Favole moderne

di Beauty
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"Ehi, ci sei?"
 
Pairing Cenerentola/Cacciatore
Prompted by VanEss





Ella Tremaine si era sempre considerata una persona razionale, ma ciò non le toglieva il diritto di spedire la propria razionalità in vacanza a Cipro, qualora questa divenisse troppo scomoda. Idem per quel grillo parlante della sua coscienza.

E fu appunto a seguito di quest'operazione che quella mattina di metà febbraio trovò la forza di addentare la sua ciambella al cioccolato ripiena di crema che aveva deciso di ordinare insieme al solito caffè, soffocando i sensi di colpa insieme al ricordo di tutti i soldi che da un mese a quella parte si era fatta spillare dal dietologo da cui era in cura – cura peraltro rivelatasi inutile, dato che continuava a rimanere burrosa com'era sempre stata.
Gettò un'occhiata all'orologio: erano solo le otto e mezza, la biblioteca non avrebbe aperto prima delle nove, e in ogni caso ci avrebbero pensato gli inservienti e la guardia giurata a spalancare i cancelli; aveva ancora parecchio tempo.
Masticò lentamente il pezzo di ciambella, godendosi il sapore del cioccolato e della crema – al diavolo la dieta! –, prima di voltare un'altra pagina del tomo che fino a mezz'ora prima se ne stava nella sua borsetta, un po' di malavoglia. Bevve un sorso di caffè, giusto per reprimere uno sbuffo infastidito e annoiato quando si decise a riprendere la lettura.

“Che fai qui dunque, presuntuosa d'una Pamela? Lascia subito queste rive pericolose, e fuggi da queste onde increspate, che sembrano anch'esse rimproverarti col loro mormorio la tua impetuosità! Non voler tentare la bontà di Dio su queste rive verdi, che sono state testimoni dei tuoi propositi colpevoli; e finché hai forza, allontanati dalle cattive intenzioni, se non vuoi che il tuo peggior nemico, ora respinto dalla grazia divina, attraverso la riflessione, non torni all'assalto, con una forza cui tu, debole come sei potresti non saper resistere! E non far sì che un momento di impulsività distrugga tutti quei principi che ora hanno saputo domare la tua mente ribelle, riducendola di nuovo al servizio di Dio e alla rassegnazione alla sua volontà!”

Va bene. Sarà stato vero che i libri erano il suo mestiere, ma il troppo era pur sempre troppo, anche per lei.
Ella posò la tazza di caffè sul tavolo, emettendo un lungo sospiro e abbandonando il dorso contro lo schienale del divanetto dell'Once Upon a Time Café su cui era seduta. Il libro che stava leggendo era Pamela di Richardson, un affare che pesava quasi più di lei e che contava più di cinquecento pagine, pagine di cui peraltro non ne aveva ancora letto nemmeno la metà, record che le faceva sembrare sempre più lontano e irraggiungibile il finale di quella tortura.
Si passò una mano sulla fronte, voltando il capo per guardare oltre una delle grandi vetrate della tavola calda: New York era la solita di ogni giorno, chiassosa e affollata come ogni mattina, anche se quel giorno il cielo pareva essersi svegliato con la luna storta. Nuvole spesse e grigie oscuravano quasi interamente il sole, anche se per il momento l'acquazzone preannunciato dalle previsioni del tempo non sembrava così imminente.
Si stava giusto lasciando sopraffare dal dubbio se avesse messo abbastanza croccantini nella ciotola di Arwen, quando avvertì la presenza di qualcuno di fianco a lei. Voltò la testa di scatto, incrociando il sorrisetto sarcastico di una delle cameriere.
- Lettura interessante, eh?- le chiese Anya Hadleigh con pesante ironia, accennando a quel mattone che se ne stava ancora aperto e bellamente ignorato sul tavolo. Ella sospirò.
- E' la Pamela di Richardson. Una palla assurda. Non riesco a capire come abbia fatto tua sorella a farselo piacere...
- Te l'ha consigliato Liz?
Ella annuì, mordendosi la lingua prima di aggiungere che era proprio, solo ed esclusivamente perché glielo aveva consigliato Elizabeth che si ostinava a leggerlo. A dirla tutta, quando era arrivata alla dodicesima pagina e in lei avevano iniziato ad affiorare dei vaghi istinti autolesionisti, aveva anche preso in considerazione l'ipotesi di fingere di averlo letto per poi andare dalla ragazza con un sorriso smagliante e ripeterle quanto le fosse piaciuto. E cimentandosi nell'impegnativo sport dell'arrampicata sugli specchi quando Liz le avesse posto delle domande in merito.
Ma non l'aveva fatto, e ancora adesso lottava stoicamente per mantenere i suoi buoni propositi. Tirarsi indietro di fronte a una sfida non era mai stato un tratto distintivo della sua personalità, e poi, che razza di bibliotecaria sarebbe stata? Non aveva certo la pretesa di imparare a memoria ogni singola riga della New York Public Library, ma il suo senso civico la spingeva a informarsi il più possibile su tutto ciò che avrebbe dovuto competerle in qualità di bibliotecaria: così, quando fosse incappata in qualche ingenuo disgraziato che intendeva cimentarsi nelle avventure amorose a dir poco ridicole e inverosimili di Pamela e Mr. B – sindrome di Stoccolma, portami via! – lei avrebbe adempiuto al proprio dovere di cittadina americana impedendogli di prendere in prestito quel libro, anche fisicamente se fosse stato necessario.
Senza contare che, da un punto di vista più umano, le sarebbe dispiaciuto raccontare una bugia alla sua cliente preferita.
Già, perché Elizabeth Hadleigh praticamente faceva parte dell'arredamento fisso della New York Public Library da due anni a quella parte. Ella all'inizio si era stupita che una ragazza così giovane – Liz aveva compiuto sedici anni da un paio di mesi – fosse così interessata ai libri da preferirli a un pomeriggio con le amiche o altro, ma alla fine aveva stretto una sorta di amicizia con lei, se tale poteva essere definita. Il più delle volte il loro rapporto non si spingeva più in là di quello fra bibliotecaria e cliente, ma di tanto in tanto riuscivano a fare quattro chiacchiere, spesso parlando di libri, arrivando anche a consigliarseli a vicenda. Ed era stato così che, neanche due settimane prima, Liz le aveva detto di leggere Pamela, dopo averne cantato le lodi per più di un quarto d'ora.
Quanto a lei, aveva consigliato alla ragazza It di Stephen King. Sapeva benissimo che Elizabeth avrebbe di gran lunga preferito qualche romanzo d'amore, ma se fosse dipeso da lei, Ella avrebbe anche dato fuoco all'intera sezione rosa della New York Public Library, e non le andava di essere ipocrita.
- In bocca al lupo, allora...!- Anya ghignò con cattiveria.- Io ho smesso di farmi consigliare le letture da Liz da quella volta che ha cercato di costringermi a leggere Moby Dick...
- Ti è andata ancora bene - commentò Ella.- Questo coso parla di un'adolescente scema che rischia di venire violentata ogni trenta secondi da uno di cui poi s'innamora!- puntualizzò, indicando con l'indice il volume.
- Sì, Liz è sempre stata un po' fissata con certe cose...
- A parte questo, è una ragazza fantastica - Ella guardò la cameriera negli occhi.- Dico sul serio, quasi tutte le sue coetanee di mia conoscenza al massimo leggono Poice o Vanity Fair, lei invece trascorre delle ore in biblioteca!
- Credo che lo faccia anche per non stare a casa...- borbottò Anya, prima di scrollare le spalle.- Comunque, fatico a comprendere il suo punto di vista. A me non è mai piaciuto leggere, scusa se te lo dico.
- Penso che sia questo il problema tra te e tua sorella: lei legge troppo e tu non leggi mai.
- Non ho detto che non leggo mai...Sei mesi fa ho letto Cinquanta sfumature di grigio, ad esempio...
Ella strabuzzò gli occhi, sistemandosi gli occhiali sul naso e guardandola incredula.
- E a te quella specie di oscenità pornografica in salsa BDSM sembrerebbe un libro?!
Anya aprì la bocca per rispondere, ma una serie di gridolini eccitati provenienti dal fondo della tavola calda glielo impedirono, oltre a farla sobbalzare. Ella seguì lo sguardo della cameriera, sentendosi cadere le braccia non appena comprese chi fosse stato a fare tutto quel baccano.
L'Once Upon a Time Café era insolitamente poco affollato quella mattina e, complice anche l'assenza di Bowen, le cameriere svolgevano il loro lavoro con più calma rispetto a quando il capo era presente. Tutto ciò aveva contribuito, sin dal primo istante in cui Ella aveva messo piede nella tavola calda, a fornire una sensazione di tranquillità...se non fosse stato per il tavolo proprio in fondo alla sala.
Ella aveva lanciato alle loro occupanti numerose occhiate di fuoco nel corso della colazione, ma quelle non se n'erano neppure accorte, e avevano continuato a starnazzare come se nulla fosse.
Si trattava di un gruppetto di cinque ragazze – Ella pensò che dovevano essere più giovani di Liz di due o tre anni –, che invece di essere a scuola come avrebbero dovuto se ne stavano lì a cinguettare come uno stormo di uccelli in piena crisi ormonale.
- Non è fichissimo?!- trillò una di loro in quel momento, una rossa tutta lentiggini che molto probabilmente doveva appena aver perso il primo dente da latte.- Ma ci pensate?! Fra poco saranno ben due settimane che io e Matt stiamo insieme! E indovinate un po' in che giorno cade la data? Proprio a San Valentino!
Si levò un altro coro di gridolini e risatine che lasciarono Ella a bocca aperta. La bibliotecaria rimase a fissare le cinque ragazzine con espressione piena di sgomento misto a disgusto. Anya tossicchiò, facendo finta di nulla, ed estrasse un piccolo block-notes dalla tasca dei pantaloni.
- Ehm...allora...- glissò, scribacchiando qualcosa.- Il...il caffè l'hai preso senza zucchero, vero?
- Ho dovuto farlo. Ventotto anni mi sembra un po' presto per diventare diabetica, no?- ringhiò Ella, con lo sguardo disgustato ancora puntato sul gruppetto di tredicenni.- Eppure, sono così giovani...
- Intendi, per avere un ragazzo?
- Intendo per aver già subito una lobotomia a quell'età.
Anya non rispose, osservando Ella che lasciava cadere conto e mancia sul tavolo e nel mentre si alzava in piedi. La bibliotecaria s'infilò il cappotto, schiaffando il libro nella borsetta e avvolgendosi la sciarpa intorno al collo.
- A che ora stacchi?- le chiese la cameriera.
- Alle sette come al solito, perché?
- Se vedi Liz, dille di tornare a casa presto; ho bisogno che mi aiuti con la lavatrice, non può sempre starsene a leggere e non fare nulla...
- E lasciala vivere!- sbuffò Ella, superandola e avviandosi verso la porta.- Piuttosto, qualora ti avanzasse della naftalina, mettila nella cioccolata di quelle oche...- bisbigliò, strappando una risatina ad Anya, ma aveva pronunciato la frase con un fastidio immenso. Ella uscì dall'Once Upon a Time Café lasciandosi alle spalle il rumore della porta che si chiudeva e del campanello che trillava, e iniziò ad avviarsi a passo sostenuto verso il luogo in cui lavorava.
Una folata di vento gelido l'investì non appena raggiunse il marciapiede, costringendola a stringersi il bavero del cappotto alla gola e a infilarsi le mani in tasca. L'aria era umida, segno che la pioggia stava per arrivare.
Ella affrettò il passo; di norma, raggiungeva quella zona della città in metropolitana, ma la tavola calda dove faceva colazione di solito era poco distante dalla New York Public Library, e così percorreva quel tratto di strada a piedi. Tuttavia, quel giorno come non mai desiderò possedere un'auto: urtò per sbaglio un tipo che vendeva rose rosse e che gliene offrì una con fare galante, poi rischiò di andare a sbattere contro una coppietta che si stava sbaciucchiando – o per meglio dire, stava pomiciando – dietro l'angolo di una via.
Tutto ciò servì solo ad aumentare il suo malumore al ricordo che, fra meno di due settimane, sarebbe stato San Valentino. E lei aveva la sfortuna di ricordarselo proprio quando aveva appena mangiato.

