L’autocarro procedeva lentamente a causa della strada
fortemente dissestata, addentrandosi lungo la galleria
illuminata dai fari, che fendevano l’oscurità totale. Il
tunnel, scavato rozzamente nelle rocce porose ricoperte da
polvere rossastra, si interruppe davanti a un enorme muro
d’acciaio che impediva il passaggio. Il camion si fermò,
l’autista controllò i cinque monitor disposti in cabina,
collegati ad altrettante telecamere che permettevano di
avere una visiona completa dell’esterno del veicolo
corazzato. Afferrò il microfono della ricetrasmittente e lo
avvicinò alla bocca. «Inizio pressurizzazione esterna.»
Un clangore metallico, accompagnato da un forte tremore,
accompagnò il moto orizzontale di una seconda paratia alle
spalle del veicolo.
Approfittando di quel fragore, una figura nascosta sotto al
rimorchio agganciò una piastra cilindrica, spessa pochi
centimetri, al fondo del cassone. Il magnete si saldò al
metallo con un rumore secco e l’uomo, con il viso coperto da
una maschera marrone e occhiali di protezione, spostò la
leva sul fianco dell’ordigno: due ganci metallici si
conficcarono nel telaio dell’autocarro.
Realgar accese l’unità, poi sganciò il moschettone
dell’imbragatura che lo teneva appeso al veicolo, e si
lasciò cadere; avvicinò il mento allo sterno, per proteggere
il capo dall’impatto col terreno sassoso, poi si girò
sull’addome e strisciò verso il portellone che si stava
chiudendo. Dalla sacca, che portava a tracolla, estrasse
un’altra placca esplosiva e l’agganciò alla paratia prima
che essa concludesse il suo movimento.
Il rombo tranquillo del motore del camion rimase l’unico
suono all’interno della sala di pietra dalle pareti
frastagliate. Dopo una decina di minuti, il muro anteriore
iniziò a scorrere lateralmente, scomparendo nella roccia,
rivelando man mano una galleria meno rozza; vi erano
lampadari sulla volta del tunnel, ogni cento metri, che
emettevano una debole luce dai toni arancioni, la strada era
sterrata ma curata e le pareti erano più regolari.
Realgar si agganciò alla scaletta posteriore quando il
camion ripartì. Passò un braccio tra i gradini di metallo e
frugò ancora nella bisaccia, tirando fuori uno specchio.
Tese il bracciò verso il fianco destro dell’autocarro,
facendo sporgere la superficie riflettente oltre il cassone,
quel tanto che gli permettesse di vedere la strada che
stavano percorrendo.
Quando notò le luci acquistar forza in fondo al tunnel,
preannunciando la fine dello stesso, calcolò il momento in
cui si sarebbe trovato a mezza via tra due lampadari e saltò
giù dall’autocarro, acquattandosi a terra. Il lungo
spolverino era coperto da polvere rossiccia, tanto che era
difficile da intuire che in realtà fosse blu e, assieme alla
scarsa illuminazione lo aiutò a mimetizzarsi. Quando il
camion scomparve dietro alla curva, si alzò in piedi e lo
seguì, camminando lungo la parete della galleria.
Arrivò così a una vasta caverna artificiale, dal soffitto
alto all’incirca sei metri, nella quale erano racchiusi, a
una sommaria stima, un centinaio di moduli abitativi,
strutture squadrate, una uguale alle altre, talvolta
sovrapposte a formare edifici di due piani.
Tenendosi al riparo delle rocce e dei moduli, raggiunse il
centro abitato. Si accovacciò in un punto dal quale godeva
di una buona visuale, lasciando scorrere lo sguardo sulle
persone che si muovevano per le strade. In lontananza vide
un camion, probabilmente lo stesso grazie al quale era
penetrato nell’avamposto clandestino.
Sollevò gli occhiali protettivi, adagiandoli sul capo. Si
levò le lunghe ciocche di un biondo platino da davanti gli
occhi, poi aprì lo spolverino e, da una tasca interna, prese
il cannocchiale. Estese il tubo telescopico, cercando il
ladro di documenti, ma nessuno dei volti che incrociava
apparteneva al ricercato. Con uno sbuffo di disappunto, si
spostò dal nascondiglio alla ricerca di un punto di
osservazione sopraelevato. Si arrampicò silenziosamente
lungo una scala e si sdraiò con cautela sul tetto,
riprendendo a scrutare l’abitato.
L’obiettivo del cannocchiale indugiò su diversi visi e, alla
fine, si fermò su una finestra oltre alla quale individuò il
proprio bersaglio. Ripose il tubo all’interno della tasca e
tornò a studiare la sua meta, valutando come raggiungerla in
quel dedalo di viuzze strette e irregolari.
