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Capitolo 3: La battaglia di Uglùk
Boromir si divincolò nelle
corde, cercando di liberarsi, riuscendo però solo a peggiorare la sua
situazione. Le funi che lo legavano al tronco del grande albero premevano
dolorosamente contro le sue ferite, e la corteccia nodosa dell’albero gli
martoriava la schiena, le braccia e i polsi. Aragorn era seduto accanto a lui,
legato allo stesso albero, ma il frastuono delle voci degli orchi e il rumore
delle asce che battevano sul legno rendevano difficile parlare: nonostante la
loro vicinanza, i due uomini si sentivano isolati.
Con un sospiro di
frustrazione, Boromir piegò la testa all’indietro appoggiandola al tronco,
desiderando solo di poter chiudere gli occhi e dormire. Da quando l’oscurità era
caduta su di lui aveva trovato stranamente difficile dormire, nonostante la sua
stanchezza. Sapeva che questo era dovuto alla paura che si annidava nella sua
mente - paura di non risvegliarsi, o peggio, paura di non riuscire più a
distinguere, in quell’eterna oscurità, tra sonno e veglia, tra vita e morte. Era
una paura infantile, lo sapeva, considerando che restare sveglio significava
dolore e miseria, ma ciononostante non riusciva a liberarsene. Desiderava
soltanto il semplice, riposante conforto di poter chiudere gli occhi e fuggire
lontano dalla realtà.
Sospirò di nuovo, trasalendo
quando la corda urtò contro la ferita nel suo fianco.
Come richiamato dal suo
silenzioso sibilo di dolore, Uglùk arrivò a grandi passi, fermandosi accanto
all’albero per schernire i due prigionieri.
“Non mettetevi troppo comodi”
rise, “Appena farà buio e arriveranno i ragazzi di Mauhùr ce ne andremo”.
Boromir fece una smorfia, la
cosa più simile ad un'espressione di sfida che gli riuscì, avendo gli occhi
bendati. “Non se vi trovano prima i Cavalieri”, disse. “Vi trafiggeranno sulle
loro picche e vi arrostiranno su vostri stessi falò, Uglùk”.
Uglùk sembrò trovare quelle
parole estremamente divertenti. “Che vengano pure! Sono pronto ad affrontare
quegli allevatori di cavalli e le loro lance lucenti. Che vengano pure, dico
io!”
Si incamminò con passo
pesante verso il frastuono, ridendo, lasciando Boromir intento a chiedersi che
cosa gli orchi avessero in serbo per i Rohirrim. I biondi Figli di Eorl
sarebbero stati abbattuti dalle spade di quelle vili creature, e Boromir
rabbrividì, sapendo che non avrebbe potuto fare nulla per impedirlo. Digrignò i
denti, frustrato dalla sua inutilità. Boromir di Gondor non poteva sopportare di
essere inutile. La rabbia lo rendeva inquieto, impaziente, desideroso di azione.
Non riuscendo più a stare in
silenzio, parlò cercando di farsi sentire al di sopra del rumore degli orchi.
“Grampasso?”, chiamò.
“Si?”
“Cosa stanno costruendo?”
“Una barricata. Ormai è già
alta quanto un uomo, e piega verso la foresta per proteggere i lati”.
A Boromir bastarono pochi
instanti per capire la strategia di Uglùk. Il capitano degli orchi avrebbe
piazzato i suoi arcieri dietro la barricata di legno, e sterminato i soldati a
cavallo, coprendo nel frattempo la ritirata del resto del gruppo verso la
foresta. Un piano semplice e efficace, pensò Boromir, ma c’era qualcosa che non
lo convinceva. Poi capì.
“Da quando gli orchi sono in
grado di costruire?”, chiese ad Aragorn. “Credevo che non sapessero fare altro
che uccidere e distruggere”.
“Non è forse quello che
stanno facendo? Abbattono alberi, così da poter uccidere i Cavalieri.”