 
~

Il cielo si faceva sempre più grigio e nuvoloso a mano a mano che le ore passavano, e verso le undici del mattino in lontananza avevano cominciato ad apparire i primi lampi che illuminavano a scatti la superficie del mare. Eric Hunter si assicurò che il nodo della corda intorno alla cassa fosse ben saldo, prima di allontanarsi per lasciare spazio ai suoi colleghi che avevano il compito di manovrare la gru. Alzò il capo verso il cielo, sentendo alcune gocce di pioggia cadergli leggere sulla fronte e sulle guance.
Si lasciò sfuggire un sorrisetto: a differenza di tutti i suoi colleghi e in generale delle – poche – persone di sua conoscenza, a lui era sempre piaciuta la pioggia.
- Che hai da ridere tanto, decerebrato?!- lo rimbeccò un altro dei manovali che lavorava insieme a lui, sputando per terra.- Qui tra un po' si scatena il diluvio, e tu sei contento?
- Beh, che c'è di male in un po' di pioggia?- Eric si scansò per lasciare via libera a due scaricatori di porto che trasportavano un carrello su cui erano impilati dei barili di ferro, ma mantenne il sorriso.- Ha fatto parecchio caldo ultimamente, no? Chissà che due gocce d'acqua non rinfreschino un poco...
- Vuoi il fresco? Buttati in mare!- ringhiò un secondo manovale.- Sei contento che piova, eh? Vedremo se lo sarai ancora quando il capo ci rispedirà a casa prima del solito perché l'intera New York Harbor sarà allagata! Ci pagano a cottimo, te lo sei dimenticato? O lavori o non mangi!
- Hai mai visto un porto asciutto?- scherzò Eric, noncurante, sollevando una cassa da terra.- E poi, cerca di vedere il lato positivo: è tutta la notte che stiamo in piedi, se ci mandano a casa prima potrai recuperare le ore di sonno perdute...
- Ma vai a...
L'insulto nascente venne immediatamente stroncato dalla tanto prevista pioggia, la quale iniziò a cadere prima a piccole ma costanti goccioline, quindi sempre più forte, fino a divenire un vero e proprio acquazzone. Un tuono rimbombò in tutta quella zona del New York Harbor in cui Eric e gli altri manovali stavano lavorando, sovrastando i gemiti di disappunto e le imprecazioni soffocate degli scaricatori di porto. La giornata lavorativa era andata, lo sapeva, ma Eric non sentiva affatto il bisogno di abbandonarsi al nervosismo e agli insulti come gli altri manovali.
Era facile vedere le cose brutte della vita, si ripeteva sempre; più difficile era trovarne i lati positivi, ma era molto meglio quest'ultima ricerca. E a lui, modestia a parte, era sempre riuscito abbastanza bene.

