Titolo: L’attesa
Rating: G
Pairing: Arthur/Merlino
Spoilers: Episodi 1x07 e 1x08.
AN: Merlin appartiene alla BBC.
Detto questo, non ho idea da cosa sia uscita questa storia. So solo che
sentivo il bisogno di scriverla perché il conoscere
l’epilogo di tutte le leggende arturiane alla luce delle
nuove emozioni lasciatemi da questo telefilm non ha fatto altro che
accentuarne l’amaro. Questa storia parte dal presupposto che
Merlino, immortale, vaghi ancora su questa Terra nella speranza di
rivedere un giorno lontano il suo Arthur.
Piccolo consiglio. Ho scritto
questa storia ascoltando le note di Looking like that dei
Westlife. Su Youtube e nella sezione di Google c’è
un bellissimo video Arthur/Merlin con in sottofondo questa canzone.
Guardatelo ne vale davvero la pena.
Ora vi lascio ad una buona
lettura ed auguro un buon anno a tutti voi.
L’Attesa
Alle volte
è difficile immaginare lo scorrere di un secolo dopo
l’altro. Lo stesso pensiero, la stessa idea di poter
assistere al loro passaggio ha un che di astratto, assurdo. Gli uomini
non sono fatti per vivere in eterno. Possono solo assaporare pochi anni
che, innanzi all’eternità della Terra su cui
camminano, divengono insignificanti.
Il fluire
del tempo... i filosofi hanno speso ore ed ore, parole su parole, per
tentare di trovare un senso preciso a tutto questo. Anche se non si
tratta di uno fluire pacifico, questo lui lo sapeva bene. Lui
l’Emrys, l’Immortale. Non c'era persona migliore a
cui chiedere di definire lo scorrere del tempo.
Riflettendoci
bene il passare del tempo è più simile alle onde
prodotte da un granello di sabbia caduto sulla superficie di un lago
pacifico. Il granello è sospeso in aria per un attimo
interminabile, quasi ad esitare prima di colpire l’acqua,
come indeciso se la sua azione sia la migliore nello svolgersi degli
eventi. Ma è già troppo tardi perché
l’attimo è oramai trascorso ed esso cade,
spezzando il sottile equilibrio tra aria ed acqua per poi sprofondare
oltre la superficie. Ha fatto la sua scelta.
È
così che si sentiva Merlino mentre camminava lento lungo una
strada affollata come un’altra, fra decine di volti tutti
uguali che non avrebbero mai saputo della sua esistenza. Parigi,
Barcellona, Roma, Hong Kong, New York e Londra ancora una volta.
Città che aveva già visto tutte innumerevoli
volte. È molto il tempo a tua disposizione se hai
già vissuto più di mille anni.
L’Emrys.
Contadino, servo, stregone del re. Un vagabondo ora, un viaggiatore
senza meta, che ha visto imperi sorgere e crollare sotto il peso di
tirannie peggiori di quella di Uther.
Ma erano
tempi lontani quelli. In quel nuovo mondo di computer non
c’erano più draghi a parlare di saggezza e moneta
e destino. Non c’erano più unicorni o altre
creature magiche. C’era solo lui. C’era solo
Merlino.
Tutti gli
altri erano già passati oltre, ad Avalon. Gli altri erano
già al suo
fianco ma
non lui. Non Merlino. Merlino costretto a vagabondare in un mondo
grigio e spoglio chiedendosi solo perché non
anch’io? Cosa ho mai fatto per meritare questo? Questo
castigo? Perché in che altro modo poteva definire lo stare
lontano da quella persona?
Merlino.
Era strano
anche solo risentire il suono di questo nome.
Merlino.
Nome
abbandonato più di mille anni fa, perché
indissolubilmente legato a quello di un altro. Aveva finito quasi per
odiarlo.
Durante il
diciannovesimo secolo era stato chiamato Matthew, ma quel nome aveva
ben presto perso il suo fascino. Verso la fine del ventesimo era
toccato a Michael, ma anche questo lo aveva stancato quasi subito.
Ora nel
nuovo millennio, per la prima volta in centinaia di anni, aveva scelto
di reclamare Merlino. Un ultimo, disperato tentativo di rivivere un
qualcosa che non sarebbe più potuto essere.
Perché nemmeno quel nome, il nome datogli da sua madre,
aveva più lo stesso suono.
Non oggi.