“Certo, ma non lo trovi
strano? Un orco che mette a punto una strategia? Mi aspettavo che Uglùk fuggisse
semplicemente nella foresta, contando sul fatto che i Cavalieri non osassero
seguirlo. E invece si è fermato qui a costruire una fortificazione, a coprire la
ritirata, a preparare un contrattacco…”
“Combatte come un uomo”,
completò Aragorn, “Come un soldato”.
Rimasero entrambi senza
parlare per un lungo momento, poi Aragorn aggiunse, cupamente: “Un altro degli
inganni di Saruman. Gandalf disse che Saruman aveva creato questa razza di orchi
più forti e più resistenti. Sembra che gli abbia dato anche qualcosa che Gandalf
non aveva previsto”.
“Così i Rohirrim cavalcano
verso la morte senza saperlo. Stanno inseguendo un gruppo di fuggiaschi.
Incontreranno un esercito”.
Dopo quell’amara
considerazione restarono entrambi in silenzio. Non avevano nient’altro da dirsi,
nessun conforto da offrire; insieme ai Cavalieri sarebbe morta anche la loro
speranza. Nessuno di loro ne aveva parlato esplicitamente, ma entrambi avevano
sperato che la venuta dei Rohirrim avrebbe significato salvezza. Ora invece
temevano che avrebbe portato solo altre sofferenze e altro dolore da aggiungere
ai misfatti di Saruman. Altro sangue sulle mani dello stregone.
Gli orchi continuarono a
lavorare, abbattendo un albero dopo l’altro per innalzare la loro barricata.
Uglùk camminava avanti e indietro gridando ordini e calando la frusta ovunque il
lavoro non procedesse abbastanza rapidamente per i suoi gusti. Gli occhi degli
orchi continuavano a correre verso le colline che si estendevano ai margini
della foresta, cercando di scorgere in lontananza l’arrivo dei primi cavalieri,
e di tanto in tanto se ne udiva uno lamentarsi.
“Mi domando che cosa ha in
mente Uglùk! A quest’ora dovremmo già essere al sicuro nella foresta buia, dove
quei dannati Cavalieri non potrebbero trovarci, invece che essere qui ad
aspettare di ritrovarci con una lancia piantata in gola. A che gioco sta
giocando?”
“Giocando?”, ringhiò Uglùk,
“Ti farò vedere io come giocano gli Uruk-hai, razza di scimmia! E quando avremo
ammazzato tutti i cavalieri, mi ringrazierai di non dovere correre fino a
Isengard con loro alle calcagna! Ora muovi la tua pigra carcassa, prima che te
la scortichi a frustate! Muoviti!”
Gli orchi si mossero, gli
alberi caddero, e la barricata si innalzò lentamente attorno a loro. Quando il
sole fu calato oltre le montagne a ovest, dalla foresta giunse marciando
frettolosamente un altro gruppo di orchi. Arrivarono accompagnati da una babele
di grida, risate e fragore di spade, e la squadra di Uglùk li accolse con
entusiasmo.
“Mauhùr!”, muggì Uglùk, “Dove
diavolo vi eravate nascosti tu e i tuoi vermi? Qui c’è lavoro da fare. Gente da
uccidere!”
Mauhùr, un orco parecchio più
piccolo di Uglùk, sbattendo le palpebre rapidamente per evitare la luce del sole
che tramontava, ribatté alla provocazione con una risataccia. “Vermi, dici? Beh,
questi fermi ti faranno comodo quando arriveremo alle montagne. Abbiamo
aspettato il tramonto. I miei ragazzi non stanno a cuocersi sotto il sole quando
c’è una bella foresta a portata di mano per nascondersi”.
Ringhiando di disgusto per la
loro debolezza, Uglùk mandò gli orchi delle montagne ad aiutare i suoi Uruk-hai
con la barricata, mentre si ritirava in disparte con Mauhùr per una
conversazione privata.
L’attività si fece ben presto
febbrile, alimentata dall’energia dei nuovi arrivati e dal sollievo causato
dall’assenza del sole. Ma a un tratto, il trambusto cessò all’improvviso, e un
silenzio innaturale cadde sulla truppa. Niente più grida, niente più rumore di
asce, nemmeno il fruscio delle foglie. La stessa Fangorn sembrava trattenere il
respiro in attesa.
