Succubus

di Cara Jaime
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Capitolo 2
Il padrone e il fanciullo



Con passi lunghi e decisi feci ingresso nel tempio del mio padrone, Fatuus, l’incubus dominante della nostra dimensione. La sala del trono si sviluppava verso l’alto, le pareti costituite da volte e nicchie che si susseguivano delimitandone la forma rotondeggiante. Torce incastrate nei sostegni a muro ne coloravano la superficie di blu, fiamme perenni che costituivano l’unica fonte di luce del nostro regno. Fatuus il Crudele sedeva sul seggio regale, le ali draconiche spiegate, la fluente chioma bianca e le corna caprine a ornargli il capo, il mento appuntito posato sul dorso della mano in posizione di profonda riflessione. I suoi occhi citrini dalla stretta pupilla verticale fissi davanti a sè, mi pareva trapassassero il mio corpo, mettendo a nudo la mia anima. Non appena giunsi davanti al trono posai un ginocchio a terra poggiando un braccio su di esso e chinai la testa.

“Sei di ritorno. Bene,” esordì con voce leggera come l’alito del vento.

“Ho portato a termine la missione, padrone. Il seme del prescelto di stanotte è dentro di me.”

“Hai impiegato più tempo del solito, Lilin.” Potevo sentire la sua mente scrutare la mia e mi rendevo conto di non avere alcuna difesa al suo cospetto. Ero stata addestrata a lasciarmi sondare sempre e comunque dal mio padrone, perciò non osai sollevare alcuno scudo mentale per fermarlo. Chiusi invece l’accesso alla mia anima, come ogni buon succubus doveva fare, onde evitare di farsi coinvolgere dalle emozioni, una grande debolezza. Il mio gesto fu inutile, perché la sua capacità telepatica scovò i miei ricordi, frugandoli per bene e scoprendo che con questo umano mi ero data particolarmente da fare. Sbirciai e vidi la sua fronte liscia corrugarsi. Non era un buon segno.

“Me ne rendo conto, padrone, e vi porgo le mie scuse,” risposi con voce calma e conciliante.

“Non sono avvezzo a ignorare gli errori dei miei sottoposti,” ribattè lui, amaro. Rimasi immobile. Non potevo ammettere di essere stata colta dalla debolezza delle emozioni nei confronti del prescelto di quella notte. Sarebbe stata un’ammissione di colpa, un grave errore. L’unica cosa che potevo fare era sperare che Fatuus lasciasse correre, anche se vi era poca speranza al riguardo.

Percepii la sua mente che mi lasciava andare e la sua voce che diceva: “Ora va, deponi il seme del prescelto nell’urna della tua stanza. Sei congedata per oggi.”

“Come desideri, mio padrone.”


Nella mia stanza, poggiai un piede sul letto e portai una mano sotto l’inguine. Con una spinta dei muscoli del ventre feci fuoriuscire dal mio corpo una sacca morbida che conteneva il seme che il giovane Connor aveva depositato dentro di me quella notte. Lo tenni delicatamente tra le mani e lo posai nell’urna che stava accanto alla porta. Sapevo che il giorno seguente sarebbe passato uno degli incubus serventi a prelevarlo, per depositarlo di notte nel ventre di una vergine prescelta. Nel profondo dell’anima provai un moto d’invidia per la giovane fortunata che avrebbe ospitato la progenie di Connor, ma mi affrettai a reprimere l’impulso emotivo prima che potesse giungere alle facoltà di percezione estremamente sviluppate del mio padrone.


Il mattino seguente, libera da incarichi fino al tramontare del sole, mi recai al villaggio dove viveva Connor, passando alla sua dimensione attraverso uno squarcio tra le ombre.
Lo vidi uscire di casa poco dopo l’alba, quando il sole proiettava ancora lunghe ombre e l’aria del mattino pizzicava la pelle con mille minuscoli aghi. Sulla soglia di casa, baciò la madre e s’incamminò al seguito del padre col suo carretto trainato da un mulo. Le ruote del carro cigolavano mentre rotolavano sul terreno battuto del sentiero. Sgusciai tra le ombre che pian piano si accorciavano e li seguii fino al campo, dove vidi Connor liberarsi della casacca e impugnare uno strumento da lavoro.

Il sudore luccicava come olio sulla pelle liscia del giovane, mentre con la pala rompeva e risistemava le zolle di terra. Quando le ombre di mezzogiorno si fecero troppo corte, e rischiavo così di farmi ridurre in polvere dalla luce del loro sole accecante, mi ritirai, per fari ritorno al villaggio in cui viveva il giovane nel tardo pomeriggio.


Connor sedeva all’ombra di una grande quercia con altri giovani coetanei del villaggio, maschi e femmine a festeggiare tutti insieme. Provai un moto d'invidia. Nel mio mondo, non mi era mai stato possibile stringere un simile legame con i miei simili. Ero stata scelta per servire. Contemplai estasiata i giovani bere birra scherzare tra di loro fino a sera, quando si ritirarono ognuno nell'abitazione della propria famiglia augurandosi allegramente una buona notte e sogni d'oro. Sogni d'oro... i succubus come me, non sognavano.




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