That
Love is All There is
Terre_del_Nord
Slytherin's Blood
Habarcat - I.002
- Fratelli
Meissa
Sherton
Herrengton Hill, Highlands - sab. 03 ottobre 1970
Quando vidi quel fagottino, roseo e paffuto, tra
le mani grandi e forti di mio padre, non potevo credere che fosse un
essere umano: sembrava una bambola, un po’ bruttina a dire il
vero, col viso atteggiato a strane smorfiette, gli occhi chiusi e la
lingua che spesso faceva bella mostra di sé. Per lo meno
avevo smesso di odiarlo. Non potevo crederci, avevo desiderato per anni
il suo arrivo, avevo immaginato, giocando con le bambole, come sarebbe
stato avere un fratellino o una sorellina di cui occuparmi, avevo
sognato di non essere più la piccola di famiglia ma, alla
fine, mi ero ritrovata a pregare le divinità che conoscevo
perché quell’essere ritornasse nel limbo delle
anime nasciture. Mirzam sembrava non avere il coraggio di avvicinarsi,
rimaneva in piedi vicino alla porta, in fondo al letto, in religioso
silenzio, osservando a turno i nostri genitori, me e quella cosa che si
agitava sbuffando. Quando si accorse che lo osservavo, però,
mi sorrise e un guizzo della sua abituale ironia gli
illuminò il viso, probabilmente evocato dal mio sguardo
disorientato.
“Quando sei nata tu, non eri
molto più carina!”
Diventai porpora, mentre tutti ridevano e mio padre iniziava a
raccontare dei particolari vergognosi su di me, troppo lontani nel
tempo perché potessi ricordare e difendermi. Stando ai loro
racconti, ero stata una tale piagnucolona, che, esasperati, avevano
iniziato ad accarezzare l’idea di "smaterializzarmi" ad
Amesbury tra una poppata e l’altra, mentre tutti loro
tenevano al riparo le orecchie a Londra. Ero offesa dal comportamento
traditore di mio padre e, in qualsiasi altra occasione, gli avrei messo
su un muso altezzoso, ma sapevo perché faceva
così: ridere con e dei suoi figli era un modo per stringerci
a sé, esorcizzando il terrore che aveva provato. Mio padre
era un uomo forte e coraggioso, che di certo non fuggiva di fronte a
nulla, capace di far tremare le vene ai polsi a chiunque, solo con uno
sguardo, ma quando si trattava della sua famiglia, e di sua moglie in
particolare, quando c’era qualcosa che ci minacciava e che
non poteva combattere o evitare, sembrava perdersi. Quel giorno, in
realtà, ci eravamo persi un po’ tutti. La mamma
ora sorrideva, ma era evidente quanto fosse stanca, il parto era stato
lungo e travagliato: era pallida, con i lunghi capelli rossi raccolti
in una treccia sfatta, le mani che le tremavano ancora un
po’, gli occhi cerchiati, in cui lacrime di sofferenza e di
gioia si mischiavano.
*
Da giorni c’erano state avvisaglie che annunciavano come
imminente la nascita, ma il bambino fece sul serio solo la mattina del
2 ottobre. I Medimaghi furono chiamati a Herrengton a
mezzogiorno: sembrava che tutto filasse liscio, che le cose si
sarebbero risolte presto, poi il piccolo decise che nella mamma si
stava bene e non sembrava più molto entusiasta
all’idea di abbandonare quel caldo nido, sicuro e
accogliente. Così si era girato in modo strano, rifiutandosi
di uscire. Il travaglio si era protratto fino al giorno dopo,
le grida strazianti di mia madre avevano riecheggiato nel maniero
nonostante le Pozioni che dovevano placarle il dolore e facilitarle il
parto; mio fratello camminava avanti e indietro per i corridoi,
spiritato, poi iniziò a mandare Gufi alle zie e a nostro
fratello, ad Hogwarts, per avvisarli e per avere qualcosa da fare, che
non lo facesse pensare. Io ero rimasta impietrita, pressoché
dimenticata nell’anticamera dei nostri genitori, assistendo
al via vai dei Medimaghi e al loro parlare agitato, tipico di chi non
sa cosa fare: ormai odiavo quel mostriciattolo che la torturava, tutti
quanti eravamo felici del suo arrivo, tutti l’avremmo amato,
e lui, ingrato, rendeva tutto difficile e terribilmente pericoloso.