In quel silenzio innaturale,
Boromir sentì il terreno sotto di sé vibrare in profondità. Zoccoli di cavalli.
“Stanno arrivando”, mormorò
Aragorn. Come ad un segnale, gli orchi cominciarono a gridare tutti insieme.
“Ai! I Cavalieri! I
Pelle-bianca ci sono addosso!”
“Arcieri sulla barricata!”,
tuonò Uglùk, sovrastando con la sua voce il frastuono. “Snaga, tu sul lato
destro, Durbàk, sul sinistro! Sbrigatevi, ragazzi!”
Gli orchi obbedirono,
lasciando cadere qualunque cosa avessero in mano per prendere le armi e si
affrettarono verso la barricata. Nonostante la confusione, sembravano sapere
esattamente che cosa ci si aspettava da loro, e gli ordini di Uglùk arrivavano
con regolarità, arginando il panico, calmando le grida, e ingondendo negli orchi
una rabbia feroce e determinata.
“Tenete giù la testa, non
tirate ancora! Aspettate, ragazzi, aspettate! Lasciate che superino le colline e
poi dateci dentro! Fermi ora…”
Nell’aperta pianura, i
Cavalieri arrivarono galoppando in una veloce colonna, cavalcando in file da
tre. Tenevano le lance alzate, con l’asta che poggiava sullo stivale e la punta
che scintillava verso il cielo. Un manipolo di arcieri cavalcava a fianco della
colonna, ma non avevano le frecce incoccate: stavano seguendo le tracce di un
gruppo di orchi in fuga e non si attendevano un attacco. Nella luce del sole
morente, con le loro cotte di maglia rilucenti e i chiari capelli che
svolazzavano da sotto gli elmi, apparivano splendidi e letali.
Quando si furono avvicinati
al limite del territorio collinoso, trovandosi di fronte la fitta ombra di
Fangorn, il loro capo si alzò sulle staffe per osservare la traccia degli orchi.
Piegava attraverso le praterie di Rohan, incontrando le secche fangose dell’Entalluvio,
nel punto in cui usciva dalla foresta per poi seguire la riva orientale del
fiume fino al limite degli alberi. Il cavaliere si sedette di nuovo sulla sella
e si voltò, il viso orgoglioso sotto l’elmo splendente, per dare un ordine al
suo secondo. A quelle parole, l’intera colonna svoltò apparentemente senza
sforzo a destra, seguendo la traccia di erba annerita verso la foresta.
Il sole era ormai scomparso
oltre i picchi che torreggiavano alla loro sinistra, e le prime ombre della
notte cadevano sulla foresta ai piedi della montagna. In alto, il cielo era
ancora illuminato dalla luce serale, ma le praterie erano già nell’ombra, e
l’oscurità minacciosa della foresta si profilava davanti a loro. Eppure i
cavalieri continuavano a galoppare, senza preoccuparsene, poiché la loro traccia
era chiara.
Èomer, Terzo Maresciallo del
Riddermark, cacciava orchi sin da quando aveva imparato a stare su un cavallo.
Sapeva che non si sarebbero mai voltati ad affrontare soldati a cavallo, a meno
che non fossero in schiacciante superiorità numerica, o fossero con le spalle al
muro e costretti a combattere. Ma questi orchi non erano in numero sufficiente,
e se avessero raggiunto i margini di Fangorn, avrebbero avuto tutte le valli
ombrose per nascondersi. Non avrebbero combattuto. Sarebbero fuggiti, e il
compito di Èomer sarebbe finito solo quando si fosse assicurato che i loro piedi
non avrebbero più calpestato i prati del Mark.
L’èored risalì
rapidamente la riva orientale del fiume, verso i primi alberi più esterni. Èomer
si alzò nuovamente sulle staffe per scrutare la traccia, ma non poté vedere
nulla al di sotto dei fitti rami della foresta. La pista rimaneva parallela all’Entalluvio,
tuffandosi insieme ad esso tra gli alberi, verso la fitta oscurità. Il Cavaliere
corrugò la fronte. Non temeva la foresta, sebbene la trattasse con il dovuto
rispetto, ma mentre osservava quell’ombra impenetrabile, cercando un punto dove
i Cavalieri avrebbero potuto passare, ricordò tutti i racconti che aveva sentito
da bambino, e un involontario brivido lo percorse.
