Come
un temporale estivo.
La
sveglia suonò, come ogni mattina da quando avevo deciso
di ritornare a vivere il presente.
Stefan
mi aveva detto di ricrearmi una normalità: funziona
per qualche anno, dice lui.
Forse.
Comunque
…
Avevo
deciso di non lasciarmi morire.
Quindi
…
Non
potevo far altro che tentare di andare avanti.
Alaric
mi aveva mostrato il mio diario: avevo amato Damon.
Non
lo ricordavo, non volevo ricordare: quelle parole, le
mie, trasudavano dolore.
E
sapevo bene che quel dolore mi avrebbe schiacciata.
Potevo
frequentare il college: ecco quello che avrei fatto
per i prossimi due o tre anni.
Un
passo alla volta, un giorno alla volta … per
l’eternità.
Mi
ero vestita distrattamente.
Ricominciare
non era stato così facile come pensavo.
Credevo
che senza quel dolore avrei potuto ricostruirmi,
ritrovare una nuova me stessa, autonoma, indipendente.
Ma
tutto quella che ero riuscita a mettere insieme era una
nuova quotidianità.
Ogni
volta che tentavo un approccio, un cambiamento,
qualcosa mi frenava ed io mi mettevo sulla difensiva.
Tutti
i miei amici avevano cercato un modo per esorcizzare
le perdite subite dalle innumerevoli battaglie del passato, ognuno
aveva messo
cerotti e bende sulle ferite del cuore.
Io l’avevo
semplicemente anestetizzato, e ancora non si decideva a risvegliarsi.
Uscii.
Misi
gli auricolari e lasciai che la musica uscisse random
dal mio Iphon.
Alle
dieci avevo lezione con Alaric, alle undici
microbiologia, a mezzogiorno mi sarei vista con una nuova compagna di
corso per
poi andare con lei in ospedale.
Un
giorno alla volta, un’ora alla volta.
Camminavo
distratta per la strada, assorta in pensieri che
non erano niente, semplicemente seguendo la direzione dei miei passi.
Sono
momenti, quelli, in cui la quotidianità ti assorbe in
una routine sempre uguale, in cui non c’è nulla di
razionale, ma solo
l’abitudine di mettere un piede davanti all’altro e
proseguire su tragitti già
tracciati, come solchi nelle nostre vite.
Sembra,
in momenti così, che la nostra parte razionale si
assopisca e le reazioni agli stimoli vengano da un istinto primordiale,
come
reazioni condizionate, qualcosa che passa prima dal corpo che dalla
mente.
La
musica suonava nelle mie orecchie e nemmeno la stavo ad
ascoltare: era semplicemente l’ennesima barriera tra me e la
gente che mi
passava accanto.
Guardavo
a un metro avanti ai miei piedi il susseguirsi
sempre uguale delle mattonelle del marciapiede, senza vederle, senza
notare ciò
che mi circondava, diritta per la mia
strada verso il Whitmore, verso una quotidianità ricostruita
sul nulla, in
attesa che il nulla diventasse qualcosa e quel qualcosa trasformasse la
mia
vita.
Lasciai
che il ritmo della musica dettasse il cadenzare dei
miei passi. Il cervello si prese una pausa.
Mi
lasciai esistere.
Camminavo
in questa specie di oblio.
Camminavo
senza nemmeno sapere se in cielo brillava il sole
o se le nuvole rendevano l’aria grigia.
Camminavo
… e con la coda dell’occhio mi sembrò
di vedere
un’ombra, un giubbotto di pelle, una massa scomposta di
capelli neri.
Ed
ecco la reazione incondizionata, la memoria che arriva un
attimo troppo tardi.
Mi
sembrava lui, sembrava proprio Damon!
Istintivamente
alzai la mano per chiamarlo, sollevai le labbra
in un sorriso, accelerai il passo per raggiungerlo.
Tutto
durò la frazione di un secondo, il tempo per
ricomporre i pezzi del conscio e ricordarmi che non poteva essere lui,
non più
… mai più.
Questi
sono quei momenti in cui il dolore ti colpisce più
duramente, dritto nello stomaco, perché non hai difese, non
hai il tempo di
indurire gli addominali per incassare il colpo.
Mi
piegai in due e la sofferenza mi si rovesciò addosso come
un temporale estivo, colmo di grandine. Non avevo alcun ombrello, alcun
riparo
al dolore del ghiaccio sulla mia pelle.
La
mia mente aveva dimenticato, ma il mio inconscio non
aspettava altro che una lieve falla nelle mie barriere per colpire: uno
schiaffo improvviso, un colpo di pistola alle spalle.
Un
solo istante di abbandono e il dolore si riversò sulla
mia anima indifesa, crudelmente.
Alzai
gli occhi al cielo: c’era il sole, ma i miei occhi
vedevano solo pioggia, scrosciante e gelata.
Potevo
aver cancellato il come o il perché, ma nessuna
compulsione poteva cancellare le sensazioni: queste risorgevano dalle
proprie
ceneri per aggredire e sbranare.
Non
avevo ricordato.
Avevo
rivissuto ogni sfumatura, ogni grado di quel terremoto
emotivo che mi aveva devastata.
Avevo
ricostruito su delle macerie ancora fumanti, su un
terreno pericolante.
E
il primo acquazzone estivo aveva distrutto tutto.
Perché
si può dimenticare il dolore, ma il dolore non si
dimentica di te.
Mai.
Nda:
So che siete in tante a seguirmi, e vi ringrazio dal
profondo del cuore.
Mi
piacerebbe che mi lasciaste un segno del vostro
passaggio, giusto per conoscervi meglio o per salutare chi
già conosco.
Anche
le critiche sono ben accette.
Un
abbraccio.
Mammaesme.
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