Tutto così perfettamente stupido
Capitolo I
Il principio era Amore. Così ho sempre sostenuto, sin
da quando ero una piccola bambina spaurita. Nonostante avessi assistito con i
miei stessi occhi a numerosi e ingiusti spargimenti di sangue, non avevo mai smesso
di sperare e credere nell’umanità intera, convinta che qualcosa potesse
cambiare in meglio. Credevo ciecamente nel perdono e nella redenzione, tanto da
risultare piuttosto stucchevole e sentimentale. Dopotutto questa mia teoria non
era poi così condivisibile, date le numerose stragi che ogni volta occupavano
posti d’onore nelle prime pagine dei giornali.
Ero, come si sol dire, un caso a dir poco anomalo: era raro
trovare persone come me che, pur essendo impegnati in modo attivo nella
giurisdizione, nutrivano ancora fiducia nei confronti del genere umano. Molto
probabilmente ero l’unica detective del distretto di Friburgo a pensarla così e
molti avevano più volte rimproverato questa mia “dannosa ingenuità”, ma ci
avevo fatto presto l’abitudine: qualche antipatia in più o in meno non avrebbe
compromesso la mia salute, no?
Anche quel giorno mi ritrovai ad ammirare per l’ennesima
volta l’apice della crudeltà umana. Per quanto paradossale potesse sembrare,
avevo uno stomaco d’acciaio. Era piuttosto difficile che la carneficina mi
nauseasse, tantomeno che mi turbasse fino a farmi perdere i sensi. L’unica
sensazione che quell’orrenda visione suscitava in me era pura e cruda pietà nei
confronti di vittima e carnefice – cercavo sempre di convincermi che si trattasse
tutto di un errore, di una tragedia che non era stata già programmata in
precedenza. La maggior parte dei casi mi illudevo, ma ciononostante non mi
arrendevo mai.
«Riemelt! Ancora distratta?» mi rimproverò all’improvviso il
Prefetto, cogliendomi in flagrante. Andava sempre a finire così, quando mi
trovavo di fronte a un cadavere: non potevo fare a meno di incantarmi e di
riflettere sulle mie prese di posizione, in balia delle mie stesse emozioni.
Ogni volta mi ostinavo a cercare qualcosa in grado di smentire la mia ormai
antica convinzione, mettendomi alla prova, nel vano tentativo di immedesimarmi
nei miei colleghi e di pensare come loro.
E, come da consuetudine, venivo costantemente richiamata
all’attenzione.
«Nossignore!» replicai, con il volto letteralmente in
fiamme. Inevitabilmente arrossii fino alla punta dei miei capelli azzurri,
vergognandomi di essere stata ripresa per l’ennesima volta. Il mio capo avrebbe
certamente pensato che non fossi in grado di prendere sul serio il mio lavoro,
date le numerose occasioni in cui mi sorprendeva con la testa tra le nuvole. «Stavo
soltanto riflettendo sul modus operandi dell’assassino e sul suo possibile
movente!».
In tutta risposta, lui inarcò un sopracciglio in segno di
evidente scetticismo. Se non fosse stato a conoscenza delle mie abilità sul
campo, molto probabilmente mi avrebbe licenziata o perlomeno declassata seduta
stante. Invece si limitò, con mio enorme stupore, ad assestarmi una pacca sulla
spalla e a ridacchiare tra sé e sé. «Non dirmi che stai pensando a come fare
colpo sul procuratore, eh?» scherzò giocondo, per poi invitarmi a riprendere il
lavoro con un cenno di capo. «Allora cerca di impegnarti, se vuoi perlomeno
farti notare. È un tipo molto difficile, o almeno così si vocifera».
Oh, giusto. Mi ero quasi scordata che anche il procuratore
avrebbe partecipato di persona alle indagini. Di solito nessuno si faceva vivo
sulle scene del crimine, perché tutti si aspettavano che fossimo noi del
distretto a procurar loro le prove necessarie per vincere i processi. Insomma
era raro che qualcuno decidesse volutamente di sporcarsi le mani con il sangue
delle vittime. Eppure questo nuovo arrivato, che si vociferava fosse un vero e
proprio Genio del suo ramo, aveva preteso di collaborare con noi. Inutile dire
quanto questa anomalia fece chiacchierare molto il nostro distretto.
