i am legend
Prologo:
Un
colpo sulla porta, e poi un altro ancora, e di nuovo, sempre
più forte. Per fortuna
era blindata. Eppure chissà quanto ancora avrebbe retto
sotto quei colpi.
Ma
in quei lunghi e solitari anni Beatrice aveva imparato che bisognava
sempre
guardare il lato positivo delle cose. Per esempio quei colpi
così violenti
sulla porta
impedivano
agli altri rumori di raggiungerla. Non sentiva i lamenti e le grida
inumane che
venivano da fuori, appena oltre le finestre sigillate.
Beatrice
rimaneva ferma, senza fare il minimo rumore, nascosta dietro alla
cassettiera
della camera da letto con tutte le luci spente, immersa nella
più totale
oscurità. Aveva le gambe raccolte al petto e stringeva in
mano una piccola
torcia agli ultravioletti, che non le sarebbe servita a niente in
termini
pratici, ma che le avrebbe regalato, in caso, un'ultima soddisfazione.
Un
altro colpo, poi niente. Dalla porta non arrivava più nessun
suono. La ragazza
rimase ad ascoltare, e alla fine decise che era andato via, che aveva
rinunciato, e provò a rilassare i muscoli, scoprendo, con
sua somma sorpresa,
che non aveva muscoli da rilassare. Così si accorse di non
aver avuto paura.
Il
tempo del terrore era finito quando il flagello di Cripping aveva reso
il mondo
un luogo silenzioso, perché avere paura era diventata una
norma. Beartice poggiò
la piccola torcia a terra, accanto a lei, e cercò con la
mano, senza alzarsi,
l'interruttore della luce appena sopra di lei, tastando il muro nel
buio.
Quando
la finestra sussultò la ragazza si ritrasse ancora di
più nell'ombra,
afferrando di nuovo la torcia e stringendola in grembo. La finestra
subì
un'altro colpo, più violento del precedente. Beatrice
escluse che avesse potuto
sentirla: li separavano tre centimetri di acciaio, e comunque lei non
si era
mossa. Ma quello continuava a sferzare il metallo con sempre maggior
violenza,
e aveva cominciato ad incrinarlo. Gli occhi ambrati della ragazza
scivolarono
nel buio verso il letto. ci si sarebbe potuta nascondere sotto. Oppure
sarebbe
potuta uscire di soppiatto dalla stanza, ben attenta a non far rumore,
e
raggiungere il ripostiglio delle scope, dove il padre due anni prima
aveva
riposto un fucile a pompa, poco pratico ma letale, e le aveva detto di
usarlo
per le emergenze, solo per quelle.
Così
Beatrice analizzò le varie alterative alla propria morte
certa e scoprì di
averne diverse in grado di darle almeno qualche possibilità
in più di non
crepare.
Invece
non si mosse, rimase a guardare incantata l'acciaio piegarsi e
sformarsi sotto
i colpi violenti.
Cinque
anni prima il mondo era cambiato drasticamente, e lei e tutti gli altri
non
avevano potuto far altro che accettarlo, e abituarsi. Due anni prima
lei era
rimasta sola. Ora aveva la voce arrochita dal silenzio,
perché non c'era più
nessuno con cui parlare.
E
quando arrivò un altro colpo possente e si sentì
l'acciaio schioccare si rese
conto che poteva andare bene anche così. Aveva resistito,
era stata in grado di
abituarsi a vedere il mondo cambiare e diventare muto, si era abituata
a
sopravvivere e aveva accettato la realtà in cui viveva come
una disgrazia ma
anche come la sua vita, aveva deciso che avrebbe protetto quello che
considerava importante e che avrebbe continuato a vivere,
perché la vita era
diventata una cosa di valore.
Ma
adesso era rannicchiata nel buio come uno scarafaggio e si accorse che
non le
importava. Che le avevano portato via tutto e che se volevano potevano
prendersi anche quello.
