Nota dell’autrice: Questo
racconto è ispirato a fatti e personaggi storici. La
ricostruzione degli eventi e della cronologia, così come la
caratterizzazione dei personaggi, è basata sulle relative
fonti storiche accreditate. Nel delineare la figura di Alessandro il
Grande di Macedonia e dei suoi contemporanei, mi sono rifatta ad
Arriano, Plutarco e Curzio Rufo. Nel delineare il personaggio di
Efestione, ho tenuto conto di alcune teorie che gli attribuirebbero
probabili origini ateniesi, anziché macedoni. La
ricostruzione della sua vita precedentemente all’incontro con
Alessandro è tuttavia di mia invenzione, dato che Efestione
appare nelle fonti solo successivamente.
Il
respiro del Nilo
L’acqua
era
fresca e aveva il profumo di essenze sconosciute.
Il vapore
rimaneva sospeso nell’aria umida, le piastrelle smaltate
d’azzurro erano lucide
e lisce al tocco delle sue dita. Si lasciava galleggiare sulla
superficie della
vasca come faceva da bambino, quando giocava sulla riva del lago, e
guardava
l’alto soffitto con le incisioni di divinità
straniere di cui non ricordava i
nomi.
Faceva
caldo.
Persino la primavera riusciva a essere afosa a Menfi.
La stanza
da
bagno non aveva finestre e le ombre si addensavano scure nei
nascondigli tra le
colonne, mentre i riflessi disegnavano mobili striature iridescenti
sulle
pareti. Un giovane schiavo etiope dalla pelle brunita e gli occhi
dipinti lo
attendeva ai bordi della vasca con un telo di lino tra le mani.
Alessandro
emerse dall’acqua e si diresse verso di lui. La sua pelle
appena rinfrescata
sembrò protestare al contatto con l’aria e si
affrettò ad avvolgersi nel panno.
Lo
schiavo lo
aiutò a sdraiarsi su un letto coperto da morbide stoffe e
fece cenno a un altro
servo di avvicinarsi. Il ragazzo aveva capelli nerissimi e la pelle
color
dell’ambra; portava un vasetto d’alabastro tra le
mani. Versò l’olio profumato
sul corpo del Re e cominciò a massaggiarlo, levigando e
ammorbidendo la sua
pelle seccata dal sole.
Alessandro
sospirò. Socchiuse gli occhi, abbandonandosi a quelle mani
abili; il profumo di
mirra e incenso sembrava stordirlo, appannargli i sensi e
illanguidirgli il
corpo.
Il
ragazzo
etiope gli porse una coppa decorata a fregi d’oro e
Alessandro si appoggiò sul
gomito, prendendola tra le mani; il vino egiziano era speziato e sapeva
di
miele e cannella. Gli mancava l’aspro vino macedone, il
sapore ruvido dell’uva
appena pigiata, ma non era quella l’unica cosa cui faticava
ad abituarsi.
Lasciò
scivolare lo sguardo sulla massiccia statua del dio-bue che sembrava
fare la
guardia alla porta d’entrata. Aveva un cerchio
d’oro sospeso tra le corna e la
parete dietro di lui era completamente ricoperta da quegli strani
disegni che i
sacerdoti del luogo si ostinavano a chiamare scrittura. Aveva persino
visto
alcune raffigurazioni che lo ritraevano con la doppia corona bianca e
rossa e
gli scribi erano già all’opera per affiancare alle
sue effigi un’altra miriade
di quei simboli incomprensibili.
Oh
sì, era
davvero difficile adattarsi a un posto dove ogni suo più
piccolo desiderio
veniva esaudito ancor prima che fosse formulato, ed era persino
più arduo
abituarsi a certi fasti con il ricordo dei mesi interminabili passati
ad assediare
Tiro e Gaza ancora impresso nella carne e nella memoria –
giorni in cui la sola
idea di un bagno o di un letto morbido sembrava impossibile. Si
toccò la spalla
e seguì con le dita la linea della cicatrice in rilievo che
correva dalla base
del collo alla clavicola; la pietra lanciata dalla catapulta a Gaza
l’aveva
preso solo di striscio. Se il tiro fosse stato di poco più
alto l’avrebbe
centrato in piena testa, ma anche così il dolore non
l’aveva fatto dormire per
notti intere. Adesso andava meglio ma la pelle era ancora tesa e
infiammata,
rendendogli difficile persino alzare il braccio.
L’egiziano
spalmò un po’ d’unguento sulla ferita e
continuò a frizionarlo. Aveva dita
esili e delicate e Alessandro pensò con un sorriso alle
altre mani – così
diverse – che avevano massaggiato la sua pelle dolorante
prima di quelle.
Efestione
era
quasi impazzito dalla preoccupazione a causa di quella maledetta
catapulta, a
poco era valso dirgli che anche lui aveva la sua buona dose di lividi
di cui
occuparsi. Non c’era stata sera in cui non avesse insistito
per stendergli
sulla ferita una quantità irragionevole
dell’impasto puzzolente che Filippo gli
aveva preparato, ed era sorprendente come le sue mani ruvide di soldato
potessero essere delicate quanto quelle d’un ragazzo che non
avesse mai
impugnato la spada in tutta la sua vita.
