Evelyn Cleve si diresse verso il bagno strascicando i piedi,
sfregandosi con le nocche gli occhi pieni di sonno. Guardandosi allo specchio,
si accorse che le pieghe della federa avevano lasciato un negativo del cuscino
in impronte rosse sulla sua guancia.
“Grandioso”, pensò, assonnata. “Sembro un mastino
napoletano.”
Fissò la propria immagine nello specchio con la bocca
semiaperta, e l’espressione intelligente di chi la sera prima ha cenato a
bromuro.
“Per oggi di sicuro non troverò l’uomo della mia vita.”
Sospirò, poi ebbe un’illuminazione.
“A meno che non sia il principe Filippo. Si è sposato la
regina Elisabetta.” Il pensiero la confortò.
Dio salvi la Regina.
Ricominciò ad esaminarsi allo specchio. Sbattè le palpebre e
sorrise, cercando di assumere un’aria seducente.
Aveva un pezzettino di prezzemolo fra i molari.
Se li spulciò con l’unghia dell’indice. Sbavò un po’.
Uff.
Aveva anche un nuovo, grosso foruncolo rosso proprio alla
base del naso.
“Magnifico”, pensò.
“Questo non ce l’ha nemmeno la regina Elisabetta.”
Cominciò a togliersi le forcine dai capelli, sperando
ardentemente che si fossero formate tante raffinate onde piatte, come quelle di
Veronica Lake in Ho sposato una strega.
Qualche volta succede, pensò.
Non spesso, ma succede.
Gettò una per una le mollette dentro un bicchiere in
equilibrio sul lavandino, senza osare guardarsi di nuovo nello specchio. Forse,
pensò ad occhi chiusi, se desidero molto intensamente di avere un aspetto
decente, soltanto per oggi, verrò accontentata. Magari il buon Dio mi premierà
per essere una brava ragazza lavoratrice, e mi concederà un’acconciatura
dignitosa. Solo per oggi.
Quando l’ultima forcina fu tolta, scosse un poco i capelli
con le dita e alzò speranzosa lo sguardo.
Perfetto.
La sua testa sembrava un cavolfiore.
Grazie, buon Dio.
Evelyn sbuffò, affranta, soffiando via una ciocca da davanti
agli occhi.
Un grosso cavolfiore.
A guardarla, si poteva pensare che sulla sua testa fosse
passato un reggimento di tedeschi in marcia.
E non, ci tengo a sottolineare, a piedi.
Sospirando, afferrò una spazzola e tentò di rimediare; dopo
qualche fallimentare tentativo di raccogliere i capelli in un elegante nodo
sulla nuca, li legò come al solito in un paio di trecce, che fermò con due
nastrini di velluto sottratti dal comodino di sua sorella Eleanor.
Se lei avesse tenuto a quei nastri, non li avrebbe lasciati
lì, in bella vista, ragionò Evelyn.
Il significato della parola “cleptomania” le era ignoto. Non
che la cosa la turbasse.
Non essendo riuscita ad aver ragione dei suoi capelli, decise
almeno di trasformare il foruncolo in un neo provocante colorandolo con una
matita nera.
Rientrando nella sua camera, gettò un’occhiata agli abiti
che aveva preparato la sera prima per il viaggio: il vestito azzurro polvere
col colletto tondo, le calze di seta, le scarpette nere col cinturino alla
caviglia; le prime scarpe eleganti che avesse posseduto.
Si infilò l’abito, operazione che si rivelò più complicata
del previsto.
Dopo aver provato un paio di volte di infilarsi l’abito in
un unico, fluido movimento, come aveva visto al cinematografo, si sedette sul
letto ed esaminò l’oggetto in modo analitico.
Aveva tre buchi.
Uno per la testa, due per le braccia.
Ah, uno per le gambe.
Quattro. Già.
Non poteva essere poi così difficile, pensò.
Ci mise venti minuti.
Quando emerse, sudata e ansimante, dal groviglio di stoffa (una manica si ostinava a spuntare, rovesciata, dal colletto), si accorse che il
vestito aveva una pratica chiusura a zip, su un lato.
Perfetto.
Aveva un braccio formicolante, e i suoi capelli sembravano
velcro.
Cioè.
Sembravano velcro più del solito.