La
finestra non avrebbe retto ancora per molto. Se volevano entrare, che
fosse. se
volevano entrare, potevano farlo. Sarebbe morta, e le andava bene, ma
decise
che
li
avrebbe lo stesso bruciati con la torcia, quegli stronzi.
L'acciaio
si incrinò irreparabilmente, un altro colpo ancora e poi
sarebbe tutto finito,
ma dall'ingresso esplose un boato e la casa si illuminò a
giorno.
Beatrice
sobbalzò e la investì un calore insopportabile e
l'odore del fuoco che brucia.
Sentì delle voci arrivare dall'atrio, voci umane. Dopo un
istante di sgomento
cercò di raggiungerle, ma la finestra cedette e quello che
una volta era un
uomo riuscì ad entrare nella sua casa, si eresse in piedi e
la fissò con i suoi
occhi neri e affamati. La ragazza si rese conto in un solo istante, con
una
lucida consapevolezza, che non poteva scappare. Abbandonò le
braccia lungo i
fianchi, mentre la creatura allungava una mano glabra e diafana verso
di lei.
Un
lampo, un colpo, il rumore di uno sparo, e poi lei volava, sospesa
nell'aria, e
poi di nuovo a terra ma molto più in là di prima.
C'era qualcosa che la
bloccava,
che
le impediva di muoversi. Sembravano braccia.
L'avevano
presa, l'avrebbero uccisa, ed improvvisamente non andava più
bene,
improvvisamente sopravvivere era tornato ad essere una cosa importante.
Urlò,
cercò di liberarsi, ma la presa attorno a lei si fece
d'acciaio e una mano le
scivolò sulla bocca. Beatrice si paralizzò: un
comportamento troppo complesso
per essere uno di loro.
Poi
sentì una voce, la prima dopo troppo tempo, la prima davvero
reale, che non
fosse delle sue allucinazioni, bella e calda, limpida, umana.
"Fai
silenzio. Va tutto bene"
Anna
ricaricò in fretta, perché sapeva che ne
sarebbero venuti parecchi altri, ma la
finestra sfondata poteva essere un problema serio. Sfilò una
bomba fumogena
dalla cintura e la lanciò nel vuoto. Istantaneamente la
stanza si riempì del
disgustoso odore dell'aglio. Almeno così potevano stare
tranquilli per un paio
di minuti. Cercò i compagni nell'ombra e fece loro rapidi
cenni. Quelli
eseguirono, dividendosi. Lei si diresse di nuovo verso l'atrio, dove
avevano
fatto saltare la porta blindata, ed imbracciò il fucile.
Dodici,
forse quindici infetti avanzavano come fulmini verso di loro. Anna si
mise
sulla soglia della porta e premette il grilletto, osservandoli
stramazzare al
suolo.
L'ultimo
di loro arrivò pericolosamente vicino, ma cadde a terra come
tutti gli altri.
Ma già ne arrivavano di nuovi, e bisognava sbrigarsi
perché tutto quel chiasso
ne avrebbe attirati ancora di più. Poi gli altri due membri
della squadra le
scivolarono accanto e insieme lasciarono la postazione per dirigersi al
furgone
blindato.
Non
era più importante non farsi vedere. Quello che avevano
potuto fare lo avevano
fatto. Impiegarono pochi secondi per arrivare al mezzo, e quando fu a
pochi
centimetri dalla portiera Anna sfilò un altro fumogeno
all’aglio contro l’orda
di creature che li stavano inseguendo. Sentì dei colpi di
mitragliatrice
affianco a lei e vide con la coda dell’occhio che li stavano
circondando.
Dovevano andarsene.
“Dove
sono gli altri?!” gridò nel buio, senza vedere i
compagni.
Ma
nel caos degli spari nessuno le rispose.
Poi
qualcosa le scivolò di fianco. Fulminea Anna
puntò la pistola, ma una mano più
veloce della sua afferrò l’arma e la
scansò, lasciando intravedere nel buio
degli occhi smeraldi dal taglio affilato.
“Con
quella rischi ancora di farmi male, sai?”