Quando, all’alba, sentii il Medimago-capo dire che dovevano
sbrigarsi a trovare una soluzione, perché un travaglio
così lungo a trentanove anni poteva essere fatale, fui presa
dal panico e crollai, iniziai a pregare Salazar che si prendesse il
bambino ma mi lasciasse la mamma. Mio padre entrò in camera,
preoccupato e provato, con un paio di Pozioni cui aveva lavorato per
tutta la notte, nel sotterraneo, consultando i manoscritti dei nostri
avi, convinto che in quella conoscenza antica ci fosse qualcosa che
tutti stavano ignorando e che poteva invece essere fondamentale. Si
chiusero nella stanza, le voci si fecero dei sussurri, le grida di mia
madre si attenuarono appena un po’, Kreya ebbe
l’ordine di portarmi al piano di sopra, lontana da tutto ed
io, piangendo isterica, mi ritrovai in camera mia, disperata
all’idea che non l' avrei più rivista.
L’Elfa mi preparò tutto l’occorrente per
un bagno rilassante, si avvicinò per aiutarmi a spogliarmi e
per sciogliermi i capelli, ma io le sfuggii e, in piedi in mezzo al
letto, le urlai contro, non volevo che mi toccasse, così
presi una spazzola e gliela tirai addosso, trovando parziale sollievo
alla mia angoscia solo quando vidi i suoi tondi occhi acquosi pieni di
paura e di dolore.
“Vattene di qui lurida Feccia!
Vattene!”
Le scagliai addosso un paio di libri, un porta candele, una scatola
portagioie, centrandola ripetutamente e facendola guaire di dolore, ma
lei non poteva andarsene, perché era l’Elfa
personale di mio padre e lui le aveva ordinato chiaramente di restare
con me: si era rifugiata in un angolo, come un vecchio cencio, a subire
lo sfogo della mia rabbia e del mio tormento, picchiandosi con i
pugnetti ossuti perché non stava rispettando il mio ordine
di togliersi dai piedi. I suoi grandi occhi erano ormai ridotti a due
fessure piene di lacrime, cerchiate di nero, quando mi abbandonai sul
letto, disperata, e uno strano torpore mi fece perdere coscienza: vagai
tra sogni agitati, carichi d’angoscia, in cui prendevo
l’antica spada dei nostri avi, che mio padre teneva in una
delle sue stanze nella torre ovest di Herrengton, e con essa minacciavo
il demone che faceva del male alla mamma.
“Meissa.”
Aprii gli occhi con difficoltà, un pallido sole stava
scivolando dietro gli alberi della collina di fronte, colorando di una
sfumatura rosata le cime cariche della prima neve dell’anno,
ancora fresca. Era pomeriggio inoltrato, Mirzam mi parlava dolcemente
all’orecchio accarezzandomi la testa e spostando le ciocche
corvine dalla mia faccia per darmi un bacio sulla fronte.
“Mir…”
Non osavo aggiungere altro, avevo paura che fosse lì per
portare brutte notizie: io avevo combattuto a lungo, con tutte le mie
forze, con la spada di nostro padre, ma il mostro non temeva la lama.
“Scendiamo di sotto,
c’è qualcuno che vuole conoscerci.”
Sorrideva ma quasi non ci feci caso, la notizia che il bambino era nato
non mi provocava gioia, ero come anestetizzata, non m'interessava
più, non m'importava se era maschio o femmina, se era grande
o piccolo, se stava bene, se era bello, io volevo sapere solo di nostra
madre, se era andato tutto bene, ma il terrore che avevo nel cuore per
la voce del Medimago che diceva “può essere
fatale” faceva sì che non osassi fare domande.
Mirzam aveva capito e mi sorrise di nuovo.
“La mamma sta bene, non ti
preoccupare, è stanca, starà a letto diversi
giorni, certo, ma vedrai che gli "intrugli" di papà la
rimetteranno in sesto e in un batter d’occhio sarà
come nuova!”