Scese dal tetto e si incamminò di soppiatto, le ginocchia
flesse e i sensi all’erta. Più di una volta fu costretto ad
appiattirsi conto a un modulo, a rimanere immobile, per non
farsi individuare da un passante. Raggiunse la meta e si
avvicinò cautamente alla strada, rimanendo al riparo nel
vicolo. Estrasse dalla tasca destra dello spolverino il
radiocomando e inviò il segnale di innesco alla bomba che
aveva piazzato sull’autocarro.
L’esplosione fece tremare le pareti della caverna, rocce di
piccole dimensioni si staccarono dalla volta e caddero sui
moduli, senza causare danni. Tutti gli abitanti iniziarono a
sciamare verso l’autorimessa, per spegnere l’incendio che
stava cominciando a propagarsi. Anche il ricercato uscì
dalla propria tana e corse via, passando davanti a Realgar
che, fermo nella stretta traversa, lo lasciò sfilare senza
intervenire.
Attese qualche istante, poi si sporse a controllare la
strada e, non appena fu libera, si precipitò all’ingresso
del modulo. La porta era stata lasciata aperta ed entrò
senza difficoltà. Si guardò attorno, studiando l’angusto
spazio abitativo, adatto a ospitare una sola persona. I
moduli erano studiati per essere funzionali e le comodità
erano limitate al minimo necessario.
Ispezionò il letto sopraelevato alla sua destra, fissato
alla parete corta; frugò sotto il materasso e, non trovando
ciò che era stato rubato, controllò la scrivania posizionata
sotto alla zona notte. Rinvenne una cassetta di sicurezza di
piccole dimensioni e la appoggiò sul ripiano. Studiò la
tastiera numerica sulla sommità, che permetteva di inserire
il codice di sblocco della serratura e prese dalla sacca gli
arnesi da scasso, iniziando a smontarla. Incise le guaine di
due piccoli cavi elettrici, scoprendo i fili di rame e li
usò per mandare in corto il circuito. La cassetta si aprì,
rivelando il chip, grande quanto un’unghia, in essa
contenuto. Lo sollevò davanti al viso, tenendolo tra indice
e pollice, poi lo inserì nello slot dello scanner che
indossava all’avambraccio sinistro.
Il display si accese, mostrando il documento elettronico
firmato dal responsabile della Fratellanza Nergal, la gilda
dei mercanti che dominava tutte le città cupola. Con quello
era possibile farsi consegnare a vista un carico di mezza
tonnellata di petrosene, la principale fonte di energia su
Marte, senza sottoporsi a ulteriori controlli.
«Trovato» sussurrò soddisfatto, sfilando il chip dal
dispositivo; lo fece cadere dentro a un contenitore
cilindrico che infilò nello scomparto della cintura.
Lasciò il modulo abitativo felice di non essersi tolto il
respiratore, visto che il fumo aveva invaso la caverna.
Abbassò gli occhiali di protezione davanti agli occhi e
proseguì a passo svelto lungo la strada. Da una delle
abitazioni, uscì precipitosamente un uomo armato di
estintore e, involontariamente, lo urtò. Lo sconosciuto non
si curò eccessivamente di lui e corse verso l’incendio. Tirò
un sospiro di sollievo e proseguì. Arrivò sulla strada
principale e, su un lato, vide due quad. Si avvicinò e li
ispezionò: come previsto, non trovò le chiavi di accensione.
Salì in sella al modello blu e scoperchiò il quadro
elettrico, cominciando ad armeggiare con i cavi. In
lontananza sentiva le grida degli abitanti dell’avamposto,
intenti a domare le fiamme che consumavano il prezioso
ossigeno, gelosamente conservato nella caverna.
Il motore del quadriciclo tossì un poco, prima che le
vibrazioni si regolarizzassero.
«Ehi!»
Realgar si voltò alle proprie spalle e vide tre uomini
corrergli incontro; tra essi, c’era anche il ladro di
documenti. Girò immeditamente la manopola del gas e si
diresse verso la galleria. I tre inseguitori lo videro
fuggire, impotenti.
«Merda! Mi ha fregato pure la moto!» sbottò il ladro.
L’amico saltò sul quad rimasto. «Gli vado dietro, andate a
prendere l’auto.» Mise in moto e si lanciò all’inseguimento.
Tossendo a causa del fumo, il ladro diede una pacca alla
spalla del compare, indicandogli una direzione verso la
quale scattarono all’unisono.
Realgar imboccò il tunnel e si voltò per controllare quanto
vantaggio avesse. Il sibilo di un fascio d’energia, gli fece
intuire di averne meno di quanto sperasse. Si piegò sul
serbatoio, spingendo al massimo il veicolo.
Un’esplosione di scintille accompagnò l’impatto del colpo
successivo, che incurvò il parafango posteriore sinistro,
che andò a sfregare sullo pneumatico, privo di camera
d’aria, cominciando a ledere alla gomma di rivestimento.
