A Beautiful lie
Il gioco degli scacchi
è lo sport
più violento che esista
Garry Kasparov
La tavola era un
orizzonte sterminato di caselle nere e bianche che si succedevano
all’infinito confondendo lo sguardo con vie tortuose e salti
impossibili.
Era la desolazione del
campo di battaglia al termine del giorno, dove il fragore della guerra
cedeva lo scettro a un silenzio assordante.
Il mestiere delle armi e
l’arte della strategia si arroccavano ai lati opposti di una
valle, due generali impotenti senza più un esercito con cui
combattere né uno da sconfiggere, l’uno che
scrutava l’altro al di là di un distesa di
cadaveri.
Metà dei
pezzi erano scomparsi, distrutti in un eccidio sistematico che si
ripeteva a ogni partita, all’infinito.
Ogni pezzo perduto gli
rammentava qualcosa che gli era stato sottratto. Dopo il terzo aveva
smesso di soffrire: tutto sprofondava nella pozza buia e informe che
dilagava tra le sue costole sotto strati di vestiti costosi, blasoni e
stemmi.
La scacchiera era il
pavimento di una stanza vuota e lui il trentatreesimo pezzo che non
aveva posto né scopo in alcuna casa.
Quando alzò
la testa da quel labirinto infinito di bianco e di nero e la vide ferma
vicino alla porta, i capelli scarmigliati e il mantello ancora indosso,
Draco Malfoy pensò che avrebbe dovuto aspettarsi di vederla
comparire proprio al termine della battaglia perché, in
fondo, ognuno ha un avversario ma per batterlo deve prima giocare
contro se stesso.
A Beautiful lie
[Bury me]
What if I wanted to
break
Laugh it all off in your
face
What would you do? (Oh,
oh)
Il suo avversario aveva
scelto il nero. Una cosa seccante, sicuramente voluta, quasi a privarlo
di quel colore che era la sua prerogativa in favore di un chiarore
insipido e senza alcuna sostanza.
Era una mossa prima dell’inizio del gioco: al bianco spettava
l’apertura. Un vantaggio, uno svantaggio. Lui poteva
attaccare e qualcuno sarebbe rimasto nelle retrovie per osservare e
decidere con calma, dietro un esercito di figure nere, tramando in
silenzio.
Così scelse un gambetto di Re.
Formulò la richiesta al pedone, indicandogli la casa in cui
avrebbe dovuto spostarsi e quello, una statua alta più di
lui, scivolò in avanti con un incedere pesante e gli
obbedì senza protestare.
La luce del tramonto pioveva sulla scacchiera stregata
dall’alto delle finestre a ogiva della Sala degli Scacchi,
l’oro di un pomeriggio troppo breve al principio
dell’autunno. Il mese di ottobre aveva teso le sue forbici
d’argento sul giorno, tagliando le ultime frange degli
immensi crepuscoli estivi, accorciandolo in un modo allo stesso tempo
dolce e insostenibile. Le ombre si allungavano dietro Alfieri, Cavalli
e Re, chiusi nelle loro corone e armature e nel silenzio di
quell’ala della Biblioteca, di solito poco frequentata.
Malfoy sollevò la bacchetta nel gesto automatico di ogni
mago per il quale essa rappresenta un semplice prolungamento del
proprio corpo – una terza mano, un sesto dito, tutta una
serie di deformità che la società dei Babbani
aveva cercato nei secoli di sterminare – e incantò
la scacchiera perché nessuno potesse modificarla.
L’avversario, con altrettanta riservatezza, avrebbe fatto la
sua mossa prima di congelarla a sua volta con un Incantesimo.
Per caso Madama Pince stava lavorando presso l’enorme
scrivania posta all’ingresso prima della porta a vetri.
Malfoy sentì il suo sguardo perforargli la schiena mentre la
superava.
«Signor Malfoy».
Lui si immobilizzò, le dita sospese sopra la maniglia
d’oro. Non rispose e si limitò a fissare il
proprio riflesso nel pannello di vetro della porta.
«I libri che avevi richiesto sono arrivati».
In un istante si vide scagliare il pugno contro la porta, una miriade
di frammenti volare tutto intorno, i tasselli di un mosaico scomporsi
una volta per tutte. Il castello di Hogwarts però era
avvezzo da secoli a ospitare la magia irrequieta
dell’adolescenza e gli ambienti vi si erano adattati in una
sorta di evoluzione spontanea: la vetrata sarebbe tornata subito al suo
posto in virtù di un antico incantesimo che
l’avrebbe riportata indietro nel tempo, in un momento in cui
era ancora intatta.
Lui avrebbe rivisto la sua immagine esattamente come gli appariva ora,
in ombra e stravolta dalla rabbia, con una scacchiera in fondo al
limitare campo visivo, simile a quei mostri notturni abituati a
spostarsi ogni qual volta si guardava nella loro direzione.
Lasciarsi andare alla rabbia avrebbe significato sanguinare inutilmente
ancora una volta, per qualcosa che si sarebbe ricomposto con
indifferenza senza curarsi di lui.
«Signor Malfoy».
«Sì, ho sentito».
Madama Pince mosse la bacchetta e senza accorgersene lui si
ritrovò a fissare gli scarti dei suoi desideri.