Il
sorriso
sulle labbra gli si allargò pericolosamente. Oh, Efestione
sapeva essere
decisamente piacevole quando voleva ma non era il caso di andare a
dirglielo.
Era nato ad Atene ma cresciuto in mezzo ai macedoni, e a un buon
macedone le
mani servono principalmente per una cosa – la guerra.
Tutto il
resto era un segreto tra loro due.
Si
alzò
lentamente, avvolgendosi il telo attorno ai fianchi; i due schiavi
indietreggiarono abbassando gli occhi, senza dire una parola. Sembrava
impossibile anche solo incrociare lo sguardo con una di quelle creature
diffidenti e cerimoniose, ancor più impensabile farci
conversazione. Ne aveva
messo in imbarazzo più d’uno, rivolgendosi a loro
come era solito fare con i
paggi più giovani della sua scorta; ci aveva rinunciato al
secondo tentativo.
Ben
diversi
si erano invece rivelati i sacerdoti, i maledetti sacerdoti che
sembravano
spadroneggiare indisturbati su quel loro paese carbonizzato dal sole.
Non
dubitava che anche i persiani avessero avuto il loro bel da fare
quaggiù. Gli
avevano detto che era impossibile per un re governare quelle terre
senza
l’appoggio della loro casta o del loro codice sociale, quel Maat che gli appariva come un intrico
incomprensibile di riti e cerimonie inutili.
Ma
avrebbero
dovuto abituarsi a lui, volenti o nolenti.
In
verità,
sacerdoti a parte, l’Egitto l’aveva accolto a
braccia aperte, tributandogli
onori insperati. Non aveva dovuto spargere una sola goccia di sangue
tra la
loro gente, tanto ansiosi erano stati di liberarsi del giogo di Dario.
Li aveva
ricambiati sacrificando ai loro Dei, alla divinità-bue che
protegge Menfi e
aveva permesso che i sacerdoti e gli aristocratici mantenessero le loro
cariche
in cambio di una promessa di fedeltà.
Era stato
incoronato faraone nel palazzo millenario dei re del fiume e, davanti a
tutto
il loro popolo, l’avevano riconosciuto Dio e sovrano, figlio
di Ammon-Ra – padrone del
sole.
Figlio di Zeus.
Chiuse
gli
occhi e per un attimo gli parve di risentire il sibilo della sabbia
sopra le
dune riarse del deserto e l’odore della vegetazione
dell’oasi, tra le palme di
Siwa. Il cigolio della barca del sole trainata dai buoi e il canto dei
sacerdoti, in una lingua vecchia di secoli e dimenticata da tutti.
E infine,
il
sospiro sommesso del Dio, perduto nel vento.
Ma non
voleva
pensarci, non adesso. Presto sarebbe giunto il momento di ripartire,
prima che
cominciasse la piena del grande fiume. La città che aveva
dato ordine di
costruire sulla pianura a ovest del delta era ormai quasi ultimata e
non c’era
più nulla a trattenerlo lì.
Aveva
visto e
rivisto i progetti della città con Efestione, e i suoi
genieri avevano lavorato
bene, affidati alla supervisione di quella volpe greca di Cleomene. Il
porto
naturale attorno al quale era sorta le avrebbe dato pieno accesso
all’Egeo,
dove sarebbe diventata uno snodo di vitale importanza per i commerci
tra l’Ellade
e l’Egitto, se non con l’oriente stesso. La
città avrebbe prosperato, ne era
sicuro, sarebbe cresciuta accanto alle acque del grande fiume, i suoi
Dei
l’avrebbero protetta, l’avrebbero accudita,
cullata, e avrebbe avuto un futuro.
Sì, avrebbe avuto un futuro quella città appena
nata che portava il suo nome.
Ma era
tempo
di rimettersi in viaggio. Dario lo stava aspettando e stavolta non gli
sarebbe
sfuggito, non ci sarebbe stata un’altra Isso.
La caccia
era
ancora aperta.
Si
diresse
verso la porta squadrata che conduceva alle stanze del palazzo. Gli
schiavi si
fecero da parte e si inchinarono al suo passaggio.
I
corridoi
erano inondati di luce e le ampie terrazze a gradoni dominavano tutta
la piana.
Il Nilo si snodava come un serpente d’argento tra
l’intrico dei canneti e l’oro
rovente del deserto. Le acque del dio-fiume erano gravide e si
preparavano alla
piena estiva. Poteva udire i canti delle donne mentre raccoglievano il
papiro
attorno alle rive e, lontano, si stagliava il profilo severo del tempio
di Ptha.
Un
bambino
dalla pelle scura e gli occhi dipinti con il kohl
sbucò da dietro una porta, tenendo tra le braccia un
minuscolo
gatto candido. Lo osservò curioso per un istante poi
scappò via. Alessandro
sorrise, stiracchiandosi al sole. Gli unguenti egiziani sembravano
fargli bene,
persino la spalla si era quietata.