Scuotendosi di dosso il suo
disagio, Èomer segnalò all’èored di proseguire, e guidò il suo cavallo in
mezzo alla fitta vegetazione. Quando passò sotto i primi rami, l’ombra gli si
parò davanti all’improvviso. Stava ancora cavalcando verso di essa, quando, con
sorpresa, si accorse che era solida. Una muraglia di tronchi rozzamente
tagliati, gettati sul loro sentiero. Con un grido di avvertimento, sollevò la
mano per fermare i Cavalieri, ma la sua voce fu coperta da un assordante
frastuono di grida e ululati provenenti dalla sommità del muro. Una pioggia di
frecce si abbatté sui Cavalieri, trafiggendo elmi, armature, carne e animali. I
cavalli nitrirono di dolore e gli uomini gridarono di rabbia.
Èomer fermò il suo cavallo
così repentinamente che quasi lo fece sedere sulle zampe posteriori, spronandolo
verso destra in un galoppo selvaggio. Si trovò a percorrere l’intera lunghezza
di una barricata che si ergeva bloccando il passaggio accanto all’Entalluvio. Il
muro cominciava dal fiume sulla sinistra, curvando fino a una fitta macchia di
alberi sulla destra, ed era alto quasi quanto la testa di un uomo a cavallo.
Sulla sua sommità di affollavano gli orchi, che scagliavano le loro frecce nere
sulla massa dei Cavalieri.
Èomer aggirò la colonna di
combattenti e voltò il cavallo verso le pianure, richiamando i suoi uomini
mentre galoppava, “A me, Cavalieri di Rohan, a me!”. Accanto a lui, Èothain
suonò il suo corno per segnalare la ritirata.
Un’altra raffica di frecce
sibilò e si abbatté su di loro mentre fuggivano. Un uomo gridò di dolore e cadde
di sella. Un cavallo inciampò, il collo trafitto da una freccia. Eppure i
Cavalieri, disciplinati, si disposero attorno al loro capitano e sotto il suo
comando si allontanarono dalla barriera letale.
Ma altri ancora caddero,
poiché le potenti frecce, lanciate a distanza ravvicinata, perforavano le
armature e trovavano aperture negli elmi. Un arciere alla fine della colonna
rispose scagliando a sua volta una freccia, e un orco precipitò dalla sua
postazione col dardo conficcato nell’occhio, mentre l’èored si affrettava
verso lo spazio aperto delle colline, lasciando una schiera di morti e moribondi
alle sue spalle.
Boromir sentì le grida dei
cavalli e degli uomini morenti, e chinò la testa, afflitto. Per quanto tentasse,
non riusciva a ignorare il familiare rumore della battaglia, e attendeva con
dolorosa apprensione l’attacco successivo. I cavalieri avrebbero attaccato di
nuovo, lo sapeva, perché l’onore li avrebbe costretti a vendicare la morte dei
loro compagni, e il dovere imponeva loro di distruggere i nemici che avevano
invaso i loro confini. Molte volte aveva combattuto a fianco dei Cavalieri di
Rohan, e non dubitava che essi tenessero in considerazione l’onore e il dovere
quanto qualsiasi soldato di Gondor.
Due volte i cavalieri si
gettarono contro la barricata, e una volta tentarono di sorprendere gli orchi
attaccando il lato destro. Gli orchi li respinsero con facilità, e Boromir
rabbrividì d’orrore nel sentire i loro ululati di gioia mentre finivano con le
spade i cavalieri caduti. Poi, quando la notte fu troppo buia per vedere, i
Rohirrim si ritirarono appena fuori dalla portata delle frecce, e accesero
numerosi falò in uno stretto semicerchio attorno alla barricata.