Non nella nuova era tecnologica. Quel nome portava con sé il
peso di una leggenda che non era, che non sentiva, sua. Forse per quel
tono tendente al riso con cui veniva pronunciato, o per
l’immagine che riportava alla mente collettiva. Un uomo
canuto dal lungo cappello a punta. Chi avrebbe mai potuto sospettare
che Merlino era solo un ragazzo dai capelli scuri con le orecchie forse
un po’ troppo grandi?
Non era
quello il suo posto. Lo sapeva. Non c’era più un
posto per lui in quel mondo ma non importava. Perché lui
doveva rimanere lì a prepararli, a preparare quel mondo
freddo. Cosa sarebbe successo se avesse rifiutato quella
responsabilità ingrata? Cosa, se avesse deciso di
passare oltre insieme agli altri per raggiungerlo? Non poteva, lo sapeva
Merlino. Il destino non glielo avrebbe permesso. Il mondo aveva bisogno
di ricordare, ricordare di loro e di ciò che avevano
compiuto. Era questo il dovere di Merlino.
Una folata
di vento gelido lo fece riscuotere da quei pensieri scuri che non
avrebbero portato a nulla. Il desiderio di lasciarsi andare ai ricordi
era una tentazione troppo grande, anche dopo tutto quel tempo. Se lo
avesse fatto, le vecchie ferite si sarebbero riaperte e non avrebbe
potuto sopportarlo.
Non doveva
provare nulla. Doveva essere insensibile e distante come la nuda roccia
che aveva costituito il suo bel castello perché altrimenti
anche l’ultima cosa che lo legava a quella vita, il suo
dovere, gli sarebbe stata portata via. Meglio concentrarsi su altri
pensieri.
Doveva
trovare quella libreria. Ne aveva sentito parlare su internet. Il
fulcro della letteratura e della storia medievale. Stando alle notizie
che aveva raccolto, con un’intera sala dedicata alla grande
città di Camelot e ai suoi gloriosi abitanti. Vi avrebbero
esposto tutte le ultime scoperte e Merlino era curioso di sapere quanto
quel mondo gelido si era avvicinato alla verità.
Un
desiderio alquanto masochista il suo, irrazionale. Dopo tutti gli
sforzi fatti per dimenticare… ma non poteva fare altrimenti,
non quel giorno in tutto l’anno.
Almeno per
quel giorno, aveva bisogno di sentire… sentire qualcosa di
familiare.
Doveva
ammetterlo: erano riusciti a centrare molta della storia.
Pensò a Gwen e a Lancillotto, al tradimento di Morgana, ma
alle volte era assalito dall’assurdo desiderio di mettere le
cose a posto. Nessuno aveva mai menzionato Gaius, mentore e amico. Uomo
di logica ed ingegno che si sarebbe aspettato sempre il massimo da te.
Ma che, al tempo stesso, sapeva essere una persona gentile ed
altruista. Nessuno parlava di Aulfric e Sophia che avevano complottato
per uccidere il suo principe e ci erano quasi riusciti. Nessuno parlava
della donna che Morgana era stata prima, prima di tutto
quell’orrore. Nessuno parlava del suo umorismo.
E nessuna
storia parlava del Grande Drago, di quella creatura saggia ed antica
con un’innata passione per gli indovinelli che non capivi il
più delle volte. Spesso, nei momenti in cui lo sconforto lo
assaliva più forte, gli sembrava di poter ancora sentire la
sua voce. Quella voce forte e rassicurante che gli diceva di non
mollare, che la sua ricompensa era prossima, vicinissima.
Solo
stupide fantasie.
Nessuna
storia parlava del grande legame di amicizia che Merlino aveva nutrito
per loro o del suo grande dolore per essere separato dalle persone cui
teneva.
Nessuno di
loro parlava del suo profondo amore per Arthur.
Arthur, il
cui ricordo era sempre vivo in lui. Arthur, Re di Camelot e
così tanto ancora. Arthur che aveva guidato il suo popolo
con grazia e compassione, senza contare qualche momento di idiozia. Non
era ancora riuscito a digerire la storia dell’unicorno.
Era quello
l’Arthur che voleva svelare al mondo intero, quello che era
morto con coraggio tra le sue braccia. Quello che lo aveva amato
così appassionatamente e baciato con tanta dolcezza.
Arthur che
Merlino aveva amato e avrebbe continuato ad amare in eterno.
