Rose
di Pieria.
[1]
“Perché
piangi, Patròclo? Bamboletta
sembri
che dietro alla madre correndo
torla
in braccio la prega, e la rattiene
attaccata
alla gonna, ed i suoi passi
impedendo
piangente la riguarda
finch’ella
al petto la raccolga.
[…]
Parla,
m'apri il tuo duol, meco il dividi”.
Iliade,
libro
XVI.
◊
Era
la notte a portare consiglio, a quanto
dicevano i sapienti, l’ultimo frammento di giornata in cui
era possibile godere
di pace ed armonia. Il silenzio era piacevole come il suono di una
cetra e la
voce dolce di una fanciulla, e la fresca aria notturna portava via con
sé
fatiche e sforzi di una lunga giornata, in luoghi ancora ignoti agli
occhi dei
più.
L’oscurità
avvolgeva i corpi, li inghiottiva
nel suo manto bluastro per confortarli. Ed era magia anche il
più flebile
suono.
Per
un guerriero, la notte era sacra.
La
brace rovente rifulgeva e crepitava,
stanca, fra i legni secchi raccolti a cerchio sul terreno nero.
Efestione
allungò le mani per catturare il calore sprigionato dai
resti di un fuoco
estinto, annusando il leggero odore di bruciato che pervadeva
l’aria, ad occhi
socchiusi, mentre intorno a lui vibrava un silenzio teso. Gli uomini
dormivano,
infagottati nelle loro coperte, e i barlumi delle lanterne illuminavano
il
campo, a chiazze, lasciando nell’oscurità
più nera quei lembi di terra che non
venivano carezzati dalla loro luce soffusa. Efestione
sospirò, stringendosi
nella pelle d’orso che gli aggravava sulle spalle, per poi
alzarsi dal tronco
su cui aveva riflettuto per lungo tempo. Si lasciò condurre
dal suo passo, automaticamente,
come in trance, fino a trovarsi davanti al padiglione in doppio tessuto
del re.
«
Generale », reclinò il capo il soldato di
guardia alla tenda. Al gesto della sentinella, Efestione
ricambiò con un cenno
della mano.
«
Il re riposa? ».
«
Non credo, generale. Le luci sono ancora
accese ».
Efestione
annuì, lentamente. « Bene »,
asserì
e scostò il drappo che nascondeva l’ingresso della
tenda. Non appena mise piede
sul morbido tappeto che rivestiva l’intera superficie
occupata dal padiglione, il
calore lo invase. Efestione socchiuse un istante gli occhi, cullato
dalla mite
temperatura – aveva persino un profumo familiare, tanto
familiare, che tuttavia
al momento non riusciva a ricordare -, prima di esplorare con lo
sguardo
l’interno della tenda. Si accorse della presenza del re solo
dopo aver
adocchiato il tramezzo in stoffa, che lasciava intuire i due profili
ombrosi che
vi stavano dietro. Si tolse la pelle d’orso dalle spalle, la
lasciò cadere su
un basso tavolo in legno lavorato e si fece avanti, adagio, cercando di
non
provocar rumore.
«
Alessandro,
mio re »,
salutò,
non appena apparve alla sua vista la figura del re, rilassato dentro la
vasca
di acqua bollente. Leptine, la sua serva, gli stava massaggiando le
spalle con
una spugna imbevuta e petali di rosa.
«
Efestione
».
Il re
si alzò di scatto dalla vasca. Lo spostamento
improvviso dell’aria portò ad Efestione la
familiare fragranza che impregnava
la tenda. Rose di Pieria, finalmente comprese, e ne rimase stupito: era
una
caratteristica che aveva sempre associato ad Alessandro, il particolare
odore
delle rose di Pieria. Se immersi i loro petali nell’acqua
calda, sprigionavano tutta
la dolcezza di cui erano capaci. Era stata un’idea di
Olimpiade, quella di
lavare Alessandro, sin da infante, nell’acqua di rose;
un’abitudine che il
sovrano non aveva mai perso.