 
~

Molti dei suoi colleghi sostenevano di soffrire di meteoropatia; buona parte di essi trascorreva le pause pranzo a lamentarsi di quante grane procurassero una moglie e una prole che comprendeva dai due ai tre figli; la maggior parte non faceva altro che accusare dolori e stanchezza dando tutta la colpa a quel lavoro massacrante; praticamente tutti coloro di sua conoscenza vivevano perennemente con addosso il malumore ed erano insoddisfatti della propria vita.
La gente non avrebbe esitato a definire questo atteggiamento come “normale”...Eric invece ci trovava solo il puro gusto di crearsi dei problemi gratuitamente, cosa di cui proprio non riusciva ad afferrare il senso.
Lui era sempre stato un inguaribile ottimista. Certo, non si poteva dire che appartenesse a quella ristrettissima categoria di persone che conducono una vita totalmente felice e priva di preoccupazione: era stato il primo figlio di una cucciolata di cinque, suo padre era un muratore e cacciatore nel tempo libero e sua madre una casalinga, faceva un lavoro pesante che lo stancava, più volte in passato si era trovato, come tanti altri, a contare i centesimi a fine mese, e come ogni essere umano aveva ricevuto le sue batoste, spesso anche pesanti, ma non si era mai lasciato abbattere.
Non sapeva da dove provenisse quello che, quand'era ragazzo, sua madre etichettava sempre come uno strano dono, sapeva solo che in ogni situazione brutta o difficile, lui cercava sempre di trovare il lato positivo. Anche quando a ventidue anni aveva dovuto trascorrere un'intera estate con il braccio ingessato, si era detto che, bene, non faceva niente, avrebbe impiegato il tempo per leggere tutti quei libri che si era ripromesso e che invece se ne stavano a riempirsi di polvere su una mensola. Quando i suoi genitori erano mancati, era stato triste, aveva pianto, ma era un buon cattolico, e aveva cercato di farsi forza pensando che, ora, erano in un posto migliore. Il lavoro di manovale al New York Harbor era pesante, spesso tornava a casa con la schiena a pezzi, ma riusciva comunque a trovarlo bello e piacevole, sia perché gli permetteva di vivere dignitosamente sia perché gli dava l'occasione di stare sempre vicino al mare, che lui adorava.
E anche quel giorno, in cui la pioggia aveva ridotto la busta paga di tutti loro, aveva scrollato le spalle e si era detto che, va bene, era da un pezzo che non si prendeva una pausa per bere un caffè in uno dei locali della South Street.
La sua non era bonomia forzata; aveva anche lui dei momenti di tristezza, certo, ma il suo carattere era naturalmente portato a vedere il lato positivo in ogni cosa. Molti dei suoi colleghi lo schernivano ripetendo che era perché non aveva mai ricevuto serie batoste dalla vita, ma chi parlava in genere era chi non lo conosceva affatto.
Ovvero nessuno di tutti coloro che, quel giorno, avevano seguito il suo esempio rintanandosi in quel bar vicino al porto per sfuggire all'acquazzone.
Eric bevve un altro sorso di caffè dal bicchiere di plastica, seduto in disparte in un tavolino in un angolo, lontano dagli altri manovali, i quali erano tutti ammassati accanto al bancone. All'interno del locale il brusio delle loro chiacchiere era quasi assordante, ma Eric non riusciva a distinguere se non pochi mozziconi di parole.
I discorsi erano sempre gli stessi: chi ce l'aveva con il capo, chi con un figlio che lo faceva disperare, chi con la propria moglie...
Lui quelle cose proprio non le poteva sentire e, per una volta, non gli dispiacque di essere l'escluso della situazione. Bevve un altro sorso di caffè, quindi diede un'occhiata all'orologio da polso: mezzogiorno e cinque minuti.
Fece un mezzo sorriso, estraendo il suo vecchio cellulare dalla tasca dei pantaloni e componendo in fretta un numero di telefono. Si portò l'apparecchio contro l'orecchio, rimanendo in attesa fino a che non udì un brusio in sottofondo e un sospiro.
- Associazione ostetriche frustrate d'America, Belle Cartwright in linea. Che vuoi?
- Giornataccia?- ridacchiò Eric, abbandonando il dorso contro la sedia.
Belle, dall'altro lato del telefono, rispose con uno sbuffo.
- Pure tu con il tuo stile alla vie en rose avresti un esaurimento nervoso, qua dentro. Non solo quelle stronze delle infermiere, oggi una donna ha pensato bene di lenire il dolore delle doglie dandomi della strega e tirandomi un cuscino...
- E com'è andato il parto?- chiese Eric, soffocando un'altra risata.
- Bene, un bel maschietto. C'è solo da sperare che non sia isterico come la madre. Tu come stai?
- Come al solito. Sono in pausa...beh, a dirla tutta presto credo che andrò via. La pioggia ha interrotto il lavoro, per oggi siamo fermi.
- Vedo. Beato te, io ne ho fino alle sei del pomeriggio...
- Credevo ti piacesse il tuo lavoro...
- Mi piace. Far nascere i bambini è quello che mi riesce meglio...peccato che poi diventino esseri umani ipocriti e pure un po' maniaci, nel caso dei maschi. Oh, scusa! Presenti esclusi, ovviamente...
- Non credi di stare diventando un po' misantropa, adesso?- scherzò Eric.
- Disse colui che andava a braccetto con Edith Piaf. Credo che anche tu diventeresti misantropo se avessi a che fare con medici che ti schifano dalla mattina alla sera e infermiere che fanno le svenevoli con i pazienti. Scusa di nuovo...continuo a parlare sempre e solo io. Perché mi hai chiamato?
- Nessun motivo in particolare. Mi andava di fare quattro chiacchiere.
Era vero, non aveva chiamato per nessuna ragione in particolare. Aveva semplicemente voglia di sentire Belle, e lei lo sapeva, anche se faceva finta di nulla: non era raro che loro due si telefonassero a vicenda, durante la pausa pranzo oppure la sera, quando entrambi avevano finito il loro turno di lavoro.
Lui e Belle si conoscevano da diversi anni, sebbene lei fosse di gran lunga più giovane – aveva compiuto venticinque anni da pochissimo. Era una ragazza matura, oltre che energica, ed era sempre un piacere parlare con lei, soprattutto a seguito di quello che era accaduto al loro storico gruppo di...amici. Se così si potevano definire.
Belle rise dall'altra parte del telefono.
- Devi annoiarti a morte se ti riduci a preferire le lamentele di un'ostetrica!
- No, semplicemente piove ancora troppo forte per uscire e tornare a casa.
- Che programmi hai oggi, visto che non puoi lavorare?
- Ho alcune cose da fare.
- Hai appuntamento con la psicologa?
Eric rimase in silenzio per un attimo, prima di confermare a mezza voce. Sbirciò in direzione dei suoi colleghi per assicurarsi che nessuno lo avesse sentito. Belle sospirò rumorosamente.
- Eric, non devi andarci perché ti senti obbligato. Voglio dire, per farmi un piacere. Io te l'ho consigliata perché a me ha aiutato molto dopo...beh, Vincent e Marian, e tutto il resto. Ma capisco se...
- Belle, è tutto okay. Quando mai ho fatto una cosa che non volevo? Ci vado perché mi sta aiutando...e non mi riferisco solo a Vincent e Marian. La dottoressa è bravissima, sul serio. E poi, lo sai che ne ho bisogno.
- L'importante è che lo creda tu. Va un po' meglio da quando vai da lei?
- Sì, molto. Anche se...
- Anche se?
- Lo sai: cerco sempre il Vero Amore.
Nonostante entrambi sapessero che quest'ultima frase fosse stata pronunciata con la massima serietà, Eric si lasciò andare a una fragorosa risata quando udì Belle emettere un verso gutturale ed esasperato.
- Ma siete tutti fissati con questa storia?! Stamattina la caposala del reparto maternità è venuta al lavoro esibendo un anello di fidanzamento! Ma che avete tutti quanti con l'amore? Non state bene da soli?
- Non si può stare sempre soli, no?
Eric si accorse di aver pronunciato quella frase quasi involontariamente, e si lasciò sfuggire un sorriso amaro. Con Belle era un argomento di cui era facile e difficile parlare allo stesso tempo: in genere bastava pronunciare la parola matrimonio per far sì che la sua amica evaporasse, ma lei sapeva benissimo che per lui era un argomento importante.
Perché, nonostante il suo carattere solare e ottimista, a Eric mancava davvero qualcosa: una famiglia sua. Ormai aveva quasi quarant'anni, di cui la maggior parte aveva trascorso da solo. Belle era sua amica e gli stava sempre vicino, ma non molto tempo prima era stato tradito anche da un uomo che considerava alla stregua di un fratello, un fratello minore. In più, aveva sempre avuto delle difficoltà a legare con persone nuove: molti non capivano la sua timidezza e preferivano evitarlo. Era una realtà con cui aveva imparato a convivere – più o meno: andava dalla psicologa anche per questo motivo –, ma in cuor suo gli mancava qualcuno, quello che nelle favole veniva sempre etichettato come il Vero Amore. Una volta Belle, scherzando, gli aveva chiesto come sarebbe dovuta essere la sua lei ideale, e ne era venuto fuori un profilo a dir poco fiabesco: dolce, comprensiva, gentile, altruista e ottimista come lui.
L'ostetrica aveva dichiarato con sarcasmo che, allora, avrebbero dovuto costruirgliela su misura. Eric non aveva replicato, ma in cuor suo temeva molto quest'eventualità, non fosse stato altro per il suo carattere che...diamine, che aveva che non andava, il suo carattere?!
- Beh...dipende dai punti di vista...- a Eric sembrò di udire chiaramente lo stridore dei vetri su cui si stava arrampicando Belle nel rispondergli.- Io posso ritenermi soddisfatta per come sono. Single per scelta. Ma...ecco, capisco che tu voglia innamorarti. Anche le mie sorelle sono sempre alla ricerca di qualcuno...ma beh, il loro credo che sia un caso patologico...
- Sono sempre alla ricerca del Principe Azzurro, eh?- fece Eric, con il buon umore parzialmente ritrovato.
- Peggio di un concentrato di principesse Disney. No, beh, Astrid a dire il vero sembra aver trovato il Grande Amore della Vita, ultimamente. Mi pare che sia il Grande Amore della Vita numero otto, se non ricordo male...
- Numero otto? Solo? Io ero convinto fossimo già a dodici...
- Mi sa che hai ragione. Comunque, sta con un DJ...ovviamente so già che non durerà più di una settimana, ma è meglio che non mi azzardi a mettere bocca. Clotilde invece è ancora alla ricerca.
- Non mi sembra possibile che Clotilde non riesca a trovare nessuno, è una ragazza così dolce...
- Si vede che non l'hai incontrata durante il periodo di luna piena.
- Non fare la maligna! E' tua sorella...
- Mia sorella che va in giro vestita da meretrice e che alla veneranda età di ventinove anni ancora deve laurearsi! Comunque...se vuoi posso pensarci io.
Eric udì a stento l'ultima parte della frase di Belle, semi coperta da un fruscio elettronico. Fuori il tempo era peggiorato, ora era in corso un temporale con i fiocchi. - Pensarci tu...a fare cosa?
Il fruscio elettronico si ripeté, più forte e più frequente.
- A...fa...e...a...organ...are...u...ap...ento...
- Belle? Belle, mi senti?
Il fruscio coprì interamente la voce di Belle, fino a che questo non venne sostituito da un insistente tu-tuuu. Eric sospirò, spegnendo il cellulare.
La linea era caduta.

