è vera.»
«Non…
non l’avevo mai sentita.»
Lui
alzò le spalle, si voltò a guardare una coppia
che ridacchiava e si accarezzava
contro un pilastro, e si ritrovò a pensare alla prima ed
unica volta che aveva
baciato una ragazza, in Australia, ed aveva sentito la strana e
appiccicosa
sensazione del rossetto sulle proprie labbra.
Chissà
se Makoto aveva mai baciato qualcun altro, a parte Haru.
«Ho
pensato a quello che mi hai detto la settimana scorsa, in
spiaggia.» sospirò.
Makoto
guardò il suo profilo nascosto in parte dal berretto grigio.
«Cosa?»
Rin
scosse la testa. «Sarebbe come scegliere se mangiare o bere,
vero?»
Aveva
provato ad immaginare come sarebbe stato prenderlo a pugni, quella
volta in
spiaggia, invece che parlargli e piangere di nascosto, come sarebbe
stato
reclamare che Haru era sempre stato suo, che era un cornuto e che al
posto suo
si sarebbe ritirato perché, evidentemente, come compagno
faceva schifo. Ma la
verità era che aveva saputo dal primo istante che era lui a
far schifo come
amante.
«Sì,
penso proprio sia così per Haru.»
Rin
sospirò profondamente. «L’ho capito ma
non… l’ho capito. Non…
non…»
Aveva
la sensazione che qualsiasi cosa Makoto l’avrebbe compresa in
ogni circostanza,
adesso.
«Non
lo senti possibile.»
«Già.
Tu sì?»
Makoto
rise sottilmente. «Me lo stai davvero
chiedendo?»
Rin
provò ad imitarlo, provò ad essere leggero come
lui, ma ne uscì solo un
singhiozzo.
«A
volte mi dimentico che…» si interruppe senza
sapere come parlare oltre.
Makoto
fissava i binari, apparentemente assorto. «Che stiamo
soffrendo per la stessa
persona?»
«Che
stiamo soffrendo l’uno a causa dell’altro.»
Il
megafono della stazione squillò e la voce robotica
avvisò dell’arrivo della
successiva ed ultima corsa.
Makoto
si sollevò trascinandosi sulla spalla la tracolla del
borsone del club e con
lui, come un meccanismo di scatto ben architettato, Rin
balzò in piedi
trattenendo il fiato. Non distolse lo sguardo da lui nemmeno per un
secondo,
mentre si stropicciava gli occhi e schiudeva le labbra per sospirare,
ancora.
Il
treno stava già sferragliando sui binari quando gli porse la
mano, tesa, con le
vene vive e ben gonfie sul dorso e sul palmo, le dita spalancate e
leggermente
flesse.
Makoto
lo guardò negli occhi solo mentre ricambiava la stretta, ma
in quel modo dolce
e delicato con cui l’aveva accarezzato in piscina, con cui
probabilmente
prendeva per mano i suoi fratelli, o Haru, e quello che sarebbe dovuto
essere
un banale saluto da strada, una batti cinque, una pacca, si
trasformò in uno
scambio di vibrazioni e calore che li fece tremare come foglie.
«Vedi
le cose dal punto di vista sbagliato, Rin.»
Quando
Makoto si infilò nel treno e le porte si chiusero alle sue
spalle, Rin seppe
che, in quel momento più che mai, voleva che tornasse.
«Hai
sete?»
Rin
non poté far a meno di strabuzzare gli occhi,
fissi sul televisore, e cercare di scacciare la pessima sensazione di
essere
nel posto dove meno sarebbe dovuto essere al mondo.
Eppure,
ogni volta che varcava la soglia di casa
Nanase, ciascun passo muto sul pavimento sembrava respirare della
voglia che
aveva di Haruka da quando tutto era cominciato con lui.
«No.»
Haru
chiuse lo sportello del frigorifero e ciabattò
verso di lui, appoggiato allo stipite della shoji aperta, e cercava di
nascondere con le braccia incrociate al petto un principio di
insicurezza che
solo Makoto era stato in grado di fargli notare.
Rin
guardò la sua mano, nascosta sotto l’altro
avambraccio, la afferrò con la sua e gliela baciò.
«Ti
sono mancato?» sussurrò.
Haruka
socchiuse gli occhi, avanzando di mezzo
centimetro e aggiungendo alla stretta delle loro mani anche
l’altra. A Rin quel
poco bastò per spingersi a baciarlo e a portarlo su in
camera da letto.