«
Perdonami, non volevo disturbare il tuo
riposo ».
Alessandro
sorrise.
«
Hai il diritto d’importunarmi ad ogni ora
del giorno e della notte. Dimmi pure ».
Leptine
avvolse il corpo bagnato di Alessandro in un telo
di seta, prima che il sovrano le facesse cenno di lasciarli da soli. La
serva
chinò il capo rispettosamente, lanciando uno sguardo ai due
uomini mentre si
allontanava con lentezza. I suoi occhi si soffermarono su Efestione e
non lo
lasciarono finché non fu uscita dalla tenda.
Efestione
aveva sostenuto lo sguardo, cupo.
{
Gelosia.
«
I suoi occhi mi suggeriscono dubbi »,
enunciò Efestione. Le sue labbra
si arcuarono di poco verso l’alto mentre si voltava per
incontrare lo sguardo
del re, invano. «
Gelosia ».
Alessandro
passò la stoffa lungo le braccia e scosse
il capo, con un altro sorriso. « Lo trovo normale; sono la
persona che le offre
protezione e che l’accudisce ». Poi
sollevò gli occhi, continuando ad
asciugarsi l’addome. « Desideri dirmi qualcosa?
».
«
Avevo solo voglia di vederti », fece
spallucce Efestione. « È da tanto che non
trascorriamo del tempo insieme ».
«
Vero. Mi dispiace ».
«
La campagna non sta soltanto conquistando
terre ignote ».
Alessandro
gli diede le spalle. Il suo corpo umido era
ancora velato dalla seta candida; la luce che indorava soffusamente
l’ambiente,
suggeriva i contorni della sua figura slanciata.
Non
rispose a quell’affermazione.
Efestione
aggrottò la fronte, il petto rovente di
risentimento.
«
Mi hai sempre ripetuto che la fiducia sta
alla base di ogni rapporto ».
Alessandro
non si volse; rimase eretto a porgergli la
schiena, passando un lembo del tessuto sulle braccia, ancora. Un suono
leggero
di scalpiccii gli fece intuire che il compagno si era mosso,
avvicinandosi
maggiormente alla sua figura.
«
Amore
ha bisogno di fiducia per esser completo ».
Nel
piegarsi in avanti, il pendente che Alessandro aveva
al collo gli ricadde dal petto per posarsi morbidamente sulla seta che
gli
rivestiva le gambe.
«
Se manca questo, l’amore può tramutarsi in
desiderio, voglia. Finché anche la voglia non si
smorzerà… ». Efestione
fece ancora un passo
verso la sagoma del sovrano.
« E ogni cosa sarà
destinata a finire ».
Un
dentino logorato dal tempo sembrava rinfacciargli le
parole d’astio pronunciate da Efestione. Deglutì,
mentre concentrava la vista
su una minuscola crepa ingiallita del dente.
«
Cosa vuoi dirmi? », chiese, lentamente, in
un mormorio.
Efestione
parve soppesare, nel silenzio,
quella domanda, studiandone le varie sfumature e il tono con il quale
era stata
pronunciata.
«
Ti fidi ancora di me, re? O il potere che
hai acquisito ti acceca tanto? ».
Alessandro
inspirò con forza, assottigliando
gli occhi.
Se
qualcun altro avesse azzardato tanto, non
sarebbe sopravvissuto al ferro di una lama.
Ma
lui… lui sarebbe sempre stato lui.
«
Perché questa domanda? ».
«
Non ti riconosco più », biasimò
Efestione. «
Dov’è finito Alessandro? L’Alessandro
amante dell’arte, della bellezza, della
letteratura. L’Alessandro dei sogni.
Dov’è? ».
Alessandro
si girò per guardarlo negli occhi.
