1) LE SPEDIZIONI
Terra, anno 2108
L'imponente cargo, nero e articolato al punto da assomigliare ad un grosso
insetto, atterrò piuttosto rumorosamente sulla sabbia sollevandone una grossa
nuvola che parve avvolgerlo per qualche secondo, tuttavia, in realtà, nessuno lo
sentì arrivare non essendoci anima viva negli immediati dintorni dell'area di
atterraggio.
Almeno così sembrò ai due componenti dell'equipaggio che scesero dall'astronave
per dare un'occhiata nei dintorni.
La zona era caratterizzata da terreno arido e sabbioso, circondato da strane
alture stratificate come fossero state composte da fette di roccia poste una
sopra l'altra, talvolta anche in modo non uniforme. Ai due l'area parve perfetta
per lo scopo e, considerato ciò, rientrarono nel veicolo per dare il via
all'operazione di scarico della merce. Dall'interno dell'apparecchio scivolò
automaticamente la pedana dalla quale cominciarono a scendere enormi containers
grigio scuro seguiti da esseri umani in uniforme e caschi verdi che manovravano
i carrelli su cui i containers si muovevano con apparente facilità. Ma,
scaricato l'ultimo, contro uno dei primi, già sistemati sulla spianata
polverosa, giunse da fonte ignota un lungo raggio luminoso che lo incendiò con
un boato.
"Oh no! - esclamò uno dei manovratori - Il Clan!".
Tutti gli operatori rientrarono nell'astronave e il comandante ordinò loro di
porsi ai posti di combattimento. Da dietro le alture partirono altri raggi
luminosi rossi e azzurri, questa volta diretti sul veicolo, ma anche da esso
uscirono altri raggi verso le alture. Seguì uno scambio fittissimo di raggi
variamente colorati, molti dei quali andarono a segno senza badare troppo alla
natura del bersaglio, provocando grida disumane di coloro che ne erano colpiti,
e che morivano carbonizzati, e incendi apocalittici dei containers, nonché di
gran parte dell'astronave che rimase danneggiata in modo quasi irreparabile e,
pochi minuti dopo, distrutta dall'ultimo fascio di raggi letali.
Dietro le montagne, un altro veicolo si alzò in volo dirigendosi verso lo spazio
infinito, lasciando su quell'area, arida e desolata, cadaveri e carcasse
fumanti.
"Così imparano a capire chi esercita il diritto" sentenziò il capitano,
lanciando un ultimo sguardo torvo dell'occhio senza benda, sullo sfacelo che
aveva appena causato.
"Ben detto, Capitano" approvò un suo sottoposto, alzando l'indice della mano
destra per sottolineare il suo accordo con la dichiarazione.
Da un ultimo controllo sulle mappe stellari, la Terra risultava completamente
disabitata e, seguendo le immagini che scivolavano l'una dopo l'altra sul grande
schermo nella sala comando dell'astronave, Elai Heron si sorprese a domandarsi
come mai un pianeta così ricco di vegetazione, come quella che si vedeva sullo
schermo, non potesse ospitare forme di vita, anche semplici, ma tant'era. Le
ricerche in merito, effettuate nei mesi e negli anni precedenti la decisione di
organizzare un viaggio verso quel pianeta, avevano dato quei risultati: sulla
Terra sembrava non esserci vita. In compenso, erano state rilevate quantità
inimmaginabili di uranio, plutonio ed altri preziosi minerali utili al
fabbisogno di Ariel che andava avanti ad energia nucleare per via della
lontananza dal suo Sole.
Ariel poteva essere definito un pianeta artificiale, ovvero: quasi interamente
costruito da opera umana, dopo che il rimanente della razza biologica era stato
costretto a trasferirsi lì dal pianeta originario il quale, colpito da un
meteorite che ne aveva spostato l'asse e l'orbita, si era avvicinato troppo al
Sole per consentire una continuazione della vita su di esso.
Su Ariel, la vita era ricominciata con le aree urbane incapsulate sotto cupole
di vetro realizzate appositamente per incamerare più calore possibile dalla poca
energia che proveniva dal Sole lontano, e alimentate da centrali nucleari a
fusione fredda, tenute però fuori dalle città per assicurare gli abitanti da
qualunque eventuale incidente che, tuttavia, per fortuna, non si era mai
verificato. Ma su Ariel, la materia prima per far funzionare le centrali non era
molta e stava esaurendosi. Se non si fosse provveduto ad un rifornimento, le
zone vitali del pianeta si sarebbero spente destinando il pianeta a morte certa,
per sempre.