Spogliare
Haruka ogni volta era come scomporre un
puzzle composto da qualcun altro, toglierne pezzo per pezzo e
disperderlo da
qualche parte alla rinfusa su un enorme tavolo. Su di lui, sui suoi
vestiti,
Rin non sapeva mai dove mettere le mani, da dove cominciare. Gli
entrava
talmente dentro il cervello che lo confondeva come un terribile mal di
testa e
quando tutto finiva si sentiva come nell’istante esattamente
successivo ad un
forte starnuto.
Pelle
contro pelle cominciarono a litigare fra le
lenzuola mordendosi e baciandosi forte.
Rin
sentì che, in un modo o nell’altro, tutto
quello poteva servire a metter fine alle sue sofferenze.
Lo
prese, già stremato, facendogli sbattere la
fronte contro la sua spalla, e con altrettanto spossata forza lo tenne
per i
fianchi per minuti che parvero ore passate a nuotare in un fiume senza
riva.
E
così, mentre Haru gli tirava i capelli e lo
mordeva, mentre aveva le orecchie piene dei suoi rumori e la bocca
piena dei
suoi sapori, Rin riuscì a chiedersi quali di tutte le cose
che sentiva lui in
quel momento anche Makoto aveva sentito dopo che fra di loro tutto si
era
fratturato ed era caduto in pezzi.
Venne
pregandolo, con la bocca spalancata contro i
suoi capelli, di smetterla, senza nemmeno esattamente sapere a cosa si
riferisse.
Ma
Haruka non lo sentì, e riemerse dal suo placido
silenzio mezz’ora dopo, quando cominciò a
strisciare fra le coperte per
appoggiare la testa sul cuscino, accanto a lui.
Rin
si voltò su un fianco, verso di lui, e si
guardarono a lungo.
Fuori
era sera ed ormai autunno, non mancava molto
prima che le foglie cominciassero a cedere. Qualche giorno prima, Rin
si era
immaginato a guardarle con Makoto e a commentare quali somigliassero di
più a
loro.
Haruka
si era avvicinato per appoggiare la fronte
contro la sua, e a Rin parve un’ottima occasione per cavarsi
via dalla bocca
quel peso che aveva da troppo tempo ormai, e farsi una ragione della
risposta.
Sapeva
perfettamente di star calando la mano in un
acquario di piranha quando sospirò e disse «mi
ami?».
Haru
non rispose e lo baciò.
«Non
era vera la storia della vecchietta fantasma.»
confessò un giorno, l’ultimo giorno.
Il
parco di Iwatobi era rivestito di rosso e
marrone, ed era buffo perché Rin aveva pensato proprio che
fossero i loro colori.
Gli alberi si stavano spogliando come si erano pian piano spogliati i
loro
segreti.
Makoto
sorrise, con le mani infilate nelle tasche
della felpa. «Ah, grazie per avermi spaventato.»
Rin
alzò le spalle e si appoggiò con la schiena
alla scala dello scivolo.
C’era
stato un tempo in cui aveva creduto che
Makoto fosse solo una virgola un po’ sbiadita del suo diario
di ricordi e che,
diversamente da Haru, non avesse più poi così
senso. Era stato quasi
paradossale, a diciassette anni, scoprire che Makoto, invece, aveva
saputo
correggere tutti i suoi orrori di ortografia e si fosse autonomamente
tracciato
come un punto carico d’inchiostro e ben definito sulla
pagina. Come se non ne
avesse avuto abbastanza, Rin aveva a lungo desiderato che quel punto si
trasformasse in delle virgolette aperte, ma il destino delle cose aveva
voluto
che andasse diversamente.
«Comunque
è finita.»
«Nh?»
«Con
Haru, è finita.»
Makoto
lo guardò con gli occhi spalancati e le
labbra dischiuse. Rin ebbe il coraggio di ricambiare lo sguardo solo
per
qualche secondo prima di sentirsi un infimo vigliacco.
«Abbiamo
parlato.»
«Perché?»
«Sembra
quasi che ti dispiaccia.»
«Perché?»
Un
filo di vento sollevò dal terreno un mucchietto
di foglie che si disperse sulle loro scarpe.
Rin
ne fissò una rossa che si era intrappolata fra
le stringhe.
«Perché
non mi amava.» rispose.