Svoltò
all’angolo, seguendo un percorso già compiuto in
passato. La libreria doveva trovarsi a Gala Ave, ma la strada sembrava
mutata dal suo ricordo che risaleva a cinquant’anni prima.
Non gli dispiaceva girovagare un pochino. L’aria fredda della
sera inglese lo scuoteva, impedendogli di annegare nella sua
malinconia.
Le strade
si erano via via svuotate. La gente era a casa oppure aveva
già trovato la sua stessa meta. Luci distanti illuminavano
le finestre mentre una triste melodia di violino accompagnava il
requiem di un pianoforte. Erano le note di un canto funebre antico,
perso nel tempo, una canzone di una tristezza infinita da spezzarti il
cuore ad ogni singola nota. Il cuore di Merlino si ruppe in mille
frammenti ancora una volta ma il mago si costrinse a continuare.
Il corso
dei secoli non era servito ad alleviare il suo dolore. Gli bastava
intravedere tra la gente uno sprizzo di capelli dorati o occhi azzurri
ed Arthur era di nuovo davanti a lui. Così vicino, eppure
così lontano.
Col tempo
aveva smesso di guardarli quei falsi Arthur. Di inseguirli in strada,
invocando il suo nome. Ma non era servito. Centinaia di Arthur si erano
susseguiti l’uno dopo l’altro, spettri serviti solo
a scavare il baratro nel suo cuore un po’ più a
fondo.
Alle volte
il desiderio di ricorrere alla magia era forte. Quando uno spettro
indugiava a ricambiare il suo sguardo, era doloroso staccarsi da quella
fantasia. Gli sarebbe bastato poco più di un sussurro per
trasformare quel miraggio e credere che Arthur fosse ancora
lì con lui. Nei primi giorni della sua solitudine, la sua
lontananza lo aveva fatto quasi impazzire. Lo aveva spinto fin quasi a
compiere gesti estremi.
Ma si era
sempre fermato in tempo. Non aveva potuto farlo, sarebbe stato
tradimento verso il ricordo del suo principe… del suo re.
Indugiare
nella magia non gli avrebbe dato alcun conforto. La magia, suo segreto
e salvatrice, che era divampata viva al tocco di Arthur la prima volta
che si erano stretti, timidi ed impacciati. La magia gli era esplosa
sulle labbra quando la sua lingua aveva incontrato quella di Arthur e
loro due, nudi, avevano visto l’alba sorgere su Camelot. La
sua magia che si era scatenata come una dichiarazione d’amore.
Perché
nemmeno più quella magia gli era familiare.
Eccola,
finalmente. Gala Ave. Ad ogni passo sentiva una morsa stringergli il
cuore. Una morsa che lentamente ma inesorabilmente si faceva
più forte, più straziante. Come la marea che si
ritira lenta pronta a sferrare il suo attacco sulla costa.
Ad ogni
passo migliaia di ricordi tornavano ad affacciarsi prepotenti nella sua
mente, facendogli chinare il capo sotto il loro peso. Ma nessuno lo
fermava. Nessuno si accorgeva di lui.
Era un
mondo freddo quello in cui viveva.
Finalmente
era giunto. La nuova sfavillante libreria che tanto i media avevano
reclamizzato.
Cercò
di ricacciare indietro il dolore almeno per un istante mentre varcava
la soglia di quel luogo che, sperava, poter essere il suo santuario.
Solo per quel giorno, non chiedeva altro. Un giorno soltanto per
ricordare chi era, chi era stato e tutti coloro che lo avevano amato.
Entrò
senza fare alcun rumore, sfilandosi il pesante cappotto invernale e
scomparendo tra la folla, invisibile.
Decine e
decine di giganteschi scaffali accompagnavano il suo cammino,
strappandogli la luce, imprigionandolo nel buio, come un qualcosa di
incorporeo, inafferrabile.
Il fantasma
di un tempo che non era più.
Un fantasma
che continuava a soffrire e sanguinare nonostante si sforzasse di
essere forte. Inattaccabile, invulnerabile.
Sentiva il
mondo stringersi intorno a lui, tentare di schiacciarlo. Quel luogo
voleva risucchiarlo, imprigionarlo per sempre… non poteva
mentire a se stesso. Era quello che desiderava anche lui, infondo al
suo cuore.
Ma doveva
andare avanti.
Ogni passo,
una tortura che aveva cercato di sua volontà.
Iniziò a vagabondare tra una fila di libri ed
un’altra. Non erano questi ciò a cui anelava.
