Eccomi
di nuovo qua!
Questa
storia nasce come un sequel, inizialmente non previsto, de La
Spettrosonda. A differenza di quest'ultima
però, che
almeno nella mia mente era concepita come una sorta di
Poképasta,
questa ha più le caratteristiche di un vero e proprio
racconto
breve, forse un po' noir, per così dire. Devo segnalare
anche un
linguaggio leggermente più volgare rispetto al mio solito,
niente di
sconvolgente, comunque.
Anche
stavolta non mi aspetto acclamazioni, sono consapevole che la storia
potrebbe non piacere a tutti, ma io mi ci sono appassionata
tantissimo fin dal primo momento, a tal punto da girare per giorni
con il mio quaderno ovunque andassi per continuare a scrivere. Quindi
ho deciso di postarla nella speranza, forse vana, che sia un prodotto
gradevole per i lettori anche solo un quarto di quanto lo è
stato
per me.
Non
posso esimermi dal ringraziare profondamente e sentitamente Sky98,
senza il cui prezioso suggerimento questa storia non sarebbe mai
venuta alla luce.
Detto
questo, vi lascio alla lettura.
Enjoy!
Afaneia
La
rovina della Torre Pokémon
«Ebbene,
i francesi non si sono vendicati del traditore; gli spagnoli non
hanno fucilato il traditore; Alì, sepolto nella sua tomba,
ha
lasciato impunito il traditore; ma io, tradito, assassinato, gettato
vivo in una tomba, da cui sono uscito per miracolo, io debbo
vendicarmi, ed il cielo, giusto punitore dei malvagi, mi ha inviato a
punire, ed eccomi qui.»
Alexandre
Dumas, Il
Conte di Montecristo.
Capitolo
I –
Università degli Studi di Azzurropoli.
Sua
madre lo guardava
con una tristezza che con l'amnesia non aveva niente a che fare. Lo
guardava studiare gli enormi manuali che si era procurato, manuali di
fisica della materia, atomica e subatomica, ma anche libri
più
dimessi e vecchi, testi di scienze occulte, esoteriche,
sovrannaturali. Non diceva nulla, ma egli, Sakaki – aveva
ormai
accettato l'idea di chiamarsi così – sapeva che
era preoccupata e
infelice. Talora, quando sollevava gli occhi stanchi e arrossati
dalle sue letture, la sorprendeva a osservarlo, con occhi ancora
più
stanchi e cerchiati dei suoi – ma per una stanchezza che
proveniva
dall'interno, come per una qualche melanconica rassegnazione. In quei
momenti, quando i loro occhi s'incontravano da una parte all'altra
del tavolo, al di sopra di quella muraglia invalicabile che i suoi
libri e il loro silenzio costituivano tra di loro, Sakaki avrebbe
voluto chiederle perché fosse tanto triste. Ma poi non
trovava il
coraggio, un paragrafo, il titolo di un capitolo lo attraevano e lui
riprendeva a studiare, vagamente imbarazzato, e lei riprendeva a
osservarlo in silenzio.
Finalmente,
una sera,
quando da una finestra aperta provenivano le voci concitate di sua
sorella e di un'amichetta che giocavano in giardino, un sussurro
timidamente divertito, ma appena accennato, infranse quella barriera
invisibile tra di loro: «Neppure a scuola hai mai studiato
così
tanto.»
Sakaki
levò gli occhi
su di lei, cercando di non mostrarsi troppo stupito, e si
scontrò
col suo sguardo incerto, implorante. Voleva disperatamente parlare
con lui, stabilire un contatto, cercare di ritrovare, in quel giovane
uomo che studiava forsennatamente dall'altro lato del tavolo, il
proprio figlio. Si domandò da quante sere quella donna
stesse
riflettendo su quella frase, ne stesse misurando il suono nella bocca
chiusa, accordasse tra loro le parole...
«Io...
non mi ricordo
la scuola» disse seccamente, impacciato, attirando a
sé con una
mano un libro di fisica teorica da cui voleva confrontare una
nozione. Era vero: non ricordava di aver mai frequentato la scuola,
sebbene fosse evidente che l'aveva fatto, dal momento che sapeva
leggere e scrivere e capiva un po' di fisica. Tuttavia, quando
tornò
a concentrare la propria attenzione su sua madre, vide sul suo viso
una tale quantità di delusione per quella secca, imbarazzata
risposta, che chiuse bruscamente il libro, pur lasciandovi due dita
come segno, e si schiarì la voce. «Ero
bravo?»
