L’invenzione
Il professor Jacob Witter non riusciva a trattenere l’emozione. Sopra
il palco, era al settimo cielo, riuscendo a stento a frenare
l’entusiasmo mentre aspettava che il presentatore della conferenza gli
desse la parola. Stava per esibire il lavoro di tutta una vita
nell’auditorium all’ultimo piano del Dipartimento di Scienze
Matematiche, Fisiche e Naturali davanti ad un’aula gremita di persone
del suo stesso spessore intellettuale.
«Vi ringrazio di cuore per essere qui», disse il professore, iniziando
il suo discorso, «quello che sto per presentarvi è l’epilogo di anni di
ricerche e di studi e sono orgoglioso di tutto il lavoro fatto. L’uomo
si è da sempre posto domande sull’origine del mondo, dagli antichi
filosofi che cercavano di sintetizzare un sistema di pensiero coerente
con quanto il loro occhio gli dava modo di osservare fino ai matematici
moderni che ci hanno permesso di ottenere le prime risposte
soddisfacenti. Tuttavia c’è anche un'altra domanda con cui tutti
costoro hanno dovuto scontrarsi: l’universo in cui viviamo è infinito?
La nube oscura puntinata di stelle che compare ogni notte sopra le
nostre teste e a cui poeti e scrittori hanno cantato le lodi è davvero
senza fine? Se così fosse, vorrei sollevare una questione. Ammettiamo
che l’universo sia infinito e che la probabilità che la vita sorga sia
non nulla. Questo vuol dire anzitutto che la nostra creazione non è
frutto di una divinità. È solo statistica.» Lo disse con una freddezza
disarmante. Un paio di uomini in sesta fila borbottarono qualcosa fra
di loro. Witter aveva sicuramente acceso l’interesse e la curiosità di
quella piccola comunità.
«E questa non è l’unica ripercussione di queste premesse. Spingiamoci
oltre: se l’universo fosse davvero infinito e la vita può essere
generata con probabilità non nulla vuol dire che, da qualche parte,
nello spazio oscuro ci sono infiniti cloni di noi tutti che stanno
facendo esattamente quello che stiamo facendo noi. Dopotutto cos’è
l’infinito se confrontato con una piccolissima probabilità che un
evento accada? Ma non solo: ci sono anche infiniti cloni che stanno
facendo cose molto diverse da quello che stiamo facendo noi. Magari
hanno preso altre vie, altre strade. Strade più accidentate o
moralmente discutibili.»
La donna in prima fila iniziò a sentirsi turbata da quelle parole.
«Perché, ammettiamolo, le nostre azioni di fare del bene o di fare del
male sono assolutamente inefficaci se paragonate all’infinito, perché
da qualche parte ci sarà una copia di noi tutti che avrà scelto l’altra
via.»
Witten era galvanizzato. Sapeva di avere ragione.
«Questo problema etico ha tormentato Nietzsche per tutta la vita.
Perché se, come dicevo, la vita può svilupparsi nell’universo, allora
ognuno di noi è rinato e destinato a rinascere non una, ma infinite
volte, fino alla fine de tempi, in un eterno ritorno dell’uguale.
Nessuna idea è davvero innovativa perché si è già realizzata e si
realizzerà ancora in un infinito temporale passato e futuro. Una linea
senza inizio né fine su cui camminiamo tutti noi, credendo di fare
progressi.»
Una ragazza in ultima fila aveva iniziato a mordersi nervosamente le
unghie.
«Ed è per questo che, con enorme orgoglio, presento a tutti voi la mia
eccezionale scoperta.»
Il professor Witten tirò fuori dalla tasca interna della giacca una
piccola fiala da laboratorio contenente una sostanza rossastra e la
mostrò alla platea, tenendo alta la mano.
«A chi è morto, ridà la vita. È una pietra rossa come il sangue. Gli
uomini la chiamano con venerazione la pietra filosofale.»
Una coppia in terza fila rise sommessamente.
«Questo raccontano le leggende», riprese Witten, «io non vi prometto
tanto, ma sono giunto a produrre un composto che moltiplicherebbe a
dismisura il pensiero umano, accelerandolo. Questa sostanza che ho
creato permette ad un individuo di riuscire a vedere al di là del
proprio naso, oltre la terza dimensione che ci appartiene. Dicono che
la quarta sia il tempo. Ma cosa si nasconde oltre? Se il tempo non
fosse una linea, ma se si comportasse come lo spazio? Un piano
cartesiano a sé stante con tre assi. Un tempo distorto. Magari
riusciremo a vedere tutti i possibili eventi di tutti i possibili
tempi. A quel punto “capiremo”? E, se ci spingessimo ancora più avanti,
oltre una sesta dimensione, cosa troveremmo? C’è una fine a questo
processo? O, ancora una volta, siamo costretti a fidarci di uomini che
ci raccontano che “Dio” è ciò di cui non si può pensare nulla di più
grande?»
L’intera aula era concentrata su di lui. Il professore aveva tutti gli
occhi puntati addosso.
«Io non mi accontento di una risposta del genere», disse, « siamo
scienziati. Vogliamo vedere le cose con i nostri occhi.»
E dette queste parole aprì velocemente la fiala e prima che qualcuno
avesse modo di fermare quel fuori-programma l’aveva già ingurgitata
tutta. Witten restò fisso a guardare la sua platea per qualche secondo
in un interminabile silenzio. Poi il suo viso si fece pallido. La sua
espressione divenne sbalordita, dal sapore di tenebra. La bocca aperta.
Gli occhi sgranati, puntati al cielo.
«Non può essere questa la risposta», disse in un sussurro più flebile
di una fiamma, «non avrei mai dovuto chiedere.»
E, detto questo, prese
una rincorsa e si lanciò oltre l’enorme vetrata dell’aula, precipitando
al suolo.
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