Non aveva nemmeno finito di parlare, che mi ero già gettata
tra le sue braccia, lasciando libero sfogo a tutta la paura che avevo
provato; Mir mi accarezzava la testa, facendomi coraggio,
rassicurandomi senza altre parole, ma solo col calore dei suoi gesti.
Mi accorsi che tremava: anche lui era provato, aveva un amore
sconfinato per nostra madre, ma si trattava di Mirzam Sherton, il
primogenito di Alshain Sherton, a lui non era più permesso
mostrare neppure un momento di debolezza, mai, con nessuno. Solo con me
tornava ad essere semplicemente un ragazzo di vent'anni, solo con me
gli era concesso preoccuparsi e spaventarsi, senza gli obblighi e le
costrizioni derivanti dal nostro nome. Con me, quasi fossi un rifugio
segreto, in cui era possibile custodire i propri pensieri
più veri, poteva rivelare appieno la sua natura, anche
quella più profonda, ricompensandomi con il suo sostegno e
la sua protezione.
*
“Ora è meglio
lasciar riposare la mamma.”
La voce di mio padre mi riportò al presente, ci stava
congedando: guardai il fagottino ancora una volta, guardai i miei
genitori, mi alzai dalla sedia accanto al letto, e insieme a Mir ci
avvicinammo alla mamma per darle un bacio sulla fronte e sulla guancia,
mentre lei posava i suoi occhi stanchi e assonnati su tutti noi,
accarezzandoci con il suo sguardo pieno d’amore. La tata
uscì con il fagottino e mio padre incaricò mio
fratello di spedire tramite Hermes, il suo Gufo Reale, una pergamena
indirizzata ad Orion Black. Poi tornò a sedersi sul letto,
accanto a nostra madre, prendendole una mano tra le sue e facendole
poggiare il viso sul suo petto.
“Il suo nome sarà
Wezen, vorrei continuare la tradizione...”
La voce di mia madre uscì come un sussurro, mio padre
annuì, la guardava rapito, a metà tra uno stupore
religioso e una gioia inesprimibile, per averla accanto a
sé; noi uscimmo, lasciandoli finalmente soli, a sorridersi,
stanchi e radiosi. Solo in quel momento, libera finalmente
dall’angoscia, mi resi conto che avevo un fratello. Di nuovo
un fratello, di nuovo un maschio. Ero ancora l’unica bambina
nata a casa Sherton negli ultimi duecento anni. La cosiddetta
“Maledizione”, quella che per sette secoli aveva
portato alla nascita di appena quattro femmine nella nostra famiglia,
quella che per molti era vacillata quando ero nata io, una bambina, nel
giorno di Habarcat, a quanto pareva non era sciolta come tutti quanti
avevano sperato in quei dieci anni.
Tutta quella fatica e tutta quella paura non erano serviti a
niente.
***
Sirius
Black
12, Grimmauld Place, Londra - sab. 03 ottobre
1970
La notizia ci arrivò il 3 ottobre,
all’ora di cena: nostro padre era appena rientrato da uno dei
suoi pomeriggi a Nocturn Alley e si era seduto sulla poltrona, con il
"Daily Prophet" a far da paravento, così da isolarsi dalla
quotidianità della sua famiglia, riunita nella stanza
dell'Arazzo. Quando Kreacher gli consegnò la pergamena, la
prese con sufficienza, infastidito per essere stato disturbato,
l’aprì quasi schifato, come se fosse sufficiente
toccarne un lembo per ammalarsi di un’infezione grave, ma
appena saggiò la consistenza pregiata della carta, e
posò gli occhi sul sigillo di ceralacca e sulla calligrafia
nota, nobile come la mano che l’aveva tracciata, sorrise e si
immerse nella lettura, al termine della quale guardò sua
moglie con occhi turbati.
“Avevamo torto, Walby,
è un bambino, sano, perfetto, in salute, ma è un
altro maschio!”