I
muscoli della ragazza si rilassarono. Allora notò che il
compagno portava
qualcuno in spalla. Una ragazza dall’aria smarrita,
totalmente immobile. Non
fecero in tempo a scambiare una parola di più. Una delle
creature superò il
muro di proiettili e li raggiunse. Anna venne morsa al braccio,
riafferrò la
pistola e sparò alla testa del nemico. Dall’altro
lato del furgone esplose
l’ennesimo fumogeno all’aglio. Il compagno dagli
occhi smeraldi si coprì il
viso, infastidito.
“Andate
via, me la sbrigo io”
Anna
obbedì immediatamente, senza discutere, e diede
l’ordine di salire sul mezzo.
Prese posto sul sedile del passeggero, ed ascoltò immobile
il rombo del motore
e i ruggiti delle creature che si scagliavano nel vuoto nel tentativo
di
fermarli.
C’era
un odore pungente di sangue secco e terra. Erano in molti, non ci mise
tanto a
capire che erano in toppi. Quella città era loro.
Le
luci della macchina furono presto lontane, ma nel buio così
fitto erano ancora
ben visibili. Ma lui era lì per questo, per evitare che li
seguissero. Cominciò
a correre nella direzione opposta, cercando di fare più
rumore possibile,
rovesciando tutto quello che gli capitava a tiro. In meno di dieci
secondi lo
circondarono, bloccandogli ogni via d’uscita.
Inarcò
un sopracciglio: un comportamento complesso, insolito per loro.
Ma
non importava. Non gli servivano uscite.
Rimanevano
immobili a guardarlo, come se aspettassero qualcosa, poi uno di loro
balzò in
avanti e gli fu addosso.
Bastò
scostarsi appena, scivolare di lato, la sua mano si chiuse sul collo
della
creatura e ne accompagnò il movimento, scaraventandolo via.
Poi, in un soffio
di vento, gli furono tutti addosso.
La
mano libera andò alla cintura ed estrasse un fumogeno. Lo
lanciò in aria, poi
le braccia tornarono raccolte accanto al corpo. Colpì alla
gola quello
immediatamente davanti a sé, lo scavalcò e
scivolò tra gli altri come un ombra,
sfuggendo ai loro attacchi, sfiorandoli appena. Nell’istante
in cui fu
sufficientemente lontano, il fumogeno toccò terra, e
l’odore di sangue e terra
venne scansato da quello pungente dell’aglio.
La
ragazza continuava a stringersi a lui saldamente, ma non sarebbe andato
troppo
lontano con quel carico così prezioso, così
delicato.
Svoltò
a sinistra, cercando di recuperare il furgone corazzato dei compagni, e
passò
le mani attorno alle gambe della ragazza per sorreggerla. Corse
più veloce che
poteva, ma non riusciva a seminarli. Dovevano essere così
affamati che nemmeno
l’aglio li aveva fermati.
“Devi
fare una cosa, te la senti?” domandò alla
sconosciuta. Lei annuì contro la sua
schiena.
“C’è
una pistola nella fondina a sinistra, sulla cintura. Prendila e
spara”
Lei
scosse la testa.
“Non
ti preoccupare” cercò di rassicurarla lui. Aveva
già il fiato corto. “Sono
talmente tanti che almeno uno lo prendi”
Dopo
un lungo istante di esitazione la ragazza eseguì. Si
levò il suono del suo
sparo, una, due, tre volte, e caddero dei corpi, e gli altri li
scavalcarono.
Beatrice
eseguiva l’ordine che le era stato impartito senza rendersene
davvero conto. In
una sorta di trance sentiva il rumore attutito dei corpi che cadevano,
orribilmente vicini. Troppo vicini. Aveva la vista appannata,
cercò di mettere
a fuoco. Riuscì a distinguerli appena mentre si muovevano
veloci nel buio. Uno
di loro le arrivò ad un soffio dal braccio e la
graffiò. Sembrò come se tanti
spilli le pungessero la pelle, il dolore si diffuse ed
arrivò fino alla punta
delle dita. Allora si rese conto che non avrebbero resistito a lungo,
che tra
poco li avrebbero presi. Ma anche il tempo della disperazione era
finito da
tanto, e così provò solo una rabbia prepotente.
