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Disclaimer: I personaggi non
mi appartengono
Ma sono di proprietà di chi ne detiene i diritti.
It’s The Price I Paid
Il suo arrivo è annunciato da tuoni e
da lampi.
Emerge dallo scroscio della pioggia
come un personaggio dei film dell’horror e il sangue si liquefa sul suo volto,
simile a lacrime. Tracce rosse, striature cremisi, Skye afferra la pistola: se
si ferma, è perché May è più veloce e le blocca il polso, le abbassa il
braccio.
La base è in allerta, nervosismo e
panico salgono, sfrigolano e rimbombano attraverso i corridoio e tra le
lamiere. Fuori diluvia, fa un freddo cane, l’uomo che si staglia sulla soglia
non ha nemmeno le maniche. Le braccia sono nude, sono forti, potrebbe uccidere
qualcuno col solo dito mignolo e Skye non è assolutamente intenzionata a fare
la prova –Né la cavia.
I capelli biondi sono impastati e
sporchi, ciocche appiccicose di bruttura si ammassano alla meglio sulla testa,
contro la fronte, sulle tempie. E’ nero, completamente nero, le due uniche note
di colore sono la croce bordeaux sul petto, svasata e sghemba, grossa e goffa
sul torace di pelle scura, e gli occhi. Dischetti metallici, pallottole, fondi
di una bottiglia di vodka ghiacciata, il loro colore vira dall’azzurro al
grigio con l’arrotolarsi delle nuvole sopra di loro.
“Ha già piastrellato il bagno?” s’informa
e la voce roca nasconde una risata stanca che Skye non si sarebbe mai
aspettata. Melinda le appoggia ora la mano sulla spalla, contrae l’angolo della
bocca in un ghigno divertito. O una parvenza di espressione umana che non è
solita rivolgere a chiunque.
Quando Coulson arriva, Skye si scosta
e gli lascia intravedere l’ospite: May ha chiesto che gli fosse portato un
asciugamano o comunque qualcosa con cui darsi una sistemata.
Lui le ha detto che non c’è pericolo
che si prenda un accidente, è di stoffa dura, profuma di lavanda anche dopo una
missione nelle fogne latveriane; Triplett lo prende in giro e gli dice che è
soltanto per evitare che sgoccioli sui tappeti persiani.
Antoine ha fatto un salto di quasi
tre metri, nel ritrovarsi davanti quell’uomo mezzo pesto e fradicio fino al
midollo. Yo, amico lo ha salutato, si
sono stretti la mano, una pacca amichevole, quasi si fossero divisi la sera
prima al pub. C’è cameratismo nell’aria, ma non appena Coulson fa la sua
apparizione nell’atrio, di colpo sembra di essere dentro una di quelle sfere
con i filamenti di elettricità statica.
L’uomo è il polo da cui ogni
ramificazione si diparte e Coulson il bambino che reverente posa i polpastrelli
sulla superficie curva, un polpastrello dopo l’altro, perché non un solo
barbaglio saettante sfugga al suo tocco.
Skye trattiene il fiato.
Coulson dice solo Seguimi e la bocca dell’ospite è
tagliata di traverso da un ghigno. Strafottente, scanzonato, ironico, abituato
a vedersi rivolgere simili ordini da parte dell’altro, col medesimo tono, con
la medesima occhiata. Un teatrino prestabilito di cui Skye non sa spiegarsi l’origine.
Non ha risposta nemmeno da Melinda.
Unicamente una manciata di parole prive di significato.
“Chi è?”
“Gli occhi di Coulson”
Non ha aggiunto altro.
Skye si è morsa il labbro inferiore,
in un gesto rapido. Gli altri sono tornati alle loro mansioni. Fitz tartaglia
da qualche parte, nel dedalo soffocante che è la sua mente. Ward può fare quel
che vuole nel suo tugurio, nella sua tana da ratto: a lei non importa. Non
importa. Davvero.
C’è silenzio.
Lei è rimasta venti minuti buoni a
fissare la pozza d’acqua dove prima sostava il loro ospite inatteso.
“Dove sei stato in questi due anni?”
Coulson sistema il bottone nell’asola
e le dita di Clint arrivano subito a stringere i bordi del colletto, lo tirano
a sé e Phil lo guarda di nuovo negli occhi e lo trova bello, bello da
impazzire, bello da mollare tutto e lasciarsi il mondo alle spalle.
“Cercavo te.”
Barton gli sorvola il volto coi
polpastrelli, in una carezza che non è una carezza soltanto per il sottile
filamento d’aria che separa dita e pelle.
“Sei il Boss ora, eh?” scherza e
sorride.
Coulson sbuffa, gli stringe la mano,
appoggia la guancia contro il suo palmo.
Gli ha raccontato tutto. E’ stato in
silenzio. Ha chiamato il suo nome. Anelato il suo respiro e donato il proprio
fiato. La carne di Clint era bollente mentre si muoveva sopra di lui. Il corpo
un ondeggiare liquido mai dimenticato e bramato ogni istante d’assenza.
“Voglio che rientri tra i ranghi.” Gli
propone.
Con Clint gli ordini diretti non
funzionano. Lui non china il capo ed esegue; lui ragiona, diventa parte del
meccanismo e al suo interno guarda, scova, considera tutti i punti di vista,
non tralascia nessuna angolazione. Decide l’attimo stesso
“Pensavo non me lo avresti mai
chiesto.”
Occhio Di Falco gli afferra i fianchi,
scende dal bordo della scrivania su cui era appollaiato. A terra il disordine
regna sovrano, ma per una volta, una volta sola, Phil finge di non curarsene.
Il pavimento è un ingombro di fogli, fascicoli, penne, tappi, matite temperini
e guardare Barton è più rilassante, concentrarsi su di lui e sulla bocca che
mormora bisbigli e baci sulle labbra è più importante: gli scioglie le ginocchia
e il cuore fonde nel petto.
“Sei pronto ad ubbidire agli ordini,
Agente Barton?”
“Oh” la voce di Clint è affilata,
nerbo teso dell’arco pronto a vibrare il colpo.
Gli occhi sono scuri, un frammento d’insieme
scosta, un germe di follia sboccia e infetta ogni pieghettatura dell’iride.
Coulson non vede. O finge di non
vedere. Il corpo di Clint è troppo caldo per pensare al gelo dei suoi occhi.
Per accorgersi del flautare melodico e sibilante delle sue parole, una litania
che dondola, dondola, destra e sinistra, destra e sinistra, tic toc tic toc, il battito ritmato di
un metronomo palpitante di luci fameliche e abbaglianti, gorghi ritorti di
sussurri e colori.
“Sono
felice di ubbidire.”
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