Mia madre, che fino ad allora non si era affatto preoccupata della
lettera, si alzò dalla sua poltrona, attraversò
la stanza con le sue movenze aristocratiche avvicinandosi lentamente al
marito, prese il foglio, sempre con gesti curati e eleganti, si
portò infine gli occhialini al viso e lesse con
avidità: sul volto, di solito impassibile, c’era
un misto di sentimenti contrastanti, su cui infine predominò
un senso di delusione cocente. Si tolse gli occhiali e puntò
i suoi cupi occhi azzurri sul viso ingrigito di nostro padre, le labbra
appena increspate in un ghigno feroce, immobile sulla sua faccia dura
come marmo. Si morse il labbro inferiore. Non l’avevo mai
vista così partecipe per qualcosa, di solito affrontava
tutto quello che ci circondava con aria annoiata, come se non esistesse
nulla al mondo che meritasse la sua attenzione.
“Alshain sembrava aver avuto
occhio nello scegliere sua moglie! Una figlia femmina nel giorno di
Habarcat, come diceva la Profezia, ma ora dopo dieci anni un altro
maschio! Questa è una sconfitta, Orion! Ora è
necessario che Mirzam si sposi il prima possibile, così da
avere presto dei figli a sua volta e aumentare le
probabilità, prima che nessuno creda
più...”
Reg ed io, impegnati a leggere i racconti leggendari tratti dalla vita
dei grandi Maghi dell’antichità, assistemmo a
questa scena sdraiati a pancia sotto sul tappeto davanti al caminetto,
senza capirci molto, tanto che provai a fare una domanda sul
perché fosse tanto importante che nascesse proprio una
bambina, ma mia madre, accusandomi di non sapere stare al mio posto e
di impicciarmi sempre degli affari degli adulti, mi spedì a
letto senza cena; Reg fu più furbo di me, rimase in
silenzio, a fare da tappezzeria, con le orecchie ben tese per capire
cosa stesse succedendo.
Un paio d'ore più tardi mi raggiunse in camera, mi
passò un paio di fette di carne di tacchino, che era
riuscito a nascondere per me in un tovagliolo, e si sedette sul mio
letto, ad osservarmi con quegli occhi grigi che sembravano
rimproverarmi sempre per qualcosa. Guardarlo era un po’
specchiarsi: mio fratello allepoca mi assomigliava
tantissimo. Era nato un anno dopo di me, era poco più basso
e un po’ più magro, i nostri visi erano quasi
identici, con gli occhi grigi, i tratti del viso, che tutti definivano
molto belli ed eleganti, le bocche rosse e carnose, ancora bambine.
Avevo dieci anni, lui ne aveva appena nove anni, eppure la vita a
Grimmauld Place ci stava facendo diventare adulti molto in fretta: non
volevo diventare come i miei genitori, mio fratello, i miei parenti. Ai
miei occhi tutti loro sembravano morti, privi di anima e di passione,
per qualsiasi cosa non fosse il nostro Sangue Puro; io, invece, mi
sentivo vivo e volevo gridarla, la mia gioia di esserlo, e volevo
sparire da quell’odiato arazzo, in cui non c’erano
tracce di sanità mentale, a parte, forse, nei Black che
avevano meritato, con la ribellione, di esserne cancellati. Mio
fratello, forse, già all’epoca era attratto dal
Buio, che si respirava a pieni polmoni tra le pietre e i velluti
polverosi di quella vecchia casa malsana: probabilmente considerava
missione della sua vita risarcire nostra madre di quello che le veniva
tolto da un ingrato come me, perché più volte la
mamma mi aveva accusato di essere un figlio tremendo, di farla soffrire
indicibilmente con la mia indisciplina e la mia strafottenza, e Regulus
sentiva, nel suo amore malato e totalizzante per quella donna orrenda e
senza cuore, di doverla ripagare del dono d' averlo messo al mondo,
realizzando i suoi sogni, diventando il figlio esemplare, la luce dei
suoi occhi, il vero Sirius, la stella più luminosa e
perfetta.
“Non riesci proprio a tenerti
fuori dai guai, Sir?"
“E tu non riesci a farti gli
affari tuoi, vero Reg?"