 
~

Per tutto il pomeriggio, Ella non fece altro che pensare e ripensare a quella scena di The day after tomorrow in cui le persone si rifugiavano urlando proprio nella New York Public Library prima di essere travolti da un'onda assassina.
Erano immagini che la riconciliavano con il mondo.
Continuò a camminare lungo l'ampio corridoio centrale della sala consultazioni a testa alta, trovando comunque il modo di voltare il capo e fulminare con un'occhiataccia un tipo che invece di tenere il muso chino su un libro stava sbavando alla vista del suo fondoschiena.
Il tipo in questione si ricompose immediatamente non appena si vide scoperto, ed Ella proseguì il suo giro di controllo, stringendosi al petto due volumi di Chretièn de Troye che non si sapeva come erano finiti in mezzo ai libri di medicina, e nel contempo senza smettere di rimuginare fra sé e sé sul motivo di tanto interesse sulla sua persona.
Non era male, come donna; ne era consapevole, eppure restava fermamente convinta che l'interesse che spesso i frequentatori della biblioteca mostravano nei suoi confronti fosse da ricondurre ai messaggi divulgati dalla cultura di massa.
Il suo mestiere non l'aiutava.
Ella indossava sempre la stessa mise quando era al lavoro, trecentosessantacinque giorni all'anno, ovvero una camicetta bianca su una gonna nera lunga fino al ginocchio, collant scuri e scarpe di vernice con tacchi che risuonavano sul pavimento della New York Public Library come sul vetro. Tendeva sempre ad acconciarsi i capelli biondi in uno chignon alto sul capo, e portava un paio di occhiali quadrati per correggere una leggera miopia.
Il che era come un invito a nozze per tutti quegli adolescenti che in vita loro avevano visto troppi film pseudo-romantici in cui la timida infermiera/segretaria/bibliotecaria si rivelava in realtà una bomba del sesso. Era un cliché che la perseguitava come un'ombra, e non c'era niente di peggio per chi come lei sognava di tutto tranne che trovare il Principe Azzurro.
Ella superò velocemente le due colonne di banchi quel giorno poco affollati, fino ad arrivare quasi in prossimità della porta, salvo arrestarsi un attimo prima di uscire quando si accorse di una figurina raggomitolata su una seggiola accanto all'ultimo banco, china su di un libro come se dovesse proteggersi da qualcosa.
La bibliotecaria si lasciò sfuggire un impercettibile sorriso.
- Come sempre scegli il posto più isolato, eh?- bisbigliò, avvicinandosi così di soppiatto a Elizabeth da farla trasalire. La ragazzina si sistemò meglio i grandi occhiali rotondi – una specie di Enterprise, Ella provava quasi pena quando la vedeva con quei cosi addosso – e fece un cenno con una mano in segno di saluto, prima di tornare a leggere. Ella si sporse sopra la sua spalla per vedere meglio.
- Hai già finito di leggere It?- sussurrò con una smorfia di disappunto, quando si accorse che Elizabeth stava leggendo non uno dei capolavori di Stephen King bensì Jane Eyre di Charlotte Brontë. Un romanzo di cui la sola cosa che aveva apprezzato era stata la moglie pazza rinchiusa in soffitta.
Elizabeth annuì.
- Quasi, mi mancano una ventina di pagine.
- Ti piace?
- Molto, ma per oggi ho preferito prendermi una pausa da pagliacci assassini. Questo sembra bello...
- Lo è...se ti piacciono le romanticherie.
Ella comprese al volo il tentativo – peraltro malcelato – di Elizabeth di fingere di non aver colto il sarcasmo. La ragazza si strinse nelle spalle, fingendo indifferenza.
- La professoressa d'inglese voleva che leggessimo qualcosa di romantico.
- Balle. Non è un compito di scuola. Tu sei patita di storie come questa.
- No, lei...ha detto che visto che fra poco sarà San Valentino, allora...
- Liz - Ella le mise una mano su una spalla con fare disperato.- Liz...piove a dirotto, un idiota ha appena tentato di sbirciarmi sotto la gonna e devo leggere la Pamela di Richardson. Quindi, se te ne importa minimamente del mio equilibrio psicofisico, non parlarmi di San Valentino!