Makoto
fece un passo verso di lui. Il suo tono
sembrava tranquillo come al solito, ma era evidente che si stava
comportando
diversamente. Fu una delle prime volte che, guardandolo, Rin non lo
vide con
quella bell’increspatura delle labbra.
«Te
l’ha detto lui?»
«Sì.»
mentì.
«Non
ci credo, sul serio.»
«Potrebbe
non avermi detto che non mi ama, ma a te
ha detto che ti ama?»
Da
come lo sguardo di Makoto vacillò e le sue
spalle sussultarono, Rin capì che sì, gli aveva
detto che lo amava forse più di
una volta.
«A
me mai.» continuò.
«Non
significa niente.» sibilò in risposta lui.
Rin
scosse la testa, ghignando. «Makoto, sul serio,
questa situazione è ridicola… Lui è il
tuo ragazzo, non puoi cercare di
convincermi a… a tornare!»
E
Makoto abbassò la testa, guardando la foglia
sulla scarpa di Rin.
«Stai
male?» Chiese.
Rin
si morse il labbro inferiore per qualche
istante. «Ci pensi a te stesso ogni tanto?»
Sapeva
che non avrebbe avuto la superbia di
confessare che no, non ci pensava mai, e così lo
osservò grattarsi il naso
mentre ancora
fissava il terreno e
vacillava spostando il peso da un piede all’altro.
Rin
colse l’occasione per riprendere fiato senza
farsi vedere e stropicciarsi l’occhio destro.
«Non
si trattava di fame e sete, alla fine. Tu eri
la fame e la sete insieme e io ero…
l’appetito.»
«Rin…»
«No
no, ti prego, lascia che sia io a spiegare a te
una cosa questa volta!» lo interruppe, consapevole che se
Makoto avesse detto
una delle cose che era solito dire dall’alto del suo essere
un umano di cuore
probabilmente avrebbe pianto ancora. «Haru non aveva davvero
bisogno di me.»
«Come
fai a dirlo?»
«Makoto,
ti prego.»
«Rin,
non essere testardo!»
«Posso
darti un pugno se ti fa sentire meglio.» lo
disse senza davvero pensarci troppo. Pensava solo che Makoto cercasse
il modo per
riscattarsi e subire un qualche tipo di perdita per non sentirsi troppo
vincitore su un perdente in svantaggio, e nei suoi termini picchiarlo
come
avrebbe voluto fare sin dall’inizio poteva essere una buona
base.
Ma
Makoto sorrise, per la prima volta di nuovo.
«Non vorresti mai picchiarmi davvero.»
Rin
ghignò ancora. «Potrei farlo se mi implorassi
in ginocchio.»
Lui
sorrise nuovamente e Rin in quel momento
desiderò di sentire le sue mani come le aveva sentite in
piscina e alla
stazione, quel giorno. Le spalle di Makoto tutto d’un tratto
sembravano essere
così larghe solo perché lui ci si potesse premere
contro e perdersi nel suo
odore.
«Facciamo
così.» si slanciò in avanti per
staccarsi
dalla scaletta dello scivolo ed infilò le mani nelle tasche
dei pantaloni.
«Siamo pari se tu mi mostri la cosa più importante
che Haru ti abbia mai
lasciato di sé.»
E
Makoto sollevò lo sguardo, facendo tremare Rin
come le ultime foglie che si accingevano a cadere intorno a loro, e
quando
tutto fu detto seppe solo che non avevano più modo per
tornare indietro.
«Te.»
Le
loro gabbie si fusero come neve sotto il sole e,
alla fine, l’ultimo respiro di Rin lo rubò Makoto.
Note
dell’autrice:
Questa
cosa
sarebbe dovuta essere molto più breve di sei pagine. Ne
avevo calcolate appena
una e mezza, due, ed alla fine non so come mi sono ritrovata a sei. E
vabbèèè.
Mi
sono innamorata della MakoRin mentre la scrivevo.
Cioè, non prima, ma mentre. Non chiedetemi perché
abbia cominciato a scriverla!
Ho una tale fame (per restare in tema) di Free!
che evidentemente posso soddisfare solo scrivendo boiate su boiate
finché non
sarò sazia perché, veramente, è
diventato un pallino fisso e non riesco ad
andare avanti in altri progettini che avevo messo su prima.
Aaaaargh,
maledetti sexy nuotatori!
Anyway,
spero che la storia vi sia piaciuta. Magari
fatemi sapere se mi devo ritirare dal fandom, eh, me ne farò
una ragione.
Thanks
<3 ~
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