Le voci
delle persone erano solo un groviglio indistinto che rimbombava nel
caos della sua testa, senza un senso logico, senza importanza. Una
macchia confusa che agiva sullo sfondo lasciandolo sempre terribilmente
solo.
Poi una
voce chiara, di donna, sorse dalle altre. Il lungo corridoio buio era
finito, cedendo il posto ad uno spazio ampio, colorato. Risate
infantili.
Nel centro
della sala riservata ai bambini, seduta in un cerchio di ragazzi rapiti
dalle sue parole, una donna stava leggendo. Una storia che conosceva
bene e che avrebbe voluto dimenticare.
Quelle
frasi lo bloccarono, come pesanti catene d’acciaio che
imprigionavano la sua volontà. Non poteva allontanarsi,
fuggire. Solo attendere, immobile, che infierissero un colpo dopo
l’altro sul suo spirito già martoriato.
Uno, due,
tre colpi. Per un minuto, un’ora, un giorno intero.
Non sapeva
per quanto tempo era rimasto fermo lì, nella penombra di uno
scaffale come tanti, ad ascoltare e ricordare mentre calde lacrime gli
rigavano il viso pallido.
La morte di
Arthur.
Immagini
presero a susseguirsi rapide innanzi ai suoi occhi. Tentò di
serrarli, di coprire le orecchie per impedire che quelle parole
giungessero ancora a lui, che rievocassero quei ricordi troppo
dolorosi, ma era già tardi. Troppo tardi.
Un albero.
Il calore del
sole che riscaldava la sua pelle umida.
“Merlino,
che stai facendo?”
Un sorriso
beffardo.
E poi seta
rossa,
dorata.
Le acque calme
di un lago.
Nubi che si
trasformarono presto in burrasca.
Luce. I
riflessi di due spade che sferzavano l’una contro
l’altra.
“Excalibur.
La chiamerò così”.
Una barca che
solcava le onde.
Sangue.
Tanto sangue.
“Non
avresti potuto fare nulla”.
Tamburi
rimbombavano nella sua testa.
Pelle, liscia
ma forte sotto le sue dita,
sapore di
fragole,
suono di
trombe.
Un sorriso
arrogante e pieno d’amore come l’uomo di cui
adornava il viso.
Ancora luce ed
un dolore infinito.
“Lo
sai che ho amato soltanto te, vero?”
No, no, NO!
Perché? Perché, ora! Ora che aveva sperato di
essere divenuto vuoto, insensibile. Perché gli facevano
questo?!
Si
portò le mani al petto, lasciando cadere il suo cappotto al
suolo, tentando di fermare i singhiozzi che oramai gli mozzavano il
respiro. Merlino si accasciò contro una delle pareti
provando a fermare il pianto. Iniziò a colpire il muro
freddo ma era tutto inutile. Non sentiva più nulla. Solo
quella ferita lacerante che continuava a sanguinare da oltre mille anni
facendogli desiderare la morte, un secondo dopo l’altro, ma
da cui non avrebbe mai avuto pace.
Doveva
andare via da lì, doveva! Non avrebbe resistito un istante
in più.
Tutto ma
non quello. Non la sua morte ancora.
Era venuto
solo per avere un po’ di calore, per ritrovare quel legame
che non si era mai spezzato.
Perché
lo torturavano così?
Doveva
andare via… via!!!
Fuggì,
incurante dei sussurri dei passanti, facendosi strada tra la folla con
la forza. Loro non sapevano. Loro non capivano.
Fuggì
incurante della neve che aveva preso a cadere sempre più
forte, ammantando le vie con il suo freddo manto.
Fuggì
incurante di quello sguardo di tempesta carico di mille emozioni che
aveva seguito ogni suo passo.
C’era
solo il dolore che gli squarciava il petto e la solitudine che gli
mozzava il respiro.
C’era
solo quello in lui.
Solo lo
strazio di un’anima che per il mondo intero era muta.
Fuggire era
tutto ciò che gli restava, ma nessuna distanza lo avrebbe
separato da quei ricordi. Era impossibile.
Corse senza
sosta.
Cadde e si
rialzò, gli abiti zuppi.
Corse fino
ad accasciarsi su una panchina in un parco deserto. Una statua
immobile, rannicchiata su di un legno sbiadito. Il gelo
dell’inverno si era fatto più pressante ma nemmeno
la sua morsa serviva a riscuoterlo. Vestiva di una felpa oramai
fradicia, ghiacciata, ma nemmeno quella gli faceva provare anche
l’ombra di un’emozione.