 
~

Il temporale si era presto estinto, lasciando tuttavia spazio a un violento acquazzone che non accennava a voler smettere. Ella s'infradiciò da capo a piedi durante tutto il percorso che la separava dalla New York Public Library alla New York City Subway, e trascorse la seguente mezz'ora stipata in un vagone della metropolitana a guadagnarsi spazio e ossigeno a suon di gomitate, in mezzo ad altri pendolari che come lei finivano il turno di lavoro, solo per poi bagnarsi completamente lungo la strada che la conduceva al suo appartamento e rischiare un esaurimento nervoso quando vide che l'ascensore era fuori uso di nuovo.
A ogni gradino che saliva il suo umore precipitava sempre di più nel nero abisso dell'isteria, e fu ben felice quando raggiunse la porta di casa e la richiuse dietro di sé con un colpo secco.
Il suo appartamento si trovava al terzo piano della Long Island City; non era una zona residenziale, ma nemmeno un postaccio come quei pochi angoli del Bronx in cui ancora dovevi girare con il giubbotto antiproiettile. Ella l'aveva preso in affitto esattamente due mesi dopo aver ricevuto il suo primo stipendio da bibliotecaria, ovvero non appena aveva acquisito un minimo di indipendenza economica tale da permetterle di lasciare l'ovile e andare a vivere per i fatti propri. Contava una camera da letto con materasso a due piazze – di cui una mai utilizzata –, bagno con vasca e doccia, una cucina priva di porta che dava diretto accesso al salotto – la stanza più grande dell'intero appartamento, provvista di un meraviglioso televisore al plasma –, e in più un'altra cameretta che prima del suo arrivo probabilmente doveva essere stato un ripostiglio, ma che Ella aveva arredato in modo da adibirla a una sorta di studio privato, con scrivania e una libreria stracolma che occupava un'intera parete.
Ella scalciò via le scarpe tastando contemporaneamente il muro alla ricerca dell'interruttore, e abbandonò la borsetta in un angolo del corridoio, sbuffando. Quasi in contemporanea all'accensione della luce, da dietro l'angolo del salotto provenne un flebile miagolio.
Ella si tolse il cappotto zuppo d'acqua, appendendolo all'attaccapanni mentre un altro miagolio – sì, era diverso, ormai li riconosceva a orecchio – seguiva il primo, sempre proveniente dal corridoio.
- Piccoli!- chiamò la bibliotecaria, toccandosi nervosamente lo chignon ora storto sul capo.- Piccoli, sono tornata!- annunciò.
Come si era aspettata, l'unica a venirle incontro fu Arwen, la sua gattina nera che aveva adottato da due anni, quand'era una cucciola. La gatta le si avvicinò, strusciandosi contro la sua caviglia; Ella sghignazzò, chinandosi velocemente e accarezzandole il capo, prima di avviarsi in direzione del salotto.
Legolas, il suo gatto più vecchio, con il pelo grigio a strisce più scure, se ne stava appollaiato sullo schienale del sofà, facendo muovere la coda su e giù e guardandola sornione. Ella agitò una mano, facendolo cadere sui cuscini.
- Via!- lo incitò.- Lo sai che non devi salire sul divano, te l'avrò detto mille volte!
Legolas balzò giù dal sofà, cozzando proprio contro Aragorn, una palla di pelo di almeno dieci chili, rosso carota, così rotondo e grassottello che solo due mesi prima Ella aveva perso mezz'ora per riuscire a tirarlo fuori da sotto il lavandino della cucina dov'era rimasto incastrato. Aragorn soffiò innervosito in direzione di Legolas, facendo correre quest'ultimo a nascondersi dietro una poltroncina. Ella ridacchiò.
- Fifone!- fece una linguaccia in direzione di Legolas, ancora imboscato dietro la poltrona, e si chinò a prendere in braccio Arwen. Le fece dei grattini dietro le orecchie, come piaceva a lei, guardandosi intorno. Si affacciò alla porta della cucina, sbirciando dentro: tre ciotole giacevano vuote e abbandonate sotto il tavolo contro la parete, con all'interno solo qualche resto di croccantino. Ella gemette a mezza voce, continuando ad accarezzare Arwen.
- Lo sapevo che non ne avevo messi abbastanza...tranquilli, piccoli, adesso vi preparo la cena...
Mise giù la gatta, dirigendosi verso il cucinotto e iniziando ad armeggiare con sportelli e cassetti. Riempì ogni ciotola con dei croccantini per gatti e aggiunse a ciascuno un piattino con una scatoletta di tonno, premurandosi anche di rimpinguare la scodella con l'acqua in modo che potessero bere. Ella si fermò solo un attimo ad osservare Arwen che mangiava tranquilla mentre Legolas e Aragorn si litigavano il tonno, prima di filare in bagno.
Fece una doccia veloce, quindi indossò il suo pigiama più largo e comodo, di cotone con la sagoma di un orsacchiotto stampata sul davanti. Sciolse lo chignon, lasciando che i capelli le cadessero sulle spalle.
Si fermò a guardarsi di fronte allo specchio per un istante: così, con i capelli biondi che le arrivavano fino alla vita, sciolti sulle spalle, e senza occhiali, poteva anche essere considerata una bella donna, tanto più che era abbastanza alta e aveva un fisico snello, ma a Ella non era mai importato più di tanto dell'apparenza fisica come invece alle sue sorellastre, quindi non stette tanto a rimuginarci troppo. Quando tornò in cucina, i tre gatti avevano spazzolato via il tonno e buona parte dei croccantini, e lei si azzardò ad aprire il frigo per vedere cosa le si prospettava per cena.
Non aveva avuto molto tempo per fare la spesa, nell'ultima settimana, e si era limitata a comprare qualcosa al volo al supermercato mentre andava al lavoro, di tanto in tanto, quindi non aveva molta scelta: per carità, era sicura al cento per cento di avere ancora una scatola di spaghetti da qualche parte, ma la voglia di cucinare le mancava. Si accontentò dunque di un'insalata con uova e pomodori fredda da frigo e di uno yogurt, che decise di mangiare in salotto. Si buttò pesantemente sul divano, incrociando le gambe mentre ingoiava una generosa cucchiaiata di insalata.
Arwen si affacciò alla porta della cucina, zampettando fino al divano e saltando sui cuscini. Fece le fusa, strusciandosi contro una coscia della sua padrona. Ella sorrise, posando la ciotola d'insalata e prendendola in braccio.
Afferrò il telecomando.
- Guardiamo che cosa c'è in TV, vuoi?- propose ammiccando, e premette il pulsante di accensione.
Per dieci minuti buoni, Ella si limitò a fissare lo schermo mentre scorrevano le notizie al telegiornale, mangiucchiando qualcosa e accarezzando Arwen di tanto in tanto, senza prestare veramente attenzione a quello che il giornalista stava dicendo e a malapena vedendo le immagini che le scorrevano di fronte agli occhi. Alla fine, decise che era stufa di politica ed economia e cambiò canale.
Un film forse sarebbe riuscito a farle staccare la spina per un po', si disse.
Fu peggio che mai.
Da quel poco che ricordava degli anni passati, TV, giornali, riviste e vetrine dei negozi si limitavano a bombardare la gente con smancerie romantiche solo ed esclusivamente il giorno stabilito per San Valentino, o al massimo una settimana prima. Invece, adesso chiunque a due settimane di distanza sembrava già essere immerso in un misticismo di cuoricini e cupidi, televisione e film compresi.
Ella cambiò canale almeno dieci volte, e perennemente si ritrovava di fronte scene di Via col vento, Titanic e simili. Provò a fare uno sforzo e a vedere cinque minuti di Quattro matrimoni e un funerale, ma alla fine l'esasperazione fu troppa e spense definitivamente la televisione.
Si abbandonò distesa sul divano, lasciandosi prendere dalla noia.
Arwen le si accoccolò sull'addome, godendosi le carezze di Ella. La bibliotecaria sbuffò, fissando il soffitto: non capiva che bisogno ci fosse ci celebrare l'amore in un determinato giorno dell'anno. Lei ne sapeva ben poco, ma supponeva che, se due persone erano innamorate, lo erano sempre, non solo durante quello svenevole San Valentino. Ma, forse, lei non era la persona più indicata per giudicare: l'amore non l'aveva mai sopportato.
Le poche volte in cui si lasciava sfuggire qualcosa sulla sua vita privata con persone che non conosceva, avrebbe quasi potuto dire di possedere il dono della telepatia, tanto riusciva a comprendere cosa pensassero di lei: bibliotecaria, aspetto perennemente castigato, pure un po' acida, che viveva sola con tre gatti.
L'equazione perfetta per zitella sola e frustrata.
Ella avrebbe voluto mollare un pugno al suo interlocutore, quando gli vedeva spuntare sul volto quel solito sorrisetto compassionevole. Non capiva cosa ci fosse che non andava in una donna che viveva per i fatti suoi, che lavorava, amava i gatti e non sentiva il bisogno di un uomo. La maggior parte delle persone che conosceva – Elizabeth compresa, spiaceva dirlo – sognava il Vero Amore, cosa che lei proprio non aveva mai cercato.
Aveva sempre provato un profondo disgusto misto a un senso di pena di fronte alle dodicenni che si credevano innamorate del brufoloso di turno dopo averlo conosciuto da neanche due ore, e che dichiaravano istinti suicidi non appena la storia – se così la si poteva chiamare – giungeva al termine. Idem per tutte quelle donne che proprio non arrivavano a comprendere che uno stronzo come quello che le aveva appena piantate in asso dopo averle fatte piangere, ingannate e magari cornificate per anni era meglio perderlo che trovarlo.
Elizabeth una volta le aveva chiesto da dove venisse tutta questa avversione verso l'amore, e lei si era subito affrettata a dire che non era stato a causa di un qualche trauma come aveva compreso la sua amica pensasse – di nuovo la telepatia.
Era vero, nessun trauma del passato. Niente genitori divorziati, niente grande amore che aveva scoperto essere sposato con tre figli dopo ben dieci anni insieme, o roba simile.
Ella non ci credeva e basta. Punto e stop. Liz si ostinava a dire che era perché non aveva ancora incontrato quello giusto, ma nemmeno lei stava messa troppo bene in quel senso, quindi non aveva il diritto di giudicare.
Tanto più che tutti i casi di “amore” a cui aveva assistito erano finiti inesorabilmente in melma.
Ella aveva perso sua madre quando era piccolissima, forse non aveva neppure due anni. Era morta di cancro. Lei neppure se la ricordava, e se non fosse stato per qualche fotografia non avrebbe neppure saputo che faccia aveva. Comunque, sua nonna di tanto in tanto si era lasciata sfuggire alcuni particolari sulla vita matrimoniale dei suoi genitori, ed Ella aveva messo insieme quei mozziconi di racconto fino a dipingere un quadro a dir poco desolante: per quel poco che erano stati sposati, sua madre e suo padre non erano stati troppo felici.
Dopo la morte della moglie, suo padre era passato da una conquista all'altra, ma niente di così importante da presentare le sue donne alla figlia, fino a che non si era risposato con una divorziata con due figlie. Quando gliel'aveva presentata, Ella aveva diciotto anni, e aveva mantenuto per tutto il tempo un atteggiamento educato ma comunque distaccato.
Non le importava granché che suo padre si risposasse o meno: era adulto, era in grado di prendersi le sue responsabilità. Aveva assistito al matrimonio con calma e tranquillità, ma in cuor suo era certa che non sarebbe durata. E aveva avuto ragione.
Suo padre e la sua matrigna tutt'ora vivevano come separati in casa; lui stava tutto il giorno fuori per lavoro e lei a casa a pensare alle sue figlie. Quanto a Ella, non appena aveva potuto aveva levato le tende: era orgogliosa del suo impiego di bibliotecaria, un posto di lavoro che aveva vinto in un concorso tra altre migliaia di candidati, e che le permetteva di mantenersi da sola e vivere dignitosamente.
Non aveva bisogno di un uomo, tanto meno per fare la fine di suo padre e di tutte le sue amiche.
Arwen si era accucciata sopra il suo ventre, e in capo a due secondi da ciò Ella si ritrovò con Legolas che le leccava il naso. Sbuffò, alzandosi di scatto dal divano e allontanando il gatto da sé. Arwen balzò sul tappeto, miagolando.
- Vi annoiate anche voi, eh?- domandò, mettendosi seduta.
Udì un rumore proveniente dallo studio, e si voltò. Aragorn era sulla scrivania, e stava beatamente zampettando sulla tastiera del suo portatile. Ella si alzò di corsa dal sofà urtando per sbaglio Legolas, il quale protestò con un miagolio innervosito, e si precipitò a scacciare il gatto dal pelo rosso via dal suo portatile.
- L'ho pagato quasi più delle Loubutin con il tacco, non mi serve che tu mi righi anche la tastiera!- sbuffò, ma quasi a rimarcare che non era arrabbiata con lui prese Aragorn e il suo non indifferente peso in braccio mentre si sedeva alla scrivania di fronte al pc. Era un modello abbastanza nuovo, della Apple, e già più di una volta uno dei suoi gatti aveva rischiato di rovinarlo. Ella si assicurò che andasse tutto bene, accendendo la lampada sulla scrivania per far sì che la luce dello schermo non fosse l'unica a illuminare la stanza: era un pessimo vizio, quello che aveva preso, ovvero di tenerlo sempre acceso anche quando non lo usava. Lo faceva essenzialmente perché, in tal modo, quando tornava a casa dal lavoro sapeva subito se aveva dei nuovi messaggi nella casella postale o altro.
Sullo schermo le apparve una notifica. Ella l'aprì svogliatamente, e divenne ancora più svogliata quando vide che la notifica apparteneva a Meetic.it.
Il messaggio apparteneva a un nickname che lei non aveva mai visto, e recitava:

 
Ciao, sei carina. Ti va di chattare?

Ella fece una smorfia infastidita, cancellando immediatamente il messaggio con un ironico no, grazie! mentale, e rimase a fissare lo schermo del pc, con il mento poggiato contro una mano. Non ricordava più nemmeno perché si fosse iscritta a quel sito: lei non era in cerca di incontri amorosi, e a dirla tutta aveva sempre considerato un po' da sfigati sperare di conoscere qualcuno di nuovo attraverso un computer invece di uscire di casa e andare in un bar o a ballare, se proprio si sentiva la necessità d'incontrare gente nuova. L'aveva fatto un po' inconsapevolmente, al lavoro tutte le sue colleghe erano iscritte e ne parlavano, e così lei aveva voluto provare...con il solo risultato di spendere una marea di soldi ogni mese per l'abbonamento a un sito che non usava mai.
Non aveva mai provato a chattare. Non ne sentiva il bisogno, e poi, sentiva fin troppe storie macabre al telegiornale che si concludevano nel peggiore dei modi, tutte storie nate su Internet.
Ma ora...
Ella si umettò le labbra, pensosa. E dai, in fondo che aveva da perdere? Era solo un passatempo per non trascorrere una serata in noia. E poi, lei non era una quindicenne stupida e incosciente piena di film su teenager con gli ormoni allo stato brado: sapeva badare a se stessa, anche su Internet.
Inspirò a fondo, sistemandosi meglio sulla sedia ed entrando nel proprio account. Mise la modalità online per le chat, e scrisse su uno schermo vuoto:

Arwen Ciao...c'è qualcuno?

Una volta che l'ebbe scritto si sentì come liberata da un peso. Ma fu una sensazione che durò giusto una quindicina di secondi. Dopo, si diede dell'idiota totale.
Ora sullo schermo campeggiava un quadratino con all'interno la sua fotografia, con il suo faccione arrossato dal sole della spiaggia di New York, con i capelli incrostati di sabbia e scompigliati, e sotto quella frase da cerebrolesi affianco al nome della sua gatta!
Ella si sentì percorre da un brivido, quindi si avventò sulla tastiera ben decisa a cancellare quell'oscenità e a far finta che non fosse mai successo nulla, ma...

Arwen Ciao...c'è qualcuno?
Huntsman Ciao. Ci sono io, se vuoi.

Per poco non le cascò la mandibola.
Ecco cosa si otteneva nel voler fare la scema. Non aveva pensato a niente quando aveva scritto quella frase, e ora qualcuno le aveva risposto. E chissà chi era, quel qualcuno! Per quel che ne sapeva lei, avrebbe anche potuto essere...
E ora, come ne usciva?
Ella rimase a fissare lo schermo inebetita per un tempo che dovette essere sufficientemente lungo, perché...

Huntsman Ehi...sei ancora lì?

Ella deglutì, sentendo di essere arrossita per la vergogna, e si passò nervosamente una mano fra i capelli. L'istinto le suggeriva di non rispondere – aveva già fatto abbastanza idiozie, per quella sera –, ma l'educazione che suo padre le aveva impartito ancora una volta prese la meglio. Si disse che, come minimo, avrebbe dovuto scusarsi per la sua stupidata.
Digitò velocemente la prima cosa che le venne in mente.

Arwen Scusa per il disturbo.
Huntsman Quale disturbo?

Di male in peggio. Molto probabilmente qualcuno doveva averle fatto il malocchio, quella sera. Si mordicchiò le labbra, digitando nuovamente.

Arwen Chiedo scusa ancora, ora esco dalla chat.
Huntsman Perché? Non ti avrà spaventato il nome, vero? L'ho scelto solo perché mio padre era un cacciatore, ma forse è il caso che lo cambi...

Pure senza emoticons e scemenze varie si capiva che la frase voleva essere scherzosa. Ella fece un mezzo sorriso, alzando gli occhi al cielo, e digitò ancora.

Arwen No, nessun problema con il nome. Solo che ho fatto una cretinata. Non credo che avrei dovuto iniziare a chattare...Fa' lo stesso, scusami ancora.
Huntsman Perché pensi che non avresti dovuto?
Arwen Perché io di solito queste cose non le faccio.
Huntsman C'è sempre una prima volta per tutto, no?

Ella sbatté le palpebre. La situazione aveva preso una piega che non si aspettava: era partita con l'idea di chiudere la conversazione il più in fretta possibile, e invece aveva già spiccicato più di una decina di parole con uno sconosciuto, praticamente il suo record – aggravante dovuta anche al fatto che era su Internet.
Guardò la fotografia del suo interlocutore: era un po' sfuocata, s'intravedeva solo un uomo che doveva avere all'incirca quarant'anni, con i capelli scuri e il volto un po' scurito dal sole, sebbene sorridesse.
Inarcò un sopracciglio, ben decisa a farla finita.

Arwen Senti, ammetto di aver fatto una fesseria, ma metto subito in chiaro una cosa: non sono una single disperata che cerca incontri galanti.
Huntsman Ho mai detto il contrario?
Arwen Probabilmente lo pensi.
Huntsman Hai il dono della telepatia?
Arwen Mi ritengo prudente.
Huntsman Prudente o paranoica?
Arwen Sappi che con quest'ultima uscita sei precipitato in fondo alla mia scala di fiducia.
Huntsman Faccio parte di una scala di fiducia? Mi avevi dato l'impressione di non voler più parlare con me...