I pensieri di Heron furono interrotti da uno dei membri dell'equipaggio che lo
avvertì di aver trovato, finalmente, una buona area di atterraggio. Ridestandosi
dal suo viaggio mentale, Heron impartì gli ordini per la manovra.
Elai Heron e i suoi uomini - ma anche donne - non tornarono mai più su Ariel.
L'astronave si disintegrò in un'esplosione apocalittica ancor prima che
mettessero piede sul suolo terrestre e, ovviamente, non poterono mai riferire
che la Terra non era completamente disabitata come era risultato dalle ricerche
e dalle mappe stellari.
Nella sala del Centro Operativo di Novosibirsk, in Siberia, quattro persone: due
uomini e due donne, seguirono la scena attraverso un ampio schermo televisivo
che occupava una parete. Al termine, quando dall'apparecchio si levò l'ultimo
filo di fumo, il colonnello Antonov ruppe il silenzio.
"Vediamo un pò se la smettono di venirci a rompere l'anima! - esordì, seccato e
rancoroso - Cosa vogliono fare? Hanno preso la Terra per una discarica?".
2)
IL RITORNO
Ariel, 2110
Prima di partire, Al Heron volle andare a far visita ad Adoniesis, vecchio
saggio della città, amico di famiglia, che abitava dall'altra parte del centro
abitato. Aveva la tempesta nel cuore; sapeva che, molto probabilmente, il
vecchio non sarebbe stato in grado di placarla, ma era sicuro che qualche sua
parola sarebbe stata sufficiente per calmare un poco il vento.
Era una bella giornata e i raggi del Sole lontano riuscivano comunque ad
arrivare alla grande cupola che copriva la città, riparandola dalle pur esigue
scorie radioattive, regalando agli abitanti un piacevole tepore. La vettura
elettrica a cuscinetto filava via veloce sull'asfalto liscio dell'ampia strada
che collegava i quartieri di Momex, la città dove Al risiedeva da quando lui e
la sua famiglia si erano trasferiti sul pianeta. Come tutti gli altri
agglomerati urbani del piccolo pianeta, anche Momex era una successione di
quartieri eleganti, con begli edifici circondati di vegetazione lussureggiante,
ed altri più popolari, ma non squallidi. Adoniesis viveva in un quartiere
periferico, mediamente popolare, in una piccola casa circondata da un bel
giardino curato e, quando Al arrivò davanti al cancello della sua abitazione, il
vecchio stava annaffiando le piante già fiorite.
Adoniesis fu felice di vedere il giovane uomo, ma si accorse subito
dall'espressione scura del volto, che era profondamente turbato. Lo fece entrare
nel suo rifugio costituito quasi interamente da un'unica ampia stanza, tuttavia
molto illuminata da 3 finestre che sembravano essere state costruite apposta per
far entrare più luce possibile. Si accomodarono: uno su un divano a due posti,
l'altro su una comoda poltrona foderata di stoffa color caffè e restarono circa
un minuto in silenzio, Adoniesis a scrutare Al con aria severa, ma preoccupata.
"Hai paura, ragazzo?" gli domandò paternamente.
Al fissò il volto segnato dagli anni dell'amico, addolcito da due piccoli occhi
grigio chiaro dallo sguardo indagatore, ma buono.
"Non lo so" rispose Al, quasi monocorde.
Adoniesis fissò il giovane uomo.
"Ne avresti tutte le ragioni. - asserì - E' un'incognita per te dopo quel che è
accaduto a tuo padre".
"Non posso rinunciare. - dichiarò Al, accorato - Glielo devo".
"Si, - ribatté Adoniesis in tono comprensivo - ma non pensare alla vendetta! -
si fermò un attimo, poi riprese - Non pensare solo alla vendetta.
- gli consigliò sottolineando l'avverbio "solo" con la voce. - Tu stai partendo
anche per salvare il nostro mondo".
Al annuì stancamente.
"Già" confermò, laconico.
Adoniesis si alzò dal divano, si avvicinò al giovane e gli batté una mano su
una spalla.