Aveva
trascorso tutta la mattina a concedere udienze e ad ascoltare le
questue di
sacerdoti e funzionari, permettendosi solo alla fine la
voluttà di quel bagno;
Efestione si era invece recato a cavallo a ispezionare gli enormi
granai che si
trovavano nell’entroterra e che avrebbero dovuto rifornire
anche la nuova
città. Aveva approntato un progetto per far sì
che le scorte potessero arrivare
al delta navigando via fiume, un progetto che Alessandro aveva
giudicato
brillante.
Sì,
Efestione
era stato decisamente impegnato negli ultimi tempi, tanto quanto lui
stesso, ed
era il caso che lo convincesse a riposare un po’.
Raggiunse
la
porta che dava accesso ai suoi quartieri e la spinse piano; era aperta
e si
spalancò docilmente rivelandogli la stanza inondata di luce.
I teli di lino
alle finestre si gonfiavano nel vento e l’aria profumava di
palme e datteri
freschi.
Su un
enorme
letto in mezzo alla stanza giaceva Efestione, profondamente
addormentato.
Alessandro
si
avvicinò e lui non si mosse, nonostante il rumore dei suoi
passi. Non se ne
stupì. Doveva essere esausto.
Gli dava
la
schiena e il suo corpo era nudo e brunito dal sole. Il viso era voltato
verso
di lui, in parte nascosto dal braccio sollevato, ma riusciva a scorgere
il
profilo dei suoi zigomi e le ciglia scure sugli occhi chiusi.
Si
sedette al
suo fianco e inclinò il volto per osservarlo,
improvvisamente turbato da questo
suo segreto momento di vulnerabilità. Fu come vederlo per la
prima volta,
nonostante lo conoscesse da una vita intera. Si sentiva colpevole, un
intruso
all’interno di un santuario consacrato, eppure incapace di
staccare lo sguardo
da quella pelle che gli era familiare tanto quanto la sua e che adesso
gli
appariva ignota, inestimabile – forse perché
strappata in segreto allo scorrere
del tempo.
Il suo
corpo
era abbronzato, aveva il colore del grano in estate ed era reso lucido
da un
velo di sudore. I muscoli seguivano la linea delle sue spalle e
scendevano
verso i lombi, sottolineando la forma arcuata e compatta dei glutei. I
capelli
strappavano bagliori aurei alla luce.
Alessandro
appoggiò una mano al suo collo e lui si mosse appena,
schiudendo le labbra. Si
sentiva commosso, emozionato come un bambino alla sua prima scoperta
– o era
forse l’ebbrezza del predatore che si muove in caccia su di
un terreno
inesplorato? – e si dava del pazzo per questo, ma non gli
importava. Fece
scorrere il palmo sulla sua schiena, finché non
trovò le ali delle scapole,
ripiegate sotto pelle e così fragili, così
possenti, come il miracolo stesso
della sua esistenza.
Pensava
che
avrebbe potuto piangere per questo.
Si
chinò e lo
baciò nel solco tra le spalle, assaporandone il sapore
salato e familiare, quel
sapore che gli ricordava il sole e l’estate – e le
interminabili notti di Mieza
impregnate del profumo degli oleandri e delle rose, in Macedonia.
Le
cicatrici
erano ovunque sul suo corpo, solo la curva dei lombi era ancora liscia,
come
quella di un ragazzo. Una vecchia ferita che si era procurato cadendo
da
cavallo gli serpeggiava lungo il fianco simile a un tralcio
d’uva; le punte
delle lance si erano conficcate indelebili nelle sue spalle e sulle
gambe
quando si era trovato al Granico in prima linea, e la profonda
cicatrice sul
braccio destro – rossa, orribilmente frastagliata –
era il ricordo che i
soldati di Dario gli avevano lasciato a Isso.
Aveva una
mezzaluna bianca in rilievo sotto la clavicola, dove gli artigli di un
leone
l’avevano raggiunto durante una caccia, quando si era preso
in pieno petto una zampata
destinata a lui – e ancora graffi, scalfitture, le
lacerazioni inflittegli dai triballi
quando lo aveva seguito nella sua prima campagna, e lo sfregio sul
ventre che
il battaglione sacro aveva preteso come pegno per la sua sconfitta,
trafitto
dal cielo, là sulla piana a Cheronea.
Segni,
miriadi di linee e intrichi sul quel corpo accarezzato infinite volte
– e gli
occhi chiusi, come quelli di un bambino.
Lo
toccò
ancora, sfiorandogli le guance lisce.
Efestione
aprì gli occhi di ossidiana e sorrise, come se lo
attendesse.
Alessandro
si
chinò e lo baciò tra le scapole, poi sulla curva
flessuosa della schiena –
ancora e ancora. Non parlarono. Nessuno di loro parlò.
Scivolarono l’uno
accanto all’altro, in silenzio.
E fuori
dalle
finestre il Nilo respirava nel sole.
Fine
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