Era
un tentativo di
conversazione che sarebbe stato patetico anche tra due estranei,
Sakaki se ne rendeva conto persino dall'abisso della propria
ignoranza in fatto di convenzioni sociali. Ma purtroppo, questo era
quello che erano ora lui e sua madre: due estranei. Ed egli si
rendeva conto anche troppo bene che avrebbe dovuto essere grato per
quel patetico tentativo, in quanto era molto di più di
ciò che
avrebbe mai più potuto avere con suo padre. Probabilmente
anche sua
madre condivideva la sua stessa consapevolezza, visto che il suo
volto s'illuminò di un timido sorriso radioso.
«Piuttosto
bravo,
direi. Insomma... normale.»
«Normale?»
Sakaki
cominciava già a trovare assai difficile portare avanti
quella
conversazione. «Che voti prendevo?»
«Oh...
sempre la
sufficienza» garantì la donna con convinzione.
Poi, dopo un attimo
di silenzio, nel disperato tentativo di non lasciar morire quella
conversazione, per quanto patetica e imbarazzante essa fosse,
soggiunse guardando i suoi libri: «Non andavi matto per la
fisica.»
«Suppongo
di no»
mormorò Sakaki, profondamente tentato di chinare nuovamente
lo
sguardo sui propri studi. Entrambi si guardarono imbarazzati per
qualche momento, dopodiché la donna riprese la
conversazione: «Come
mai questo interesse per la fisica?»
Sakaki
considerò per
un momento se doveva dirle la verità: osservò per
un momento, senza
realmente vederli, i titoli dei suoi libri. Poi, schiarendosi la
voce: «Penso che possa aiutarmi a capire cosa mi è
successo nella
Torre.»
I
sorriso di sua madre
scomparve subitaneamente: ella lo guardò confusa, disarmata,
prima
di distogliere lo sguardo da lui, come se non sapesse come prendere
la sua affermazione. Sakaki esitò alla sua reazione.
«Ho... detto
qualcosa che non va?»
«No...
no, certo che
no. Non me l'aspettavo.»
Sakaki
la scrutò senza
capire. Che cosa esattamente non si aspettava? Che lui avrebbe fatto
tutto quanto di possibile vi fosse al mondo per sapere qualcosa di
più riguardo a quanto gli era accaduto durante quella
terribile
notte? O semplicemente che dopo tutto ciò avrebbe ancora
osato
pronunciare il nome di quel luogo?
Sua
madre intrecciò le
mani in grembo e puntò lo sguardo fuori dalla finestra.
Sentendosi
in qualche modo sollevato da quell'interruzione, e contemporaneamente
sentendosi un mostro per provare sollievo, Sakaki riaprì il
suo
manuale di fisica dei quanti.
«Hai
sempre detto che
avresti voluto studiare storia, se fossi andato
all'Università»
proruppe infine la donna, come buttando fuori quelle parole tutte
d'un fiato. Sakaki alzò immediatamente lo sguardo: sua madre
si
torceva le mani in grembo fin quasi a graffiarsene i dorsi, con lo
sguardo ostinatamente infisso su quella finestra e gli occhi colmi di
lacrime.
«Come?»
«È
così» proseguì
la donna senza guardarlo. Aveva la voce incrinata dal pianto.
«Tu
odiavi la fisica. Ti ho mandato anche a ripetizione. Volevi fare
storia. Amavi la storia, con tutti i nomi e le date e le battaglie e
tutto il resto. E ora... e ora non mi guardi più neppure in
faccia,
per studiare tutti questi libri di fisica, per tutto il giorno. E
tutti i tuoi manuali di storia, tutti questi anni di studio...
inutili, ormai, e solo per quella Torre!»
Sakaki
non ricordava di
aver mai visto sua madre così disperata e ferita. Certo, non
che
ricordasse di aver visto molto spesso sua madre in qualsiasi
circostanza.
«Mamma...»
balbettò
confuso. «Ti prego, non ti arrabbiare. Ricordo ancora qualche
nome,
qualche data...» Era vero: se frugava attentamente nella
propria
memoria, rinveniva qualche grande condottiero, qualche data
fondamentale per la fondazione di Kanto... tutto quello che
probabilmente faceva parte del sostrato conoscitivo fondamentale di
ogni persona sulla regione, che anche non avesse compiuti studi
particolareggiati. «Ma non sono più il ragazzo che
è entrato in
quella Torre e tu lo sai meglio di me. Ti prego, non ti
arrabbiare.»