"Pensa a questo, Al. - ribadì - Pensa soprattutto a questo".
Come Al aveva pronosticato, la tempesta nel suo cuore non era cessata, ma la
voce e le poche, semplici parole di Adoniesis avevano diminuito di molto la
forza del vento che fischiava impetuoso nel suo animo.
Tornò a casa e cominciò i preparativi materiali e spirituali per la partenza,
cercando di concentrarsi sulla salvezza del suo pianeta. In una nicchia della
parete, nel suo studio sopra la scrivania, uno schermo proiettava di continuo le
fotografie di lui con suo padre Elai e del mondo che avevano dovuto lasciare.
Sotto lo schermo, un piccolo candelabro di vetro reggeva una lampadina a goccia
che emanava una flebile luce azzurra, quel tanto sufficiente per illuminare
l'immagine sacra di un uomo anziano dallo sguardo chiaro, calmo e solenne. Aveva
sempre sentito dire che esisteva, ma non l'aveva mai visto e, da tempo, dubitava
ormai della sua esistenza, visto che non aveva compiuto il miracolo di
proteggere suo padre dal pericolo mortale in cui era incorso, senza favorirne il
ritorno.
Chi doveva pagare l'avrebbe pagata per mano sua, ma bisognava anche procurare il
carburante per continuare a vivere.
Ariel, astroporto
All'arrivo di Al Heron all'astroporto, i graduati più alti del suo equipaggio lo
salutarono con deferenza ma anche con la gioia di vederlo, specialmente
l'elemento femminile. Al Heron era decisamente bello anche quando non era in
vena di sorridere come in quel momento, malgrado lo sforzo che fece per
strapparsi un sorriso: 40 anni, ben oltre il metro e ottanta di altezza, capelli
corti castano chiaro, occhi di un azzurro intenso, corpo scolpito da una
prolungata e costante attività fisica, ben messo in risalto dall'uniforme blu
scuro della Flotta Interstellare; viso dai bei tratti regolari, tuttavia non
effeminati, piglio risoluto di chi comanda e sa farlo nel migliore dei modi.
"E' tutto pronto, capo" ebbe il piacere di annunciargli il Comandante in
Seconda, Granya Addok, 36 anni distribuiti in circa 1, 70 cm d'altezza di fisico
snello, chioma corvina dai riflessi blu, curiosamente emanati anche dalla sua
carnagione quasi bianca, su cui s'intravedevano delicati i lineamenti
orientaleggianti, e dagli occhi neri oblunghi, caratteristiche tipiche della
razza Omneris degli Oceani, proveniente dal vecchio pianeta.
Heron si fermò e salutò in silenzio tutti i componenti del suo equipaggio,
chinando appena la testa e da essi ricevette il medesimo saluto.
"Bene. - esordì poi - Vediamo se riusciamo a trovare un pò di cibo per il nostro
povero mondo affamato".
I componenti dell'equipaggio sorrisero, ma non per dovere. Amavano il Comandante
Heron, come avevano amato suo padre Elai, almeno quelli che avevano avuto la
fortuna di averlo conosciuto; coloro che si erano salvati non essendo partiti
con lui per la sua ultima missione.
"Distruggeremo quel pianeta, Comandante! - tuonò minaccioso un giovane ufficiale
- Uccideremo tutti e vendicheremo suo padre!".
Contrariamente alle sue aspettative, il giovane ufficiale ricevette da Heron una
bruttissima occhiata.
"Non distruggeremo un bel niente, Ollen. - ringhiò il Comandante - Quel pianeta
ci serve intero, altrimenti qui moriremo tutti. Riguardo agli abitanti.... - si
fermò un attimo e assunse un'espressione vaga, rammentando le parole sagge di
Adoniesis - quando arriveremo là decideremo sul da farsi. Se non avete
nient'altro da dire, direi di alzare i tacchi".
Ci fu un battito di tacchi all'unisono dopo il quale, ad un comando impartito da
un dispositivo in mano a Al, la grande astronave aprì lentamente le sue fauci
per inghiottire il suo equipaggio che, una volta all'interno, si sistemò nelle
cellette ad animazione sospesa al fine di affrontare il lungo viaggio fino alla
Terra, preservando in quel modo l'integrità fisica ed organica dei corpi.
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