Mi guardò sbuffando, si sdraiò sul mio letto, le
braccia incrociate dietro la nuca, a studiare le decorazioni del
baldacchino; io, affamato, mi sbafavo senza indugi le due fette di
tacchino.
“A dicembre andremo a
Amesbury, ci sarà una festa per il bambino degli Sherton.
Nostra madre non voleva portarci, ma Alshain ci tiene e secondo
papà è giusto che andiamo con loro, ci saranno
davvero tutti. Solo che… Papà ha detto che se,
prima e durante il ricevimento, non ti comporterai come si deve, non ti
farà più uscire da qui fino alla partenza per
Hogwarts.”
Lo guardai pensieroso, intenzionato a illuderlo che stessi ascoltando
attentamente il messaggio che mi stava riferendo con tanto impegno,
poi, quando vidi che era sollevato per aver eseguito il suo compito con
dovizia e senza incidenti, attaccai, sputandogli addosso tutto il mio
disprezzo, mischiato ai pezzetti di tacchino che avevo ancora in bocca.
Lo lasciai basito.
“Mi spieghi cosa ci guadagni a
essere un ruffiano leccapiedi?”
“E tu cosa ci guadagni ad
essere un cretino? Ti piace star sempre chiuso in punizione o sei
così stupido che non riesci nemmeno a fingere?”
Si era risollevato a sedere, guardandomi con i miei stessi occhi: lo
disprezzavo, quando aveva ragione, quando mostrava di essere migliore
di me. E ancora di più disprezzavo me stesso,
perché, in fondo al cuore, avrei voluto una vita
più semplice, chiudendo gli occhi e dicendo di
sì. Come faceva mio fratello. Non potevo, però,
fargliela passare liscia e non potevo farla passare liscia a me stesso.
Era più forte di me.
“Fammi capire: mi stai dicendo
che dovrei essere un vigliacco come te?”
Mi alzai di scatto e lo squadrai con tutta la sufficienza e il
disprezzo di cui ero capace, mai mi sarei piegato alla sua aria da
bravo bambino. Regulus si sollevò in piedi a sua volta, mi
fissò pieno di pietà, per qualche istante, mentre
io gli rimandavo indietro un ghigno sarcastico, che voleva dirgli
“Sei solo una femminuccia”. Fu allora che,
all’improvviso, mi diede un pugno allo stomaco, senza battere
ciglio, poi con la stesa calma irreale mi diede le spalle e se ne
andò a stendersi sul suo letto.
“Non mi trascinerai nel fango,
Sirius! Non voglio essere una nullità, un pazzo, non voglio
essere te! Io sono un Black, fiero d' essere un Black! Tu cosa sei?
Cosa Merlino hai nella testa?”
Non lo ascoltavo e non pensai nemmeno a vendicarmi. Quel piccolo
bastardo mi aveva colpito forte, rimasi piegato in due al bordo del mio
letto per un tempo che mi parve infinito. Non immaginavo che, quando si
arrabbiava davvero, potesse avere la forza di farmi davvero male, di
solito lo battevo sempre io, lui mollava sempre per primo,
perché non aveva abbastanza odio dentro di sé per
andare fino in fondo. Non come me che vedevo in lui il modo migliore
per sfogarmi di tutta la rabbia che provavo per quella famiglia che mi
teneva prigioniero e mi rendeva infelice, e così colpivo e
facevo male e facevo sanguinare e non mi importava niente, come se
veder uscire quel Sangue, il mio stesso Sangue, mi servisse a
dimostrare a me stesso che c’era vita, anche se non sembrava,
in quella dannata prigione. Quel giorno, però, Regulus era
diverso ed io non avevo idea di cosa fosse successo. In cuor mio sapevo
che lui aveva ragione, la cosa migliore, anzi l’unica, che
potessi fare per me stesso era cercare di imitarlo, tenermi lontano dai
guai e sopravvivere in quella casa, almeno finché non
fossimo riusciti a fuggire in Scozia da Sherton o fosse iniziata quella
benedetta scuola, che m' avrebbe allontanato da tutti loro per anni,
forse addirittura per sempre. Con difficoltà mi rialzai e mi
lasciai scivolare sotto le coperte, senza più dire una
parola; accanto a me, nel letto alla mia sinistra, sentii mio fratello
rigirarsi per ore tra le sue lenzuola, incapace di trovare la pace tra
le braccia di Morfeo, ma continuai a non dire nulla, era giusto che
ciascuno di noi due affrontasse i propri demoni per proprio conto.