Come si chiamava? Von Herzen? Koch? Per quanto mi sforzassi,
quel cognome non mi sovveniva – e dire che mi era stato ripetuto più e più
volte, per evitare che io facessi una pessima figura!
«Dannazione, non mi ricordo proprio...» mormorai tra me e
me, mentre mi chinavo nuovamente sul cadavere. Cercai di concentrarmi sul mio
incarico, ma fu tutto inutile: la mia mente si rifiutava di collaborare,
impegnata com’era a rivangare nel passato alla ricerca di quel dannato nome. «Oh,
andiamo! Come diavolo si chiamava quello stupido procuratore?!».
Non avrei mai voluto e soprattutto pronunciare quelle
parole. Se solo avessi potuto viaggiare nel tempo, molto probabilmente mi sarei
tappata la bocca.
O perlomeno avrei fatto in modo di accorgermi
dell’inquietante presenza del procuratore alle mie spalle.
Rimasi in silenzio per ben cinque minuti, nel tentativo di
realizzare che cosa fosse effettivamente successo. Ne impiegai altri dieci per
provare profondo imbarazzo. La restante ora mi preoccupai di scusarmi fino a
quando non avrei esaurito la voce. Tutto questo per scoprire che von Karma –
così si chiamava il procuratore – non aveva affatto udito una sola parola di
quanto avevo detto, perché “Non perdo tempo ad ascoltare i visionari che
parlano da soli”. Insomma, non solo mi ero umiliata pubblicamente, ma mi
ero perfino cacciata nei guai con le mie stesse mani. Complimenti a me!
Quando mi domandò per quale motivo stessi chiedendo il suo
perdono in ginocchio, decisi di avvalermi della tanto amata facoltà di non
rispondere. Per mia fortuna perse subito interesse nei miei confronti e non
provò neppure a farmi confessare, impegnato com’era a vestire i panni di
investigatore provetto. Sembrava quasi che io non esistessi affatto, che fossi
solo una miserrima comparsa alla quale non bisognava prestare troppa
importanza.
«Non è stato un omicidio molto pulito» cercai poi di rompere
il ghiaccio, nel vano tentativo di spezzare il silenzio opprimente che aleggiava
tra noi. «A quanto pare l’assassino ha cercato di tagliare nettamente il collo
della vittima, recidendo la carotide, in modo da ucciderlo sul colpo. Per sua
sfortuna è riuscito soltanto a ferirlo superficialmente, forse perché la
vittima ha provato a difendersi o perfino a fuggire».
Dal procuratore non giunse alcuna risposta. Attesi per
qualche istante, convinta che fosse troppo concentrato per ascoltare mia
autopsia improvvisata, ma non proferì alcuna parola. Mi schiarii la voce e
decisi di proseguire, nonostante tutto: «A giudicare dalla ferita slabbrata, il
coltello deve avere una lama seghettata. Abbiamo cercato ovunque, ma purtroppo
non c’è alcuna traccia dell’arma del delitto».
Mi chinai accanto a von Karma e lo scrutai con la coda
dell’occhio, mentre fingevo di cercare qualche altro utile indizio. Potevo
leggere perfettamente il suo sguardo e comprendere che cosa vi fosse celato:
leggevo l’odio nutrito nei confronti dell’assassino – degli assassini? –, il
suo profondo disgusto alla vista di quella carneficina, nonché un morboso
desiderio di... vendetta? No, non intendeva affatto vendicare quel pover uomo
che giaceva di fronte a noi. C’era un motivo ben più personale e complesso che
lo spingeva a desiderare un verdetto di colpevolezza per l’omicida.