Pronunciando
quelle
parole, chiamando mamma quella donna che che per
lui era poco
meno di un'estranea, Sakaki non poteva non sentirsi orrendamente in
colpa: sentiva come di stare usurpando la madre di qualcun'altro,
parlandole come se lui fosse davvero il figlio che lei aveva perduto
dentro quella Torre. Ma no, Sakaki non era quel figlio, né
mai lo
era stato o sarebbe potuto esserlo: l'uomo che era uscito dalla
Torre, nudo e congestionato dal freddo, non era lo stesso ragazzo che
vi era entrato. No, quel ragazzo era morto, perduto per empre, gli
spiriti l'avevano ucciso: Sakaki era nato quando aveva aperto gli
occhi su quel nero buio imperscrutabile e quando una voce gli aveva
chiesto qual era il suo nome. No, Sakaki era un uomo nuovo, non
votato che alla vendetta, per quanto si ostinasse a restare in quella
casa, illudendo, in modo forse crudele, quella buona, dolce, infelice
donna che in lui cercava suo figlio.
Alle
sue parole, ella
ricadde quasi immobile sulla sedia, senza protestare, forse pentita
di aver infierito su di lui per qualcosa di cui realmente non aveva
colpa: solo i suoi occhi resistettero per un istante, ma poi,
lentamente, si chinarono.
Sakaki
non aveva più
voglia di studiare. Chiuse il libro, imprimendogli un colpo forse un
po' troppo violento rispetto alle sue intenzioni, perché
vide sua
madre sobbalzare sulla sedia, e uscì in giardino, all'aria
aperta.
A
pochi metri da lui,
sua sorella giocava con la sua amichetta, ma Sakaki non le
degnò di
uno sguardo. In quella notte chiara e senza vento, illuminata da
un'ancora corposa falce di luna calante, come ignorare l'ingombrante
presenza della Torre Pokémon?
Rimase
a lungo
immobile, quasi spossato, a inspirare profondamente l'aria della
notte. La cima della Torre brillava di luna. Sakaki la
guardò con
dolorosa attenzione.
«Mio
Dio, perché?»
mormorò, come se davvero sperasse di ricevere una risposta
da
quell'edificio silente. «So che cosa mi avete fatto, ma
perché
tutta questa crudeltà? Questo ancora non riesco a
capirlo.»
Ma
i minuti trascorsero
su di lui silenti come soffi di vento, taciti come segreti, mentre
lui cercava invano le sue risposte dentro quelle finestre, nere come
orbite vuote.
Sua
madre era stata
contraria fin dal primo momento all'idea dell'Università.
Innanzitutto,
la retta
per l'Ateneo di Azzurropoli era molto costosa: altre città,
come
Zafferanopoli o Aranciopoli, erano assai più economiche. Ma
Sakaki
era inflessibile: solo Azzurropoli aveva un corso di laurea specifico
per l'Elettronica quantistica*, che era, almeno secondo le sue
supposizioni, la materia più utile ai suoi scopi. Inoltre,
sua madre
era perplessa anche circa le sue capacità. Non che glielo
avesse
detto chiaramente. Si era limitata a obiettare timidamente:
«Sakaki,
la fisica è una materia molto difficile. Anche ragazzi molto
brillanti l'abbandonano, ragazzi che non...» Non aveva
terminato la
frase, ma non ve n'era bisogno: Sakaki sapeva cosa intendeva dire.
Ragazzi che non avevano perduto la memoria, ragazzi che si
ricordavano almeno di aver frequentato una scuola, di aver odiato la
fisica...
Dopo
lunghe sere di
discussione, avevano raggiunto un compromesso: dal momento che
mancavano ancora sei mesi all'inizio del nuovo anno accademico,
Sakaki sarebbe andato ad Azzurropoli ad assistere almeno a qualche
lezione, per accertarsi di quale fosse effettivaente la
realtà
universitaria.
Per
quel motivo quel
lunedì mattina Sakaki, che aveva attraversato il
modernissimo
sotterraneo costruito per collegare Lavandonia e Azzurropoli evitando
il traffico di Zafferanopoli, prese posto in un'aula poco affollata
della Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali per
seguire
la sua prima lezione di elettronica quantistica. Si sentiva eccitato,
eccitato e nervoso, all'idea di poter finalmente avvicinarsi anche di
un solo, ridicolo passo al raggiungimento del suo obiettivo.
