Ninna
nanna
C’era una volta, tanto tempo fa, un bambino che aveva paura
della notte.
Non
del mostro nell’armadio, né dell’uomo
nero.
Semplicemente, della notte.
“Mi
sembra di sparire” spiegava alla mamma “come se la
notte avesse una bocca immensa, affamata, e mi divorasse in un solo
boccone”
“E
le stelle?” domandava lei, rimboccandogli le coperte e
sistemandogli accanto il suo gatto di peluche, Mr. Purr.
“Sono
i suoi occhi. Se non ci fossero le stelle, la notte non potrebbe
trovarmi e mangiarmi”
“E
la Luna?” domandava lei, scostandogli i capelli sottili dal
volto.
“La
Luna è la sposa della notte” rispondeva il
bambino, fissando la madre con estrema serietà.
Lei
sorrideva, di quel sorriso imperfetto delle persone che hanno davvero
una risposta.
“In
realtà, la Luna è un gigantesco parco giochi.
Quando ci stancheremo di vivere sulla Terra, potremo andare a giocare
sulla Luna, per l’eternità”
Il
bambino che aveva paura della notte non ne era molto convinto.
Dalla
Terra, non si vedeva nessun parco giochi.
E
allora, lei cantava per lui.
Era
una ninna nanna fragile come porcellana, incerta come i passi di un
ubriaco, dolce come zucchero filato.
Il
bambino non capiva bene tutte le parole, ma parlava di amore, di
rimpianto, di cose delicate e destinate a scomparire.
E
lui, di colpo, dimenticava la notte e le stelle e la Luna col suo parco
giochi.
Non
aveva più paura.
Era
come quando un singolo istante sfugge al fiume del Tempo e ti si
incolla addosso.
Se
qualcuno avesse chiesto al bambino quale fosse l’essenza
stessa della vita, lui non avrebbe capito la domanda, non conosceva quella parola
così difficile, da adulti, ma avrebbe
comunque risposto che era tutta lì, in
quell’istante immobile e perfetto.
Poi
la ninna nanna si spegneva come una candela, lentamente, e lui
già dormiva.
Il
giorno dopo, il bambino aveva di nuovo paura della notte.
Poteva
andare avanti così per l’eternità, una
ninna nanna al giorno per tenere lontana la bocca affamata della notte,
ma si sa che l’eternità è
un’invenzione degli amanti e dei ritardatari.
E
così, quella sera, la mamma non venne a cantare per lui.
La
mamma aveva una nuova casa, spiegò il papà.
Non
era molto grande, non c’era spazio per nessun altro a parte
lei, ma era di un bel legno robusto. Potevano andare a trovarla quando
volevano, aggiunse.
Il
bambino le portò dei fiori, per abbellire un po’
la nuova casa, che era decisamente spoglia.
“Mamma,
mi canti la mia ninna nanna?” domandò, ma senza
ricevere risposta.
Il
papà, le grandi mani abbandonate lungo i fianchi, aveva gli
occhi vuoti, lontani, grigi come il cielo sopra una grande
città. Sembrava infinitamente triste.
Il
bambino immaginò che fosse perché la mamma non
rispondeva. Era forse arrabbiata per qualcosa?
E
fu quello il momento. Un’improvvisa rivelazione.
La
mamma non rispondeva perché non era lì.
Era
nel luna park sulla Luna! Gli aveva sempre detto la verità,
dunque!
Era
tentato di dirlo al papà, dirgli di sorridere,
perché la mamma non era arrabbiata, semplicemente era a
giocare nel più grande luna park di tutti i tempi e, forse,
si era dimenticata che fosse l’ora di tornare a casa.
Poi
pensò che no, sarebbe stato lui a riportarla a casa.
Le
avrebbe stretto la mano come si stringe il filo di un palloncino quando
hai paura che possa volare via e l’avrebbe portata
giù con sé.
Quella
notte, per la prima volta, sentì di non avere paura.
Canticchiava
tra sé e sé la ninna nanna della mamma e sentiva
di capirne le parole.
Parlava
di amore, di rimpianto e di abbandono.
Parlava
di cose troppo delicate e preziose per sopravvivere, destinate a
scomparire, parlava del diventare grandi e del dover accettare gli
addii.