Assurdo. Ero abituata ad avere a che fare con persone che
disprezzavano profondamente la razza umana, accusandola di essere abominevole e
capace di commettere soltanto atrocità. Tuttavia, quel ragazzo – avrà avuto sì
e no venticinque anni come me, o pochi di più – sembrava essere completamente
diverso dagli altri, ma faticavo a comprendere che cosa lo rendesse così
speciale.
Provai ad immedesimarmi in lui per qualche misero istante,
sforzandomi di leggere la sua mente. Che cosa mai poteva pensare, mentre
ammirava un simile scempio di sangue e crudeltà? Chiusi gli occhi e mi
concentrai a fondo. Di solito ero piuttosto brava a dedurre sentimenti ed
emozioni della gente attorno a me. Potevo quasi considerarlo il mio talento. «Bestia»
sibilai poi a denti stretti, con un’insolita e sconosciuta rabbia che divampava
nel mio petto. Strinsi i pugni e a stento mi trattenni dall’aggiungere altro in
merito.
Era davvero questo che stava provando?
Peccato che la mia affermazione non ottenne il risultato
sperato, anzi scatenò un maledetto effetto farfalla degno di nota. Ben presto
mi sarei pentita di aver proferito parola per ben la seconda volta in una sola
giornata.
«Me lo dicono in tanti» mi rispose immediatamente dopo il
procuratore, scuotendo il capo con estremo disappunto e curvando le labbra in
un sorriso beffardo. «Non è affatto originale, sa?».
Avvampai. Non mi sarei mai aspettata una simile reazione da
parte sua, tantomeno un fraintendimento! Rimasi a bocca aperta per una manciata
di istanti, imbarazzata e sufficientemente umiliata, prima di prendere il
coraggio a due mani e replicare: «Non mi riferivo affatto a lei, procuratore
von Karma!».
«Invece credo proprio di sì, signorina...?» asserì
nuovamente, voltandosi in modo altrettanto inaspettato per guardarmi in viso. Inspiegabilmente,
arrossii con maggior vigore.
Perché mi sentivo così tanto in soggezione? Non mi era mai
capitato prima di allora. Da quando avevo il dono della parola, non avevo mai
temuto niente e nessuno, ancor meno avevo trovato qualcuno in grado di mettermi
alle strette con così tanta facilità. «Susanne Riemelt» sussurrai flebilmente,
per poi racimolare disperatamente ciò che era rimasto della mia dignità e
ribattere: «Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con
la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla
di quanto è a mia conoscenza. Giuro solennemente di non averlo detto nei suoi
confronti!».
«Glielo ripeterò per l’ultima volta, Riemelt: credo proprio
che lei mi abbia insultato» insistette, portandomi all’esasperazione. Possibile
che non mi credesse per davvero? Era uno stupido procuratore, quindi doveva per
forza sapere che io stavo dicendo la verità più assoluta. «Chiederò
espressamente al suo superiore di tagliarle lo stipendio» aggiunse poi, schioccando
le dita con aria trionfale.
Non so come riuscii a trattenermi dall’insultarlo
spudoratamente. «Ho detto stupidamente la prima cosa stupida che mi è
stupidamente passata per la mia stupida testa!» mi giustificai, nel vano
tentativo di porre rimedio al pasticcio che avevo plasmato con le mie stesse
mani. Istintivamente scostai la frangia blu dai miei occhi color cielo, in un
gesto di evidente nervosismo.
E fu in quel preciso istante che le labbra del demonio si
curvarono in un sorriso alquanto beffardo. «Infatti soltanto una stupida,
proprio come lei stessa si è definita, avrebbe pensato seriamente che io non le
avessi creduto sin dal primo istante» rise trionfale, per poi alzarsi e
abbandonarmi nella mia profonda umiliazione come se nulla fosse.
Portai una mano sulla mia cintura, dove vi era appesa la mia
fedele frusta. Se solo non fosse sceso uno spirito divino dal cielo, che mi
mise una mano sulla bocca e l’altra sul mio fianco, molto probabilmente avrei
aggredito verbalmente e fisicamente quel procuratore sfacciato e maleducato.
Non lo potevo soffrire.
Mi aveva battuto con le mie stesse armi.