Gli orchi si divertirono per
un po’ gettando una serie di proiettili improvvisati verso i Cavalieri
silenziosi, in attesa, accompagnandoli con insulti e insolenze. Ma ben presto,
vedendo che i Cavalieri non si muovevano oltre il cerchio di luce formato dai
fuochi, si stancarono del passatempo e persero interesse. Gli orchi
ricominciarono a lamentarsi della capacità di comando di Uglùk, dimenticando il
massacro e il saccheggio che aveva appena procurato loro, e stavano già per
abbandonare le loro postazioni sulla barricata quando il grido di una sentinella
li fece correre di nuovo alle armi.
Un istante dopo Boromir udì
l’inconfondibile sibilo delle frecce, e un altro rumore che non riuscì a
identificare subito - una specie di crepitio che non aveva niente a che fare con
le frecce.
“I Cavalieri stanno usando la
testa”, disse Aragorn. “Stanno usando frecce infuocate. Vogliono dare fuoco alla
barricata”.
“Un legno così verde
brucerà?”
“La corteccia sicuramente”.
Come per dimostrare la verità
di quelle parole, una freccia vagante superò la barricata, conficcandosi in alto
nell’albero al quale erano legati i due uomini. Boromir, sentendola, alzò
istintivamente lo sguardo. Un pezzo di tessuto infuocato gli cadde sul viso, e
lui lo scosse via con un’imprecazione. L’odore del fumo riempì l’aria, insieme
alle grida crescenti degli orchi furiosi, ma i due uomini non stavano più
prestando alcuna attenzione alla battaglia. Erano ben più preoccupati delle
fiamme che stavano cominciando a lambire i rami più bassi dell’albero cui erano
legati, divorandone la corteccia antica e raggrinzita, divampando fin su alle
foglie secche.
“E noi ci preoccupavamo di
Saruman”, osservò Aragorn, amaramente.
Boromir rise senza allegria,
scostando un altro tizzone ardente.
“Credevo di essere pronto a
morire per il mio Re, ma a quanto pare mi ero sbagliato. Se compiace a Vostra
Maestà, il vostro Sovrintendente umilmente richiede di farci uscire da questa
situazione prima che finiamo arrostiti come due cinghiali allo spiedo!”
“E’ con grande rammarico che
rispondiamo al nostro Sovrintendente, ma abbiamo le mani legate…”
Boromir imprecò di nuovo,
quando altri frammenti di corteccia in fiamme caddero sulla sua gamba,
rischiando di incendiare la stoffa dei calzoni. Aragorn sibilò per il dolore, e
cominciò ad agitarsi per liberarsi dalle corde. Il fuoco, che stava divorando
rapidamente l’albero, cominciò a diffondersi anche verso il basso, avvicinandosi
ai due uomini seduti. I loro visi erano coperti di cenere e sudore, l’aria era
troppo densa per respirare, e il legno dietro di loro diventava sempre più
rovente.
Boromir si fece forza,
preparandosi ad affrontare la morte e a pronunciare l’ultimo giuramento di
fedeltà davanti al suo Re, ma i suoi pensieri furono interrotti dall’improvvisa
ristata stridula di Uglùk.
“Ci siamo, ragazzi, è ora di
andare!”
Quando il grande orco si fece
strada verso di loro e recise le funi con un solo colpo di coltello, Boromir si
lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. L’orco se ne accorse e rise di nuovo.
“Non avrete pensato che avrei lasciato arrostire la preda di Saruman per colpa
di una manciata di pelle-bianca, vero? Ci siamo divertiti abbastanza con i
cavalieri, ora è il turno di Mauhùr. Lui li terrà a bada, mentre noi Uruk-hai ce
ne torniamo al lavoro. Muovetevi, ragazzi!”, gridò a un gruppo vicino di orchi.
“Domani a quest’ora saremo alle caverne, e poi si torna a casa! A Isengard!”
Ruvide mani afferrarono
Boromir, che si trovò sballottato di nuovo sulla spalla di un orco. Poi, con un
grido di incitamento, gli Uruk-hai si inoltrarono a grandi balzi nella foresta.
Continua…
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