Era arrabbiata per non essersi
portata il fucile, arrabbiata per il dolore al braccio, arrabbiata per
l’orrore
di Cripping e tutto il male che aveva portato, ma soprattutto
arrabbiata perché
le avevano rovinato l’unico cazzo di vestito buono che aveva,
e adesso le
toccava crepare con la maglietta sgualcita e macchiata di sangue. Era
così
arrabbiata che prese la mira con cura e aspettò
finché non fu assolutamente
sicura di centrare il bersaglio. Sparò a quello che
l’aveva morsa, e lo mancò.
Beatrice bestemmiò Dio, poi tirò la pistola in
testa all’infetto e questa volta
lo prese. Si lasciò sfuggire un sorriso di soddisfazione,
poi cominciò a
piangere in silenzio.
Erano
quasi arrivati, sentiva lontano il rumore del furgone che correva sulla
strada.
Poi altri due infetti gli tagliarono la strada e gli si scagliarono
contro.
Cercò di scartarli ma portava un fardello troppo pesante e
non ci riuscì. Lo
colpirono in pieno e cadde a terra. Sentì la ragazza perdere
la presa e cadere
più in là. Non sarebbe riuscita a salvarla.
Di
nuovo l’aria si impregnò dell’odore
dell’aglio, e le creature si ritrassero un
istante prima di ucciderli. Il fumogeno era caduto proprio a fianco
della
ragazza, che stava inerme a terra, forse svenuta o forse rassegnata. La
voce di
uno dei suoi compagni gli giunse dall’ombra dietro di lui.
“Giù
la testa!”
Obbedì.
Una scarica di proiettili illuminò l’asfalto a
giorno, e i volti sfigurati
degli infetti, tirati come teschi. Alcuni caddero, ma nessuno si mosse.
Avevano
fame. Dovevano mangiare. Avrebbero mangiato.
Afferrò
la ragazza e se la rimise in spalla, un peso morto che gravava inerte
sulle sue
spalle. Riprese a correre, cercando di ignorare l’odore
disgustoso della bomba
fumogena. Lasciò indietro il compagno.
Così
avrebbero mangiato.
I
lampi della mitragliatrice si fecero sempre più lontani, e
alla fine si
spensero. Impugnò un’altra granata e la fece
esplodere dietro di sé. Vide i
fari del furgone guizzare davanti a lui. Corse più che
poteva. C’era quasi. Ma
quelli già tornavano, perché il cibo non era
bastato, non li aveva saziati. E
ora che avevano assaggiato ne volevano ancora. Ma ormai era arrivato.
Uno
degli infetti li raggiunse, morse la ragazza al collo e lei
gridò di dolore, ma
riuscì a dimenarsi e ricacciarlo indietro.
Saltò,
in alto, nonostante gli bruciassero i muscoli delle gambe, sul tetto di
un
garage, e poi su un altro. A frotte lo seguirono. Erano sempre di
più.
Ma
ormai era arrivato.
Ripose
tutte le sue energie nell’ultimo salto. Uno di loro gli
graffiò appena una
gamba, un istante prima dello stacco, poi lui atterrò sul
furgone.
Anna
sentì il tonfo sul metallo e capì che era il suo
compagno. Premette
l’interruttore installato al posto della radio ed
azionò i fari
all’ultravioletto in cima al furgone blindato. Inondando la
strada di luce
nera.
Il
ragazzo dagli occhi smeraldi fece scattare la maniglia del portellone
posteriore e si infilò nella vettura, richiudendo
immediatamente. Li sentì
gridare di dolore mentre la luce li feriva, li uccideva. Rimase ad
ascoltarli.
Poi depositò il suo carico prezioso, la fece sdraiare a
terra, mentre Anna gli
chiedeva dove fossero gli altri due compagni che erano rimasti fuori.
Ma
lui non rispose. Li stava ascoltando morire.
“Avevano
fame. Dovevano mangiare”
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