Ma prima di incrociarne lo sguardo, percorse il viso
dell’amico. Un brivido gli
attraversava la schiena ad ogni cicatrice che scorgeva: una sulla
guancia
sinistra, un’altra su un sopracciglio, ancora una terza
vicina al mento. I
lineamenti di Efestione, una volta tanto incantevoli, erano stati
inaspriti dal
tempo e dalla guerra.
I
suoi occhi, tuttavia, brillavano sempre con
la stessa intensità di un tempo.
Sempre,
allorquando Alessandro poteva rispecchiarvisi.
«
Cosa vedi al suo posto, Efestione? Qual è
l’Alessandro che ti sta parlando? ».
Poco
lontano, sul lino delle coperte del re,
si ergeva un tomo vecchio ed ingiallito.
«
Io non vedo Alessandro. Sono al cospetto del
Pelide, adesso ».
L’Iliade,
che Aristotele aveva regalato ad
Alessandro al loro primo incontro, era aperta in una pagina
raffigurante due
figure maschili nude, abbracciate in un corpo a corpo, prima di
protrarsi nel
racconto della scena.
«
Achille amava Patroclo, Efestione », ricordò
Alessandro, trattenendo a stento il tremito della voce. Gli diede
nuovamente le
spalle. « E Patroclo non aveva bisogno di conferme,
perché sapeva. Sapeva ».
«
Ma Patroclo conosceva Achille », ribatté
Efestione, facendo un ampio gesto della mano, come a voler scostare un
intralcio che ostacolava il suo cammino. « Tu sei…
incostante. Come il vento.
Assumi i colori, i profumi dei luoghi che hai sopraffatto e li fai
tuoi, tuoi
del tutto, mutando la tua indole. Non c’è
più traccia del giovane che conobbi? ».
«
Gli uomini cambiano, Efestione. Cambiano,
anche involontariamente ».
Il
cuore di Efestione sussultò, a quelle
parole, e le sue mani tremarono di collera. « Cosa cerchi
qui, Alessandro? La
patria è stata già vendicata ».
Le
labbra di Alessandro si strinsero tanto da
divenire una sottile, rosea linea retta. Piegò il collo quel
tanto che gli
bastava per intravedere la sagoma scura di Efestione, ritta, tesa come
la corda
di una cetra, alle sue spalle.
«
Qual è il tuo timore? Cosa ti turba,
Efestione? Vieni da me, a parlarmi di gloria e patria:
perché? Io so cosa
voglio; tu, invece? Cosa desideri così ardentemente?
».
Efestione
strinse i pugni, lungo i fianchi,
sentendo le unghie graffiare il palmo e penetrare nella carne morbida.
«
Il tuo amore, Alessandro. Come quando
eravamo ragazzi e sconoscevamo le insidie del cuore. Vorrei quei tempi
indietro,
vorrei l’Alessandro di allora ».
Forse
fu la schiettezza, forse il tono di
accusa tinto di malinconia, a serrare il respiro di Alessandro,
troncandolo in
un aspro sospiro.
O
forse furono i ricordi, ancora, ad assalirlo.
Il
ricordo di due bambini, baciati dai raggi
aurei del sole pomeridiano, nel portico principale del palazzo di
Pella; di due
giovani uomini, intenti a fronteggiarsi in un duello di scherma; di due
amanti,
distesi sulla seta, nelle stanze del Liceo di Mieza. Due giovani uomini
che
avevano scoperto insieme il piacere gratificante dell’amore,
l’amore puro ed
incorrotto.
«
Da quanto tempo non mi chiami più? Solo io
sento la mancanza del corpo di colui che… ».
Come
acqua che scorre in un letto di fiume,
sarebbe uscito fuori dagli argini, prima o poi, quell’amore,
ed avrebbe invaso
la loro vita, divenendone parte essenziale.
Alessandro
guardò Efestione, ne studiò lo sguardo,
lo indagò sin nel profondo e vide ciò che mai
avrebbe voluto scorgervi: la
stanchezza, l’angoscia di chi si strugge per la mancanza
della propria patria;
vide il sogno di un esiliato, costretto a lacerarsi l’animo
per il desiderio di
rivedere casa.