Ma
per le successive
due ore di lezione egli non poté fare altro che rimanere
seduto a
bocca aperta di fronte a un panciuto professore di mezza età
che
spiegava un qualche argomento di cui lui non aveva compreso neppure
il nome, alleggerendo di tanto in tanto la spiegazione con battute
amichevoli a sfondo scientifico di cui lui neppure riusciva a
cogliere il senso. Sakaki ascoltava basito: era vero che le lezioni
erano cominciate da svariati mesi, ma quello era un corso del primo
anno. Era davvero così difficile?
Al
primo quarto d'ora
accademico se la svignò dalla porta in fondo all'aula,
agitato e
tremante, con le mani gelide e ciononostante sudate, ben deciso a non
rimanere lì per un minuto di più. Mentre i
corridoi attorno a lui
si affollavano di studenti, con le loro tracolle e le loro borse di
pelle, i loro libri e i loro appunti, Sakaki si appoggiò a
una
parete per riprendere fiato: il cuore gli batteva all'impazzata. Si
sentiva umiliato, confuso, ma soprattutto si sentiva messo alle
strette: no, sua madre aveva ragione, quella materia era troppo
difficile per le sue capacità. Avrebbe impiegato anni anche
solo per
padroneggiarla decentemente, e non avrebbe comunque mai raggiunto un
livello di conoscenze teoriche e pratiche tale da permettergli di...
Ma
allora che fare?
Abbandonare il suo progetto? No, impossibile, impensabile. Nulla gli
era rimasto che non fosse la sua vendetta: aveva perduto sua madre e
sua sorella, per quanto esse fossero lì per lui e pronte ad
amarlo,
poiché egli non ricordava di averle mai amate a sua volta in
vita
propria. Egli era dunque orfano e senza amici. Aveva perduto tutte le
conoscenze che aveva accumulato nei suoi diciotto anni di vita: dei
suoi giovanili studi di storia, non ricordava niente che non fossero
risibili conoscenze superficiali e particolari. Più che mai
a quel
pensiero si sentì solo al mondo. No, per essere nato dentro
la Torre
Pokémon, ora la vendetta era l'unica ragione della sua
esistenza e a
essa doveva aggrapparsi a qualsiasi costo, non vi poteva rinunciare,
soprattutto, non prima ancora di iniziare...
Si
passò le mani
fredde sul viso accaldato, col cuore che ancora gli martellava
dolorosamente il petto. Aveva bisogno di una toilette, voleva
sciacquarsi la faccia, rallentare la corsa furiosa dei propri
pensieri. Ma quando si staccò dalla parete, si rese conto di
non
essersi appoggiato semplicemente contro il muro: alle sue spalle
c'era una bacheca per gli avvisi in sughero. Li scorse distrattamente
con gli occhi, sperando di distogliere per un attimo l'attenzione dai
propri pensieri.
E
poi, ecco. Si sentì
stupido, tardo e sciocco per non avervi pensato prima. A pochi metri
da lui c'era una sala studio deserta: vi corse dentro,
prelevò un
foglio bianco dal cassetto di una stampante e con un pennarello nero,
nella grafia più grande che gli riuscì di
produrre, scrisse:
Cercasi neolaureato/a in Elettronica quantistica per
importante
ricerca applicata. Astenersi perditempo. Dopo un attimo di
esitazione, aggiunse: Possibilità di ritorno
economico e il
proprio numero di telefono e tornò ad affiggere il suo
annuncio
sulla bacheca, sovrastando senza ritegno annunci di stanze in affitto
e offerte di ripetizioni.
Quel
pomeriggio, Sakaki
tornò a Lavandonia con la piacevole sensazione di aver
concluso
qualcosa. Non era certo che qualcuno avrebbe risposto al suo
annuncio, e anche se così fosse stato, che questo qualcuno
avesse le
conoscenze tecniche per poterlo aiutare. Tuttavia sentiva di averlo
compiuto davvero, un passo in avanti sulla sua strada verso la
vendetta.
Nel
frattempo, pensò
compiaciuto, poteva dedicarsi alla ricerca dei fondi.
*Il
mio amore per la
fisica è stato intenso, ma purtroppo era destinato a finire
e ho
mollato quel corso di studi molto tempo prima di poter anche solo
concepire l'Elettronica quantistica. Tuttavia, guardando un po' di
vecchi documenti, ho pensato che potesse essere la materia
più
adatta per quello che vuole realizzare Sakaki... se aveste idee
migliori, fatemelo sapere!
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