Di nuovo, la sua mandibola tornò a perdersi nei meandri delle profondità della terra.
Ma cosa le prendeva, quella sera? Altro che malocchio, una delle sue colleghe doveva averle messo qualcosa nel bicchiere, durante la pausa caffè...
Ancora una volta, il suo silenzio dovette durare più del dovuto, perché...

Huntsman Ehi, ci sei ancora? Scusa, non volevo essere scortese...davvero, giuro che non intendevo dire che non volevo parlare con te. Mi rispondi? Sei ancora lì?

Ella si riscosse.

Arwen Sì, sono ancora qui. Il problema è che...non lo so.
Huntsman Non preoccuparti, è normale. Partiamo dall'inizio, vuoi? A cosa devi questo soprannome?
Arwen Arwen, dici?
Huntsman Sì, Arwen...come l'elfa del Signore degli Anelli, dico bene?
Arwen Arwen come la mia gatta.
Huntsman Arwen come la tua gatta e come l'elfa del Signore degli Anelli.
Arwen Già. Hai letto il libro?
Huntsman No, ma ho visto il film.

Arwen Allora non sai cosa ti perdi...
Huntsman Me lo dice anche una mia amica. Lei è un topo di biblioteca, anche se fa l'ostetrica...dice che dovrei leggerlo, ma a dirti la verità le dimensioni del tomo mi hanno sempre scoraggiato. Non mi ritengo una persona molto colta.
Arwen Non serve essere colti. Tutti possono leggere. Se così non fosse, io a quest'ora sarei disoccupata.
Huntsman Che lavoro fai, se posso chiedere?
Arwen La bibliotecaria. E tu?
Huntsman Il manovale giù alla New York Harbor. Ah, scusa! Ho dato per scontato che fossi di New York...

Ella s'irrigidì. Quella frase buttata lì le dava l'idea che il suo interlocutore volesse scoprire dove vivesse. Tergiversò.

Arwen Di niente, so dov'è la New York Harbor.
Huntsman Io abito lì vicino, per la cronaca. Precisamente in South Street...tornando a te: hai detto di avere una gatta?

Non aveva cercato di estorcerle informazioni pericolose, il che era un punto a suo favore. Ella esitò un attimo prima di rispondere.

Arwen Ne ho tre, a dire il vero.
Huntsman Notevole. Sei una gattofila?
Arwen Non esageriamo. Mi piacciono i gatti, ci sono cresciuta insieme, anche se quello della mia matrigna si è guadagnato totalmente il nome che porta.
Huntsman Come si chiama?
Arwen Lucifero.
Huntsman Povera bestia...!
Arwen Povera un bel niente...non puoi neanche immaginare quante tende abbiamo dovuto gettare via per colpa sua...
Huntsman No, hai ragione, non posso farlo. Ho sempre avuto cani, e loro in genere la stoffa la lasciano perdere...
Arwen Non ne dubito, peccato che a me i cani facciano paura...
Huntsman Trauma infantile?
Arwen Oltre che manovale, nel tempo libero sei anche psicologo?
Huntsman No, ma ho supposto ci fosse un motivo.
Arwen Nessun trauma, semplicemente i gatti sono più puliti e più educati.
Huntsman E' un punto di vista e come tale va rispettato. Tornando a noi...anche gli altri due gatti hanno fatto una scampagnata nella Terra di Mezzo?

Senza volerlo e anche un po' stupidamente, Ella si lasciò sfuggire una risata.

Arwen Bingo. Si chiamano Legolas e Aragorn.
Huntsman Per caso hai anche un pesce rosso di nome Frodo e un canarino che si chiama Semwise?
Arwen No, ma posso sempre provvedere. Anche se credo che gatti, canarini e pesci rossi formerebbero un mix esplosivo, nel vero senso della parola. Scusa un attimo...com'è che siamo finiti a parlare di animali domestici?
Huntsman Partendo dal tuo nick, ma non ricordo troppo bene. Vuoi parlare d'altro?
Arwen Non saprei bene cosa dire a uno sconosciuto su Internet...

Stavolta Ella aveva scritto la frase con una quasi totale consapevolezza; in cuor suo sentiva che quello che stava facendo – chattare con chissà chi su Internet – era sbagliato, eppure si trovava combattuta fra il troncare la conversazione e il proseguirla. In fondo, finché si mantenevano le distanze e il rispetto, che male c'era?

Huntsman Comprendo il tuo punto di vista, ma se può aiutarti voglio assicurarti che non sono un cinquantenne che vive nello scantinato della casa dei genitori spacciandosi per un ventenne alla ricerca di fanciulle indifese. Non ho mai creduto che Internet fosse il miglior modo per trovare il Vero Amore, a dire la verità.
Arwen Ne sono sollevata.
Huntsman Per quale dei sopracitati motivi?
Arwen Un po' tutti, ma soprattutto il fatto che non stai cercando di rimorchiare. Non sono in cerca di un uomo, anzi, a essere sincera non so neanche perché ho iniziato questa chat...
Huntsman Ne parli come se ne fossi dispiaciuta.
Arwen E' ancora tutto da vedere, ma per ora ammetto che non sta procedendo male.
Huntsman Finalmente una buona notizia.
Arwen E tu? Perché stavi su Internet?
Huntsman Storia lunga.
Arwen Riesci a farla diventare breve?
Huntsman Non credo, non conviene darmi corda quando inizio a parlare.
Arwen Okay, proviamo qualcos'altro...visto che hai detto di non avere cinquant'anni, quanti ne hai?
Huntsman Purtroppo per te temo di essere più vicino ai cinquanta che ai venti.
Arwen Sbaglio o noto una certa ritrosia nel rispondermi?
Hunstman E va bene. Ne ho quasi quaranta.
Arwen Età accettabile, perlomeno so di non parlare con un vecchio decrepito.
Huntsman Ti ringrazio. Ora sì che posso tagliarmi serenamente le vene...
Arwen Scusa, non volevo.
Hunstman Stavo scherzando.
Arwen Meno male, quantomeno ho evitato la figura di merda.
Hunstman Pecco di maleducazione se a mia volta chiedo l'età a una signora?
Arwen Ho ventotto anni.
Hunstman Età accettabile.
Arwen Spiritoso...
Huntsman Sì, modestamente il mio senso dell'umorismo è noto in tutta la New York Harbor...
Arwen Ma davvero...?
Huntsman Certo...a meno che io non abbia frainteso il senso di tutti quei pomodori e di quelle uova...

Di nuovo, Ella si aprì in una risata liberatoria, e tornò a scrivere una risposta abbastanza carica di verve da tenere testa alla replica del suo interlocutore. Continuarono a chattare fino a notte fonda, quando Ella si disse troppo stanca per proseguire: salutò l'uomo che si celava dietro quel nickname e dichiarò di voler andare a letto. Lui le rispose con un ci si risente, ma la bibliotecaria non credeva davvero che sarebbe successo.
Si sbagliava.