Eppure…
eppure non era stato Efestione ad aver
dichiarato solennemente, con voce tremante e
gli occhi lucenti d’emozione, “il
mio posto è al tuo fianco. Quella che tu chiamerai casa,
sarà anche la mia. Ivi
giacerà il cuore”?
Non era stato
lui? Non era stato Efestione?
E
dunque cos’era quel barlume di spossatezza, cos’era?
{ Disperazione.
«
Tu… », lo interruppe bruscamente.
Cos’era?
E
perché faceva tanta paura?
Dopo
aver udito le proteste delle sue truppe,
dopo averle persuase dell’importanza di quella missione, dopo
aver affrontato
insidie di popoli sconosciuti e terre aride e deserte…
«
Tu… ».
Distrutto,
ferito, mutilato.
Le
mani di Alessandro scattarono all’istante
sul mantello che avvolgeva le spalle di Efestione, e ne strinse gli
orli nei
pugni chiusi, serrati ora in una morsa di collera vibrante. Il velo che
copriva
le sue nudità ricadde per terra in un soffio dorato, sul
rosso e largo tappeto
persiano che schermava i piedi nudi del re dalla polvere del terreno.
Il tavolo
venne urtato con forza e il rumore di candelabri rovesciati e di
terracotta
infranta sovrastò le parole gutturali del re, per poi essere
inghiottito da
grida sommesse e gemiti di rabbia.
«
Mi hai… ingannato? ».
Gli
occhi, quegli occhi che Efestione tanto
amava, iniziarono a fissarlo instabili, scorrendo come saette sul suo
volto
sbiancato, in un vortice trascendente di nero e celeste, mentre le
parole
appena enunciate dilaniavano il suo cuore, squarciandolo da parte a
parte.
Le
cicatrici divennero tagli, crepe interminabili
di sangue nero e pelle, carne deturpata; le iridi torbide si
offuscarono sino a
diventare cieche e la bocca di rosa si fece secca, una linea
raggrinzita e
biancastra.
{ Morte.
La
furia esplose e fu morte, il viso
dell’amante.
E
morte furono le dita che si serrano attorno
ai polsi di Alessandro, scalfendone con gli artigli sporchi la pelle
ambrata,
cercando disperatamente un appiglio per la vita, che svaniva ad ogni
rantolo sotto
le mani malferme di un nume adirato.
«
Anche tu, Efestione? Tu?
».
Ma
presto le dita, tremule, si staccarono e liberarono
dalla loro morsa quella volontà assassina, abbandonandosi
fra le braccia di Ade
con un misto di accondiscendenza e rassegnazione.
«
Oh, Afrodite »,
mossero lente le labbra di Efestione, in un sussurro che
arrivò flebile alle
orecchie di Alessandro, sorde a qualsivoglia suono non fosse il suo
debole
ringhio.
{
Risveglio.
«
Alessandro? ».
«
Muo… muoio per a-amore [2]
».
Sentiva
l’acqua, la sentiva: viva, fresca, piacevole, attorno ai
fianchi.
Sentiva
il
canto degli uccelli, acuto e lontano. Sentiva, stretto fra le braccia,
il corpo
tremante dell’altro.
«
È
questo l’amore più puro? »,
rifletté ad alta voce.
Senza
preavviso, la presa attorno all’esile
gola si allentò.
Efestione
emise un rantolo, roco e secco,
cadendo in ginocchio dinanzi alla figura alta del sovrano.
«
Penso
che… sia questo, sì ».
Lo
baciò, con riserbo, carezzandogli al contempo una guancia
arrossata. « Hai un
buon sapore, Patroclo ».
Efestione
sorrise, frastornato, sbattendo più volte le palpebre.
Guardò Alessandro, poi,
intensamente. « Ricordi cosa ci ha detto Aristotele, giorni
fa? ».
