Malattia
Malattia
È mattina. Forse sono le dieci, o
più presto; è autunno, una pallida e fredda mattina d’autunno…
In questa dolce mattina
d’autunno, Zero è accoccolato sul divano, sotto una calda coperta di lana
bianca, una macchia d’oscurità in un oceano bianco.
Le treccine scure gli coprono
buona parte del viso mollemente adagiato su un cuscino, con gli occhi chiusi,
che si aprono di colpo.
Un altro brutto sogno, uno di
quelli spaventosi e incomprensibili che fa spesso quando è malato, che facciamo
tutti. Tanto per accertarsi in quale realtà sta vivendo, Zero tende lentamente
una mano verso il telecomando, per accendere quella scatola da pazzi che è la
televisione.
Capisce.
Inquadra la realtà.
E spegne la scatola di
plastica.
Conoscendosi, sa che passerà
l’intera giornata in uno stato apatico e triste, eredità del suo sogno, creatore
di realtà. Perché per chi sogna ad occhi aperti, l’illusione è come un pittore
che colora tutto: pensieri, cose e persone, anime. E se la scelta del colore
dipendesse da lui, questa mattina sarebbe colorata di grigio chiaro, come il
cielo fuori dalla finestra.
Zero si raggomitola ancora di più
sotto la coperta, desiderando che qualcuno lo coccolasse, che gli facesse
compagnia come quando era bambino, malato; i suoi genitori lo portavano dai
nonni dove giocava o si faceva viziare dai due vecchi parenti, che lo tenevano a
casa loro sempre più del necessario, anche quando era già guarito.
Tutto questo lasciava ora Zero
preda della malinconia, e di quel strano torpore che lui chiama solitudine e
tristezza; anche i suoi gatti non erano con lui a farli compagnia, chissà
dov’erano?
Conoscendoli erano tutti a
ronfare sotto le calde coperte del letto, che Zero aveva lasciato durante la
notte.
D’altronde, con una nausea come
quella che lo assaliva, sarebbe stato quantomeno rischioso dormire nel letto,
quindi aveva preferito andare in sala, non prima di aver pellegrinato in bagno
dove aveva preso la maledetta pastiglia per la nausea. Quanto odiava le
medicine. Facevano schifo, e quando era fortunato semplicemente non sapevano di
niente. E lo lasciavano intontito.
Accidenti, tendeva già alla
tristezza e all’asocialità congenita, non aveva per niente bisogno di avere
un’ulteriore aria tonta. Sorride, Zero.
Abbraccia il suo Dodo-peluches,
regalo degli altri membri dei D’espairs ray, dopo un’uscita al cinema per vedere
“l’era glaciale”. Dopo il cinema, erano andati tutti e quattro per locali,
ubriacandosi; e la mattina dopo, risvegliandosi nel suo appartamento con un mal
di testa epico, si era trovato ‘sto enorme pupazzo-dodo che puzzava d’alcol.
Dopo averlo lavato, lo aveva
adottato e da allora l’aveva sempre portato ovunque con lui, anche durante i
tour. Zero, il bassista tenebroso dei D’espairs ray, abbracciato ad un Dodo
gigante!
Stava chiaramente perdendo colpi.
Ci avrebbe perso la faccia, ma ,
sostanzialmente, non che la cosa gli importasse particolarmente.
Non gli sarebbe comunque
piaciuto, come il fatto che il cellulare suonasse, a quest’ora del mattino, con
lui malato, in questa particolare condizione mentale.
Ma chi cavolo cerca la morte in
questo modo sconsiderato?
Risponde.
Chiaramente è Hizumi.
Di solito è Zero che ricopre il
ruolo di membro insano, nella band.
D’altronde, anche Hizumi non
scherzava, con la variante che lui è un po’ meno asociale, quindi parlava molto
di più e più in fretta.
Palesemente, è questo che stava
facendo in quel momento: stava parlando e preoccupandosi per Zero come una mamma
ansiosa, tralasciando il fatto che stava ridendo come un matto, mentre si
fingeva una persona dotata di un qualche senso materno.
<< Dai, Hizu, gallina
isterica che non sei altro, non morirò e si, non sto bene.
Si, domani vengo.
No, non venitemi a
trovare.
Si, ho sonno.
Certo che ti sto per
uccidere.>>
Riattacca quando Hizumi sta
ancora ridendo, stanco. Le conversazioni al telefono lo sfiniscono, e che
cavolo, lui era malato, e quindi più svogliato del solito.
Cosa c’è di meglio che essere
malati in una fredda, pallida mattina d’autunno?
Non aveva voglia di alzarsi e
decidere che musica ascoltare, non aveva la benché minima intenzione di
accendere la televisione, disegnare o leggere qualsiasi cosa, fumetto o libro
che fosse: ma la giornata sembrava sprecata solo a poltrire sul divano
(bellissima cosa) ma non avrebbe permesso alla sua pigrizia di prendere
dolcemente il soppravvento anche questa volta.
Quasi vorrebbe che qualcuno lo
prendesse a pugni.
Aveva dimenticato la sua
anima.
Il basso.
Pigramente, si alza dal divano e
abbandona il Dodo gigante, per avventurarsi con calma lungo il corridoio, fino
alla camera.
Il pavimento freddo gli gela i
piedi nudi, ma in fondo è una sensazione dolce.
Raggiunge il suo basso, la sua
anima e il suo compagno, il suo Dio.
L’unico dio di cui abbia
bisogno.
Il dolce, avvolgente, misterioso
e fondamentale suono del basso.
Il canto della sua anima.
La lenta e profonda malattia di
cui è portatore.
E che morirà con lui, per sempre
sua.
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