 
~

Per tutta quella settimana il tempo fu altalenante, anche se più spesso erano le nuvole a farla da padrone, mentre qualche raro spiraglio di sole si azzardava a spuntare fuori solo di tanto in tanto. Verso il week-end il tempo peggiorò ancora, e le previsioni annunciarono che non sarebbe migliorato sino al 14 di febbraio.
Quel sabato pomeriggio pioveva a dirotto, ed Eric giunse allo studio della dottoressa Amber completamente infradiciato e con i vestiti grondanti d'acqua. Finì con l'inzuppare non solo l'ingresso ma anche la moquette all'interno dello studio, scusandosi mille volte per l'accaduto.
Fortunatamente la dottoressa era un tipo molto gentile e per nulla presuntuoso, non tanto da prendersela per un po' d'acqua. Per Eric era un tratto ammirevole: in vita sua aveva conosciuto fin troppe persone cosiddette intelligenti, colte ed istruite che  l'avevano guardato dall'alto in basso per il suo lavoro da manovale. Come se una laurea o del denaro consegnasse loro il mondo intero fra le mani.
Era uno stereotipo costruito col tempo e l'esperienza che – doveva confessarlo – si era portato in tasca quando aveva accettato di andare dalla dottoressa Amber. Non era mai stato da uno psicologo in vita sua fino a che Belle non gliel'aveva consigliata, e un po' si vergognava ad ammettere di essere entrato nello studio della dottoressa carico di scetticismo. Belle gli aveva raccomandato di essere una tabula rasa – aveva detto proprio così: non farsi preconcetti ma nemmeno troppe aspettative.
Lei gli aveva assicurato che la dottoressa Amber era una persona meravigliosa e che l'aveva aiutata parecchio dopo quell'incidente in cui erano rimasti coinvolti loro due, Vincent, Marian e Robin. Era stato un periodo orrendo, quello, e Belle più di tutti ne aveva risentito, causa lo shock e anche i traumi fisici riportati.
La sua amica ostetrica era un tipo energico, abituata a cavarsela da sola in ogni situazione, ma proprio non riusciva a venirne a capo da sola, dopo quel che era successo: poi, aveva conosciuto la dottoressa Amber e dopo alcune sedute le cose erano andate meglio.
Belle gliel'aveva consigliata caldamente, e tutt'ora Eric non ne era pentito.
Si lasciò cadere sul divano piantando i gomiti sulle ginocchia, mentre mormorava l'ennesimo mi scusi ancora riguardante la moquette inzuppata. La dottoressa Amber era ancora giovane – gli era sempre sembrato fuori luogo chiederle l'età, ma supponeva dovesse essere poco più vecchia di Belle, sicuramente non superava i trentadue anni –, ma ci sapeva fare, eccome.
- Come andiamo questa settimana?- esordì la donna con un mezzo sorriso, sistemandosi meglio sulla sua poltroncina in pelle nera e sporgendosi un poco verso di lui. Eric si strinse nelle spalle, fissando il pavimento: gli risultava sempre difficile iniziare una conversazione.
- Partiamo dalla seduta scorsa - la dottoressa Amber prese in mano la situazione, come sempre.- Dov'eravamo rimasti?
- Al solito punto - rispose Eric, un po' in imbarazzo.- Al fatto che torno a casa la sera e non c'è nessuno ad aspettarmi...
La psicologa non disse nulla, continuando a guardarlo in attesa che continuasse. Eric si schiarì la voce, torturandosi le mani mentre le sfregava una contro l'altra.
- Io...vorrei capire - soffiò alla fine.
- Siamo qui apposta - la voce della dottoressa era molto dolce, calma, infondeva tranquillità e fiducia.- Ma credo che sia meglio analizzare il problema partendo da piccoli passi. In questo modo, potremo arrivare meglio e più facilmente alla soluzione.
- Io non vorrei che pensasse male di me!- si affrettò a dire Eric, sollevando il capo di scatto e guardandola negli occhi.- Tutto voglio tranne darle l'impressione di farle perdere del tempo con questioni che lei ritiene futili, ma...
La dottoressa non lo lasciò finire, interrompendo la frase con una breve risata. Abbandonò il dorso contro lo schienale della poltrona.
- Ogni tanto è bello udire un cliché diverso da lo psicologo cura i matti - commentò, prima di tornare seria e sporgersi ancora verso di lui.- Eric, ognuno di noi ha problemi diversi, ma non per questo alcuni sono meno degni d'attenzione di altri - spiegò con tranquillità.- Da me non vengono solo persone con problemi di alcool, tossicodipendenti o ragazze anoressiche. Molte coppie in crisi sentono di aver bisogno di un aiuto, o persone che non riescono a compiere una scelta difficile...non sai quante quattordicenni lasciate dal fidanzatino mi capitano!- Eric rise a quell'uscita, ma si sentì parecchio sollevato dalla schiettezza della dottoressa.- Nessun problema è banale, né potrà mai annoiarmi...dunque, torniamo al punto. Concentriamoci sul nodo focale, che ne dici?
- A volte penso che dovrei cambiare atteggiamento...- esordì Eric dopo aver annuito.
- Perché?
- Beh, con il mio carattere non faccio altro che aumentare il mio isolamento.
- E pensi che diventando un uomo scontroso e perennemente immusonito le cose cambierebbero? Mi è parso di capire questo.
- Sto davvero cominciando a pensare di sì.
- Non mi pare che nel tuo carattere ci sia qualcosa che non va, Eric.
- Come fa a dirlo?
- Potrei risponderti che gli strizzacervelli leggono nel pensiero, ma ti direi una bugia - la dottoressa Amber piegò il capo di lato.- La verità è che io e te ci vediamo da tante settimane, ogni venerdì, e tu stesso mi hai più volte esposto la tua filosofia di vita.
- Pensa che sia sbagliata?
- Ha importanza quello che penso io?- la psicologa lo guardò.- Stai chiedendo alla persona sbagliata, Eric. Non è a una strizzacervelli che devi porre questa domanda, è a te stesso. Tu pensi che avere un carattere solare e positivo come il tuo sia sbagliato?
- E' una domanda retorica?
- E' una domanda.
Eric sospirò, tornando a fissare il pavimento. Impiegò diversi secondi prima di rispondere.
- Non lo so...- ammise alla fine.- So solo che non credo riuscirei a comportarmi diversamente, neppure se lo volessi. Ma visto e considerato che a quarant'anni sono solo come un cane, forse non mi farebbe diventare come Scrooge.
- Ti ricordo che Scrooge era solo comunque - puntualizzò la psicologa.- E tu stesso hai detto che non riusciresti a essere diverso da come sei.
- E' molto grave?
- Solo se lo vivi come tale. Io penso che il mondo dovrebbe girare in tutt'altra maniera ma, come ho detto prima, non spetta a me giudicare. Ti va di raccontarmi come va adesso?
- Come sempre. Non riesco a capire perché non riesco a legare con le persone.
- Hai mai pensato che forse finora non hai incontrato la gente giusta? Non si può andare d'accordo con tutti...Hai provato a fare come ti dicevo? Tentare di...conoscere nuove persone?
- Io...- Eric sollevò il capo a guardare la dottoressa, quindi si sfregò ancora le mani.- A dire il vero, sì.
- E com'è andata?
- Ci...sentiamo via chat da una settimana, circa. Tutte le sere.
- Beh, è una cosa positiva. Ti andrebbe di raccontarmi come hai conosciuto...questa persona?
- E' una donna. Ha ventotto anni.
- Come si chiama?
- Non lo so, ma il suo soprannome è Arwen.
Eric sapeva che questa rivelazione l'avrebbe lasciata perplessa, motivo per il quale aveva cercato di girarci intorno finché aveva potuto. Esattamente come aveva previsto, la dottoressa lo guardò sbattendo le palpebre per lo sconcerto, visibilmente confusa.
- Temo di non aver capito. Non...sai come si chiama?
- L'ho conosciuta su Internet. Per sbaglio, a dirla tutta - fu costretto ad ammettere, a malincuore. Un po' si vergognava ad ammettere di essere andato su una chat per incontrare delle persone. La psicologa si passò una mano sulla fronte, sospirando.
- Capisco.
- E'...contraria a questo tipo di conoscenza?
- Non sono né favorevole né contraria. Semplicemente, intendevo qualcosa di diverso...- tornò a guardarlo.- Non hai provato a uscire? A...non saprei, andare in qualche pub o...la tua amica, Belle, non avresti potuto chiederle di organizzare un'uscita?
- A dire il vero, ci ho pensato. Ma poi ho lasciato perdere...
Seguì un silenzio che a Eric sembrò durare secoli; non guardava la dottoressa, ma sentiva che lei stava fissando lui.
- Hai paura, non è così?- la domanda fu come una secchiata d'acqua gelida. Eric guardò la psicologa come se lei l'avesse appena schiaffeggiato. La dottoressa Amber si sporse in avanti, poggiando i gomiti sulle proprie ginocchia.- Hai paura di affrontare una persona reale, vero?
- Non sono capace di stare con gli altri!- disse Eric, a metà fra una giustificazione e una protesta.- L'unica che mi sopporta è Belle, e non so nemmeno come faccia, dato che nessun altro è in grado di farlo. E sono sicuro che se chiedessi a questa ragazza d'incontrarci, le cose non andrebbero bene neppure stavolta.
- Non potrai mai saperlo, se non ci provi. Tu pensi che andrà male, ma nessuno può assicurarti che non andrà bene, se prima non tenti.
- Se le chiedessi di vederci sarebbe una buona cosa?
- Credo che potrebbe essere un passo avanti, in tutti i sensi. Ma, come ho già detto prima, io non sono nessuno per decidere al posto tuo. Non sei obbligato a chiederglielo adesso, se non te la senti: puoi farlo domani mattina come fra sei mesi. L'importante è che tu ne sia convinto, e cerchi di mettere da parte le tue paure...
Eric annuì, abbozzando un sorriso, un po' più rasserenato.
- Ci penserò.





 
CONTINUA...




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