Se ne
restava fermo lì, accovacciato col capo chino, tentando di
ricacciare indietro le grida che gli salivano dalla gola riarsa. Urla
di dolore contro un destino che non aveva mai voluto. Urla di disprezzo
per la sua stessa debolezza.
Ed,
intanto, quegli occhi di tempesta lo osservavano mesti. Lo avevano
cercato tanto. Così tanto.
Era
lì, a pochi passi.
Era
lì.
Basta, basta.
Era questo
il suo unico pensiero.
Non posso
più sopportarlo, non posso.
Merlino…
Merlino…
Qualcuno
stava mormorando il suo nome. Merlino.
Sentì
qualcosa di soffice posarsi sulle sue spalle. Una giacca calda troppo
grande per il suo corpo esile. L’ennesima fantasia. Non
poteva essere che qualcuno gli si fosse avvicinato senza che se ne
fosse accorto.
“Prenderai
freddo”. Una voce gentile e preoccupata.
Conosceva
quella voce. Si, la conosceva.
Ogni notte
tornava a tormentarlo nei suoi sogni, dandogli una falsa speranza per
poi strappargliela senza pietà alle prime luci
dell’alba. Sono
finalmente impazzito completamente da non distinguere più
tra realtà a finzione? È questo il mio limite?
Ma che
importanza aveva se era ancora uno dei suoi stupidi sogni ad occhi
aperti? Non gli restavano che quelli, soltanto quelli per sopportare un
altro respiro che lo avrebbe tenuto in quel mondo freddo.
Continuava
a tenere gli occhi chiusi, i pugni serrati in una morsa
d’acciaio. Anche quella era un’illusione, non
poteva essere altrimenti.
Sentì
una presenza accomodarsi al suo fianco immobile, in attesa, come
un’ombra gentile che vegliava su di lui.
Era questa
la pazzia? Questo il futuro che gli dei dell’Antico Culto gli
avevano riservato? La pazzia dopo un’eternità di
solitudine?
Sempre con
gli occhi stretti, piano piano iniziò ad aprire le mani, a
sfiorare la pelle scura della giacca che lo stava scaldando.
C’era davvero quella giacca. Non la stava immaginando.
Aveva un
buon odore quella giacca scura. Un odore di un tempo remoto.
No, non
solo un odore. Era un’esplosione di sensazioni che lo
colpirono in pieno, facendo sprizzare di energia e magia ogni sua
piccola cellula.
Era un
sapore antico, di spade.
Era
l’odore del sudore di un corpo pallido e perfetto che danzava
sul suo alla luce di una candela.
Era il
tocco gentile di una mano ruvida che lo faceva impazzire.
Era…
era… era…
Gli occhi
scuri gli si spalancarono per la sorpresa.
BUM BUM BUM
Il suo
cuore aveva preso a martellargli in petto con tutta la forza che
possedeva, tutta la forza del suo potere, rispondendo pronto ad un
richiamo che conosceva come nessuno mai.
Era
lui… era lui…
“Merlino…
tu idiota”.
Un
singulto. Uno soltanto mentre le membra s’irrigidivano e
tutto il suo corpo veniva scosso da tremori.
La bocca si
spalancò, affamata d’aria, incapace di alcun suono.
“Guardami,
Merlino”. Un ordine, una preghiera.
E Merlino
lo fece. Come avrebbe potuto disobbedire?
E tutto
ciò che poté vedere fu solo quel blu.
Il blu di
quello sguardo.
Un blu che
sapeva divenire tempesta quando confuso.
Un blu che
diveniva color del cielo quando si posava su di lui, Merlino.
Era
lì, reale.
Lui era tornato.
Era
tornato, come aveva desiderato tante e tante volte. Come aveva
desiderato in modo egoistico prima di tentare di convincersi quanto
fosse impossibile.
Capelli
biondi del colore dell’oro che incorniciavano in modo
scompigliato una pelle eterea, perfetta. Erano più lunghi
ora, tagliati in modo moderno, così come lo erano i suoi
vestiti.
Semplici
jeans scuri ed una pesante camicia rossa. Una sciarpa a scacchi gli
cingeva il collo sottile.
“Arthur…”.
Riuscì a mormorare.
Arthur,
Arthur, Arthur.
Non era
capace di pensare ad altro. La sua mente, tutto il suo essere, era come
svuotato.