«Maledizione» ringhiò Realgar, preparandosi all’inevitabile.
Non appena il battistrada cedette, le sezioni della ruota
iniziarono a piegarsi e il quad sbandò. Per non perdere il
controllo, fu costretto a rallentare e a controsterzare.
Sfoderò la propria pistola con la mancina e si voltò,
esplodendo un colpo d’energia verso l’altro quad che
guadagnava terreno. Sparare in quelle condizioni non era
pratico, ma al terzo colpo, riuscì a centrare la ruota
anteriore dell’inseguitore, appiedandolo.
A trecento metri dalla paratia, la ruota cedette del tutto e
l’asse posteriore si ruppe. Realgar abbandonò la moto e
corse verso la porta, mentre alle sue spalle sentì il rombo
di un altro motore. Si girò e vide un rover sopraggiungere a
gran velocità. Impugnò l’arma con la mandritta e sparò un
paio di colpi, per rallentarlo ma, uno dei tre occupanti si
alzò in piedi sul sedile posteriore e rispose al fuoco,
sparando con un fucile.
Realgar si tuffò di lato e fece una capriola, schivando i
globi di energia scarlatta. Alla fine della rotazione, si
mise in ginocchio e sparò nuovamente contro il veicolo
sempre più vicino. Scattò zigzagando verso il rover poi, a
pochi metri dal veicolo, spiccò un poderoso balzo. Grazie
alla lieve gravità marziana, oltrepassò l’auto, sparando con
precisione con l’intento di disarmare gli aggressori. Quando
atterrò alle loro spalle, impugnò il radiocomando e fece
saltare la seconda carica, sfruttando l’esigua copertura
offerta dal veicolo.
La brezza iniziò a spirare verso l’esterno e Realgar scattò
verso la breccia, mentre la sirena d’allarme entrò in
funzione.
«Sta scappando!» urlò l’uomo sul sedile posteriore,
massaggiandosi il braccio stordito dalla scarica.
«La saracinesca si sta chiudendo, dobbiamo rientrare!»
rispose allarmato il pilota.
«No! Dobbiamo recuperare quei documenti!» intervenne il
terzo, a cui Realgar aveva sottratto il bottino.
«Non abbiamo l’attrezzatura per uscire!» ringhiò il pilota,
affondando il piede nell’acceleratore, sterzando
repentinamente, per poi tornare verso l’avamposto, mentre la
seconda porta metallica sigillava l’apertura, preservando
l’atmosfera artificiale della stazione sotterranea.
Realgar raggiunse il rover, nascosto tra le rocce, e rimosse
il telo mimetico col quale lo aveva coperto. Il sole era da
poco tramontato e il cielo splendeva dei colori delle
aurore, che si muovevano come le onde sulla superficie di un
lago. Cinquant’anni prima, i cieli marziani erano
decisamente più monotoni privi di quello spettacolo, poi
l’Uomo era riuscito a realizzare una barriera magnetica
orbitante, per proteggere la superficie dalle violente
tempeste solari. Aveva sacrificato uno dei due satelliti di
Marte, Phobos, ma si era trattato di una perdita necessaria
alla sopravvivenza delle colonie umane.
Saltò alla guida del veicolo biposto, chiuse l’abitacolo e
mise in moto. Le luci esterne si accesero e il sistema di
supporto vitale pressurizzò la cabina, iniziando a
bonificare l’aria. Realgar controllò i sistemi e lasciò
scivolare lo sguardo sui dintorni, sbirciando oltre la
calotta, incastonata nel robusto telaio.
Si avviò tra le creste rocciose che si innalzavano nei
pressi del bordo del cratere, simili a un intricato
labirinto, che lui conosceva come le proprie tasche. Dopo
quasi un’ora di marcia lenta, la pietra aspra e tagliente
lasciò spazio a soffici dune, che si alzavano di diversi
metri. Risalì sulla cima di una di esse e la cupola di
Herschel gli apparve all’orizzonte, rischiarando la notte
con le sue luci artificiali, apparentemente piccola rispetto
all’immenso bacino che la ospitava.
La sua attenzione era però rivolta all’oceano di sabbia,
spazzato da una lieve brezza, che lo separava dalla cupola.
Era il tratto più insidioso del percorso, perché era un mare
mutevole che cambiava geografia in base ai capricci del
vento. Non aveva abbastanza petrosene come combustibile per
seguire il bordo interno del cratere, quindi doveva per
forza sfidare le sabbie in esso contenute, stando ben
attento a non farsi seppellire dagli improvvisi cedimenti.
Disattivò il cambio automatico e spinse a fondo il pedale
dell’acceleratore; il rover sgommò, sollevando un denso
polverone, e si tuffò lungo la scarpata, mentre la duna
collassava alle sue spalle.