“Come
arriviamo sulla Luna?” domandò Mr. Purr, saltando
giù dal davanzale.
“Basterà
una scala”
Quella
notte, la Luna era immensa, una gigantesca insegna al neon di un bianco
accecante.
“Com’è
luminosa” fece notare Mr. Purr.
“E’
un faro per le navi che navigano nella Via Lattea” rispose il
bambino e indicò le centinaia di barchette, ben visibili
anche da quella distanza, che dondolavano tranquille sulle onde di
latte.
Appoggiò
la scala alla luna, si assicurò che fosse stabile e
iniziò a salire, con Mr. Purr sulla spalla.
La
salita fu lunghissima.
Le
barchette di carta si avvicinavano sempre di più, coi
minuscoli equipaggi che salutavano il bambino e il gatto. La
città era lontana quanto un ricordo, con le case giocattolo,
le stradine, i giardini ben curati, le persone che dormivano e
sognavano.
La
scala finì, il bambino e il gatto si ritrovarono sulla Luna.
Aveva una strana consistenza gelatinosa e un buon profumo, come di pane
caldo e noccioline del circo.
Il
vento portava con sé i rumori lontani del luna park.
Era
musica e poesia, urla di bambini, mezze frasi e parole incomprensibili,
il cigolio della ruota panoramica, il carillon della giostra coi
cavallini, le luci sfavillanti come farfalle, gli odori dolci e
malinconici.
“Non
possiamo restare qui” miagolò Mr. Purr,
improvvisamente inquieto.
“Devo
trovare la mamma”
“E’
ancora troppo presto”
“Devo
riportarla a casa” replicò il bambino, ma era
già meno convinto.
Erano
giunti a un crocevia. Era tutto così etereo e silenzioso.
Le
barchette si stavano allontanando nella notte e il faro stava per
spegnersi.
Alla
fine del mondo, da qualche parte tra il cielo e la terra, il Sole
sarebbe presto nato.
I
suoni del luna park erano adesso smorzati, come se arrivassero da
dietro un altissimo muro.
E
il bambino capì che c’era una distanza siderale,
incolmabile, tra lui e la sua mamma.
Non
avrebbe trovato il luna park, nemmeno vagando sulla Luna per mille
notti.
Il
palloncino gli sfuggì di mano, una folata di vento caldo se
l’era portato via.
Si
allontanò nella notte morente, rosso come una ciliegia
appena colta, sobbalzando qua e là come tendono a fare i
palloncini.
E
l’istante dopo era scomparso, tanto che veniva da chiedersi
da dove fosse improvvisamente comparso e se fosse mai esistito.
Veniva
da chiedersi se fosse una risposta accettabile e, soprattutto, a quale
domanda.
Le
onde della Via Lattea portarono alle orecchie del bambino
un’antichissima ninna nanna.
Parlava
d’amore, di rimpianto, di abbandono.
Parlava
del dover diventare grandi da soli.
Parlava
del dover accettare quelle distanze siderali e incolmabili, anche
chiamate ‘addii’.
Raccontava
di un luna park sulla Luna, il più grande di tutti i tempi.
Quando
ci stancheremo di vivere sulla Terra, andremo a giocare lì,
per l’eternità.
“In
fondo, è una promessa” commentò Mr.
Purr, con un miagolio “Si tratta solo di tornare
giù e crescere, anche se farà male. Anche se gli
addii sono taglienti come coltelli”
Alla
fine del mondo, da qualche parte tra il cielo e la terra, cominciava ad
albeggiare.
“Farà
male” concluse il bambino e comprese che la sua infanzia era
volata via assieme al palloncino rosso, lontano, oltre le stelle e la
volta scura del cielo “Però, ne varrà
la pena. E un giorno, tornerò qui e questa distanza siderale
si sarà sciolta come gelato. Tornerò qui e lei mi
starà aspettando, bella come il giorno in cui è
andata via”
La
ninna nanna lontana moriva assieme alla notte.
Parlava
soprattutto di amore e di attesa. Degli addii che sono come comete.
Della
primavera che torna a nascere dalle nevi dell’inverno.
Si
spegneva la grande insegna al neon della Luna.
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