C’era
solo quella parola che rimbombava con prepotenza in ogni sua parte
più piccola.
Arthur,
Arthur, Arthur.
Una mano
tremante si mosse lenta, cercando di avvicinarsi a quel volto che tanto
gli era mancato ma col terrore che se lo avesse sfiorato per un solo
istante, esso sarebbe scomparso.
“Arthur…”.
Lo
straniero prese quella mano tra le sue e la condusse sul suo volto,
scaldandola col calore della sua pelle. Era reale… era vivo.
Poi non ci
fu null’altro.
Occhi
azzurri che si rispecchiavano nei propri mentre tutto il mondo sembrava
risplendere di una luce nuova, calda e colorata con la forza di
infiniti arcobaleni.
Ora tutto
sarebbe andato a posto.
Ricordi di
un castello, di risate, di notti trascorse al chiarore delle stelle in
cui nulla importava se non i loro cuori si fecero strada in mezzo a
tutto quel dolore, spazzandolo via. Avevano un gusto nuovo, diverso.
Non
facevano più male. Non sanguinavano. Erano di nuovo completi.
“Finalmente
ti ho trovato, Merlino”.
Ed, infine,
anche quei ricordi si dissolsero, cancellati dalle braccia di Arthur
che lo stringevano. Il suo petto caldo sotto il suo viso, il battito
del suo cuore al cui suono tante notti si era addormentato.
In quel
momento, pianse Merlino. Pianse tutte le lacrime che aveva trattenuto
in quei lunghi secoli. Pianse tra le braccia del suo sogno
più remoto, dell’unico desiderio che nemmeno la
sua magia avrebbe mai potuto realizzare.
Ed Arthur
lo lasciò fare. Il tempo delle domande sarebbe venuto dopo.
Secondi,
minuti, ore.
Cose senza
alcun valore, irrilevanti.
Il mondo
avrebbe potuto finire in quell’istante e non avrebbe avuto
alcuna importanza. C’era solo quell’abbraccio. Solo
quello, il fulcro dell’intero universo.
Eppure
doveva sapere Merlino. Doveva. Non avrebbe sopportato di perderlo. Non
ora che si erano ritrovati.
Mai
più. Mai più senza Arthur.
Al diavolo
il destino, al diavolo il grande disegno.
Arthur,
Arthur, Arthur.
“Ma
come? Perché sei qui? Tu…”. Mille
domande, mille pensieri che si accavallavano l’uno
sull’altro senza che riuscisse ad esprimerne alcuno.
“Shh”.
Dolcemente Arthur gli posò un dito sulle labbra screpolate,
tracciandone quei contorni che conosceva bene ma di cui mai si sarebbe
stancato.
Merlino era
completamente rapito da quei movimenti ipnotici. Avrebbe fatto tutto
quello che Arthur gli avesse chiesto. Il come e il perché
non importava. Erano di nuovo insieme.
Il giovane
che un tempo lontano era stato Re di Camelot si chinò a
baciare quelle labbra che sapevano di lacrime, d’estate,
assaporandone il gusto lieve che lo aveva accompagnato nel suo lungo
sonno.
“Diciamo
che sono la tua scorta. Dall’altra parte, hanno visto quanto
il mio servo imbranato fosse perso senza il suo principe a salvarlo ad
ogni passo, così hanno pensato che era meglio mandarmi a
tenerti fuori dai guai”. Lo disse con la sua espressione
più arrogante, strizzando un occhio con fare complice che
ebbe l’effetto di far avvampare il povero mago.
Era Arthur,
era davvero Arthur. Quella era la prova inconfondibile.
“Stupido…
pomposo… idiota”. Ogni parola era scandita da un
colpo contro quel petto caldo da cui non si allontanava, non poteva
allontanarsi. Nuove lacrime gli rigarono il viso, ma stavolta era
diverso. Erano lacrime di gioia. Di una gioia infinita che non aveva
parole per descrivere.
Arthur lo
strinse ancora a sé, circondandolo con le sue forti braccia
mentre intorno a loro la neve aveva smesso di cadere lasciando spazio
solo per un bianco candido.
“La
dama del Lago mi permesso di scegliere, Merlino”.
Iniziò a raccontare con voce pacata, tranquilla.
