Millenovecentocinquantatrè

di PaleMagnolia
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Bene, qualche informazione per giustificare questa storia. Sebbene sia ambientata negli anni Cinquanta, non ha particolare attendibilità storica, nè pretende di averla. Ho cercato di rispettare per quanto possibile il contesto - per quanto riguarda nomi di personaggi realmente esistenti, o di film proiettati in quel periodo - ma non c'è stata da parte mia una ricerca particolarmente approfondita. Ho scelto di ambientare la fic in quest'epoca perchè mi piacciono lo stile, la moda e lo spirito di quel periodo, fondamentalmente; e perchè mi dà modo di creare alcune situazioni specifiche. Non pretende di essere molto divertente, ma scriverla mi ha distratto dai miei pensieri, e spero che faccia lo stesso con chi la leggerà. A voi.
... Ah, dimenticavo. L'inizio è un po' piatto, non sono riuscita a fare di meglio anche riscrivendolo infinite volte: ma poi migliora, davvero.
No, dico sul serio.
Dav-ve-ro!

 

 

Evelyn Cleve si diresse verso il bagno strascicando i piedi, sfregandosi con le nocche gli occhi pieni di sonno

Evelyn Cleve si diresse verso il bagno strascicando i piedi, sfregandosi con le nocche gli occhi pieni di sonno. Guardandosi allo specchio, si accorse che le pieghe della federa avevano lasciato un negativo del cuscino in impronte rosse sulla sua guancia.

“Grandioso”, pensò, assonnata. “Sembro un mastino napoletano.”

Fissò la propria immagine nello specchio con la bocca semiaperta, e l’espressione intelligente di chi la sera prima ha cenato a bromuro.

“Per oggi di sicuro non troverò l’uomo della mia vita.” Sospirò, poi ebbe un’illuminazione.

“A meno che non sia il principe Filippo. Si è sposato la regina Elisabetta.” Il pensiero la confortò.

Dio salvi la Regina.

Ricominciò ad esaminarsi allo specchio. Sbattè le palpebre e sorrise, cercando di assumere un’aria seducente.

Aveva un pezzettino di prezzemolo fra i molari.

Se li spulciò con l’unghia dell’indice. Sbavò un po’.

Uff.

Aveva anche un nuovo, grosso foruncolo rosso proprio alla base del naso.

“Magnifico”, pensò.

“Questo non ce l’ha nemmeno la regina Elisabetta.”

Cominciò a togliersi le forcine dai capelli, sperando ardentemente che si fossero formate tante raffinate onde piatte, come quelle di Veronica Lake in Ho sposato una strega.

Qualche volta succede, pensò.

Non spesso, ma succede.

Gettò una per una le mollette dentro un bicchiere in equilibrio sul lavandino, senza osare guardarsi di nuovo nello specchio. Forse, pensò ad occhi chiusi, se desidero molto intensamente di avere un aspetto decente, soltanto per oggi, verrò accontentata. Magari il buon Dio mi premierà per essere una brava ragazza lavoratrice, e mi concederà un’acconciatura dignitosa. Solo per oggi.

Quando l’ultima forcina fu tolta, scosse un poco i capelli con le dita e alzò speranzosa lo sguardo.

Perfetto.

La sua testa sembrava un cavolfiore.

Grazie, buon Dio.

Evelyn sbuffò, affranta, soffiando via una ciocca da davanti agli occhi.

Un grosso cavolfiore.

A guardarla, si poteva pensare che sulla sua testa fosse passato un reggimento di tedeschi in marcia.

E non, ci tengo a sottolineare, a piedi.

Sospirando, afferrò una spazzola e tentò di rimediare; dopo qualche fallimentare tentativo di raccogliere i capelli in un elegante nodo sulla nuca, li legò come al solito in un paio di trecce, che fermò con due nastrini di velluto sottratti dal comodino di sua sorella Eleanor.

Se lei avesse tenuto a quei nastri, non li avrebbe lasciati lì, in bella vista, ragionò Evelyn.

Il significato della parola “cleptomania” le era ignoto. Non che la cosa la turbasse.

Non essendo riuscita ad aver ragione dei suoi capelli, decise almeno di trasformare il foruncolo in un neo provocante colorandolo con una matita nera.

Rientrando nella sua camera, gettò un’occhiata agli abiti che aveva preparato la sera prima per il viaggio: il vestito azzurro polvere col colletto tondo, le calze di seta, le scarpette nere col cinturino alla caviglia; le prime scarpe eleganti che avesse posseduto.

Si infilò l’abito, operazione che si rivelò più complicata del previsto.

Dopo aver provato un paio di volte di infilarsi l’abito in un unico, fluido movimento, come aveva visto al cinematografo, si sedette sul letto ed esaminò l’oggetto in modo analitico.

Aveva tre buchi.

Uno per la testa, due per le braccia.

Ah, uno per le gambe.

Quattro. Già.

Non poteva essere poi così difficile, pensò.

Ci mise venti minuti.

Quando emerse, sudata e ansimante, dal groviglio di stoffa (una manica si ostinava a spuntare, rovesciata, dal colletto), si accorse che il vestito aveva una pratica chiusura a zip, su un lato.

Perfetto.

Aveva un braccio formicolante, e i suoi capelli sembravano velcro.

Cioè.

Sembravano velcro più del solito.

 





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