Osservai la luna che si affacciava dietro le tende della nostra stanza,
illuminando appena, in modo spettrale, quella che era la mia
realtà, una gabbia ricca e sfarzosa, in cui nulla mi si
attaccava addosso, nulla dava in qualche modo sollievo alla mia anima.
Perché ero così diverso dagli altri?
Perché i discorsi di mio padre sull’importanza e
nobiltà della nostra Famiglia mi annoiavano, invece di
esaltarmi, com'era normale? Perché non riuscivo a provare il
piacere che vedevo negli occhi di mia cugina Bella quando si
commentavano allegramente le "Cacce al Babbano", anzi provavo un senso
di rifiuto e disgusto? Perché non riuscivo a farmi amare da
mia madre e non m' importava nulla che non mi amasse più? Mi
chiedevo soltanto se m' avesse amato mai.
Una timida luce lunare illuminava appena, appoggiata sullo scrittoio,
una foto scattata l’estate prima, nella nostra casa di
campagna nel Cornwall: ero abbracciato a nostro padre insieme a
Regulus, entrambi stranamente scarmigliati, radiosi e felici. Era una
foto talmente strana per noi, che non avevo protestato quando mio
fratello aveva insistito per metterla in un punto così
visibile. Ci avevano permesso di fare quello che volevamo per un
pomeriggio intero e noi, per una volta liberi e incuranti di tutto,
avevamo corso a perdifiato per raggiungere la cima della collinetta,
per poi gettarci ai piedi di una quercia centenaria. Per una volta
nostro padre era stato un padre, aveva passato il suo tempo con noi e
ci aveva raccontato di quando era ragazzo e come noi amava quella
collina, ci insegnò che salendo fino al secondo ramo a
destra, si poteva ammirare un panorama meraviglioso. Chiusi gli occhi e
rividi nella mente la bellissima costa sinuosa, le barche sullo sfondo,
la piccola cittadina babbana che placida si dispiegava sotto di noi,
inconsapevole di tutti quegli assurdi discorsi sul sangue con cui mi
ammorbavano la mente. E quella follia che m' aveva attraversato il
cervello: mandare all’aria la mia vita, fuggire, diventare
uno di loro, uno di quegli inutili, inferiori Babbani, che erano ai
miei occhi il simbolo di tutta quella libertà che mi era
tolta. Solo perché portavo un inutile, odioso, altisonante,
ingombrante nome: BLACK.
Mi alzai e mi avvicinai alla foto, cercando di tornare a respirare,
quei pensieri m stavano facendo fondere la testa, c’era
qualcosa che non andava in me, io non potevo, no, non potevo dubitare
di me e della mia Famiglia fino al punto di desiderare di
essere…
Merlino… A tutto c’è un limite, e quel
desiderio è un chiaro indizio di follia. Devo smetterla,
controllarmi, devo cercare di seguire quello che dicono i miei, cercare
di imitare mio fratello. In fondo sembra più felice di me.
Presi la foto per ammirare meglio le nostre facce: eravamo
davvero simili, a guardare bene c’era persino la stessa nota
di follia e disperazione nascosta nei tratti aristocratici di Famiglia.
Regulus era davvero più felice di me? O l’unica
differenza tra noi era la straordinaria bravura di mio fratello nel
dissimulare i propri sentimenti?
*continua*
NdA:
Ringrazio quanti hanno letto, hanno aggiunto a preferiti/seguiti/ecc,
hanno recensito e/o hanno proposto/votato questa FF per il concorso sui
migliori personaggi originali indetto da Erika di EFP (maggio 2010).
Valeria
Scheda
Immagine: L'immagine
che ho scelto per questo capitolo è elaborata da "My Little
Brothers" che appartiene a Anne Flanders, la presi da DevianArt anni fa
ma al momento non è più reperibile in rete.
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