“Continuare a dormire per poter essere di nuovo re un giorno,
oppure svegliarmi, rinascere e rinunciare ad un trono lontano per poter
vivere da vagabondo in un mondo che non sarà mai mio, al
fianco dell’unica persona importante per me. Non credo che ci
fosse molto da scegliere, idiota. Sono vent’anni che aspetto
questo momento”.
Ed era
vero. Dal giorno in cui era venuto di nuovo al mondo, per Arthur non
era esistito null’altro. Solo il ricordo di quel ragazzetto
imbranato con le orecchie un po’ troppo grandi ma che doveva
assolutamente ritrovare.
Quelle
parole gli fecero sollevare il capo di colpo. Arthur non aveva
potuto... il suo destino…
Ma il
principe, no il re, si limitò a scuotere la testa sollevando
i piccoli riccioli biondi, liberandoli dalla neve. Scosse il capo come
a leggere i mille dubbi che si affollavano in quella mente confusa.
Arthur gli sollevò il mento con un dito, costringendo il
povero mago a perdersi nel blu terso, infinito dei suoi occhi.
“Abbiamo
già dato tanto al destino, Merlino. È arrivato il
momento di essere un po’ egoisti per una volta”.
Non
c’era bisogno di dire altro. Eppure Arthur sentì
di dover mettere in chiaro una cosuccia.
“E
poi, da quello che so, una certa persona merita una bella ricompensa
per tutto il tempo trascorso da eremita”. Si
staccò dal mago a malapena, a malincuore, Merlino che
seguiva meccanicamente ogni suo più piccolo movimento, non
abbandonando mai la presa sulla sua camicia rossa. Arthur
allargò le braccia per mostrare la sua figura in una sorta
di strana dimostrazione. “Hai il coraggio di dire che non
sono un bel premio? Sul serio, Merlino, mi sento offeso”.
Prima che l’altro potesse perdersi in una delle sue solite
sviolinate da principe impossibile, il moro lo strinse ancora una
volta, nascondendo il riso in quel petto ampio.
Sembra un
gattino, si trovò a pensare Arthur, sentendo il volto del
suo piccolo imbranato strofinarsi contro la stoffa ruvida della sua
camicia quasi nell’accentuare l’idiozia di quelle
parole.
Restarono
così ancora per un po’ mentre la notte avanzava.
Arthur, infine, lo prese per mano incurante del freddo e del vento,
osservando con la coda dell’occhio quella figura esile che
aveva tanto amato racchiusa in una giacca scura troppo grande.
Conducendolo verso casa, dove si sarebbero scaldati innanzi ad un
camino acceso, l’uno tra le braccia dell’altro,
gustando il dolce sapore di una cioccolata calda e dei loro baci.
Le strade,
ora illuminate a festa, avevano ripreso ad affollarsi. Le persone
uscivano dalla libreria discutendo di tutto ciò che avevano
appreso, ignare del piccolo miracolo che si era compiuto a pochi passi
da loro.
I bambini
ridevano felici giocando con finte spade di cartone, impersonando ora
Arthur, ora Lancillotto, ora il saggio Merlino.
Il mago si
teneva stretto al suo Arthur beandosi della sua voce, del suo calore,
della sua presenza.
“Merlino…
tu pensi che dovremmo mai correggerli?” Gli
domandò d’un tratto il biondo.
“Chi?”
Chiese, sorpreso.
“Tutti
quanti. Tutte queste leggende su di noi e su Camelot. Tu: un vecchio e
saggio barbuto? Un valletto imbranato e impiccione, casomai”.
Terminò ridendo.
Anche quel
tono col quale lo derideva gli era mancato da morire. Insieme alle loro
scaramucce, un modo come un altro per dirsi ti amo.
“Beh,
che dire del prode Re Arthur”. Lo canzonò il mago
a sua volta. “Ti lusingano più di quanto meriti.
Mister-baciatemi-i-piedi-io-sono-il-re”. Contorse il viso in
una smorfia di finto disgusto. "Borioso, egocentrico e
vanesio”.
“Dimentichi
una cosa”. Gli fece notare.
“E
sarebbe?”. Era curioso.
“Che
questo re borioso, egocentrico e vanesio è perdutamente
innamorato del suo valletto imbranato ed impiccione”.
E, mentre
il viso di Merlino arrossiva al suono di quelle dolci parole che per
più di mille anni aveva sperato di poter udire nuovamente,
Arthur lo baciò ancora. Proprio lì, in mezzo ad
una strada qualunque coperta di neve.
“Buon
Natale, Merlino”.
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