Alessandro
annuì. « Il Battaglione Sacro ».
Efestione
abbassò lo sguardo.
«
Un
giorno… un giorno anche noi partiremo per la guerra
». S’interruppe bruscamente;
gli occhi si soffermarono sul petto del compagno, focalizzandosi sulle
gocce
cristalline che lo adornavano e procedevano lente, per poi tuffarsi nel
calore
del suo bassoventre. « Ti seguirei, Alessandro. Se tu dovessi
perire, ovunque
tu debba andare, ti seguirei ».
Lo
sguardo
di Alessandro si assottigliò, intenerito.
«
Anch’io, senza esitazione ».
Efestione
tornò a guardare il suo volto, con un sorriso dipinto sulle
labbra.
«
Mio
Achille», sussurrò, « Non dubitare mai,
mai ».
Le
braccia di Alessandro ricaddero lungo i suoi
fianchi, ondeggiando impercettibilmente prima che le mani si
chiudessero in pugni
e gli occhi luccicassero di lacrime. Fece alcuni passi indietro, mentre
sconcertato
scrutava la sagoma inginocchiata e tremante. Efestione
rialzò il capo, i lunghi
capelli scuri che occultavano in parte lo sguardo scosso. Non
proferì parola,
non ci riuscì; eppure i suoi occhi parlavano chiaro.
«
Come
hai potuto..? Dubitare di me
».
Alessandro
gemette e, vacillando, ripercorse
la distanza che lo separava dal compagno e lo abbracciò di
getto, stringendo il
suo capo contro una spalla.
«
Sciocco discepolo », ripeté, ancora e ancora;
le narici catturavano, ad ogni respiro, il suo odore, gli occhi
versavano gocce
di amarezza. « Perdonami, perdonami ».
«
Lo farò », sibilò Efestione, stringendo
le
mani sulla pelle nuda delle spalle del re.
«
Mai più, Efestione », soffiò
Alessandro, le
palpebre chiuse e tremanti, posando le mani sulle gote pallide di
Efestione. « Di
chi si fidava Achille? Di chi soltanto, di chi?
».
Sfiorò
con le labbra la fronte dell’amico più
caro, più e più volte.
Erano
calde, profumate e morbide, constatò
Efestione, e non potè fare a meno di socchiudere gli occhi a
quel contatto,
portare una mano alla nuca di Alessandro e baciargli la bocca umida e
schiusa,
bisbigliante indulti astrusi, incomprensibili. E probabilmente
Efestione riuscì
a scorgere, oltre l’opaco azzurrino e il nero oro
dell’eterocromia, i resti di
una fanciullezza presto perduta, ridotta in cenere dalla grandezza
divina a cui
era stato destinato, ancor prima che nascesse.
«
Mio Alessandro », lo abbracciò, la fronte
imperlata
poggiata contro l’incavo del suo collo. « Mi manchi
».
Alessandro
deglutì, esponendo la gola e
respirando quasi a fatica. Strinse a sua volta il torace del compagno,
aderendolo
al suo. « Resta, Efestione. Resta stanotte ».
{
Pace.
◊
A
Giù,
ai
genitali
al vento di Alessandro,
all’Efestione
emo
e
alle
bottiglie di rum – al cioccolato, specifica la signorina -
scolate
durante
una conversazione su Msn.
[1]
Il titolo deriva da un versetto di Saffo (“Morta
giacerai, né più alcuna
memoria di te / ci sarà, né ora né
mai. Tu non sei più partecipe delle rose /
di Pieria e come una qualunque anche in casa di Ade / vagherai fra
spettri
indistinti, svanita”).
[2]
Nella poesia greca antica, spesso, lo
spasimo
d’amore era collegato al dolore della morte. Un esempio sono
le poesie di
Saffo, in cui questa frase (o qualcosa di simile) ricorre molte volte.
Un
ringraziamento va ad Ale per la spiegazione che mi ha dato (mi
sento un’incompetente, al tuo confronto XD).
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