«Sono arrivati dalla Francia ieri sera, ho chiesto al Signor
Nott di riferirtelo, non lo ha fatto?».
Theodore Nott.
Tieni i tuoi amici vicini.
«Madame Deshayes è uno dei migliori Pozionisti del
mondo, i suoi testi saranno sicuramente illuminanti».
L’accento di contrarietà nella voce di Madama
Pince non era certo frutto della sua immaginazione, né era
un mistero che lui quei libri non li avrebbe mai potuti nemmeno
nominare senza la potente intercessione del Professor Piton. Il Capo di
Slytherin aveva scritto di suo pugno richieste e raccomandazioni,
nonché una lunga lettera partita alla volta di Beauxbatons
munita del suo sigillo nero, indirizzata alla collega che –
nelle loro previsioni – avrebbe dovuto prendersi cura di
Malfoy durante un semestre di studi all’estero.
Quei libri erano solo un’anticipazione di quando avrebbe
avuto il favore e gli insegnamenti del secondo più grande
esperto di Pozioni del Mondo Magico, talmente brava e dalla fama
talmente sinistra che i suoi artefatti e le sue pubblicazioni erano
state più volte al vaglio del Ministero della Magia Inglese
prima di poter varcare la soglia ideali tra le loro nazioni.
«Li prendi o li rimando indietro?».
Malfoy non batté ciglio. «Posso tornare domani.
Adesso sono in ritardo per la cena».
Erano inutili ormai, lo sapevano entrambi. Il primo posto nella
graduatoria dei candidati al semestre in Francia apparteneva a Hermione
Granger prima ancora che si parlasse del progetto di scambio
studentesco; il secondo avrebbe dovuto essere suo.
«Come vuoi», Madama Pince lo guardò da
dietro gli occhiali tondi in un modo che gli ricordò
Silente. Poteva essere soltanto una sua impressione –
paranoia Slytherin, che da secoli salvava carriere e patrimoni
– ma gli parve che ci fosse riprovazione in quello sguardo,
appena più marcata rispetto alla solita di cui lo omaggiava
ogni normale avanzo del Gryffindor.
«Aspetterò ancora un poco prima di chiudere per la
notte».
L’osservazione non era casuale e lo sguardo della donna corse
con intenzione alla scacchiera. Inconcepibile che a lui non
interessasse guardare in faccia il suo antagonista,
un’indicazione di codardia o di un calcolo incomprensibile e,
verso il quale, per questo, essere diffidenti.
Draco annuì, apprestandosi ad andare. «Si
perderà il pudding».
Non era necessario guardarsi negli occhi, né una sfida
privata aveva bisogno di spettatori. I testimoni si riservavano ad
altro genere di esecuzioni.
Madama Pince dall’alto dei suoi anni e dei suoi libri avrebbe
dovuto saperlo che ogni sfida tocca sempre i tre vertici di un
triangolo imperfetto, ognuno ha un avversario ma, per batterlo, per
prima cosa gioca contro se stesso.
****
What if I fell to the
floor
Couldn't take all this
anymore
What would you do, do,
do?
«Dov’eri?
Siamo in ritardo». Theodore Nott gli si affiancò
quando già le porte della Sala Grande incorniciavano il
quadro della cena serale. «Speriamo che Tiger non abbia
finito tutto il pudding».
Draco Malfoy mantenne un’espressione neutra.
Non c’era necessità che Nott lo aspettasse ma in
quel caso avrebbe perso un’occasione per lamentarsi e
sottilmente sottolineare che qualcosa era colpa sua.
«Madama Pince ti aveva detto qualcosa a proposito di libri
che avevo richiesto?».
Nott finse di pensarci su.
Naturalmente.
Tieni i tuoi nemici ancora più vicini.
«Ha detto qualcosa, ma non ti saprei dire cosa. E poi tu quei
libri non eri nemmeno sicuro di volerli. Sapevi quanto tempo ci
avrebbero impiegato ad arrivare e tu avevi paura di trovarteli davanti
quando non ti sarebbero serviti perché il secondo posto per
Beauxbatons era andato a qualcun altro. Come è
stato».
Nott era quel tipo di persona della quale potevi essere certo che
avrebbe usato i tuoi momenti di debolezza rinfacciandoteli al momento
opportuno - a muso duro o con fare comprensivo, Salazar solo sapeva
cosa fosse peggio - e, in generale, il confidente che ti faceva
rimpiangere di non esserti sfogato con una delle bestie di Hagrid i cui
artigli, almeno, erano bene in vista dal primo momento.
Dopo sette anni però il danno era fatto e non più
rimediabile. Nott sapeva tutto di lui – come aveva
imbrogliato a una prova di Incantesimi, il modo esatto in cui suo padre
aveva proposto alla squadra di Slytherin l’acquisto delle
nuove scope per procurargli il ruolo di Cercatore - per questo era il
suo migliore amico. L’alternativa sarebbe stata avvelenarlo e
non aveva ancora deciso come farlo passare per un incidente.
Per un meraviglioso istinto di sopravvivenza non gli aveva mai rivelato
un’unica cosa. Era stato sul punto di farlo, a volte, quando
aveva visto Blaise Zabini e Pansy Parkinson diventare migliori amici e
le notti sfioravano l’alba davanti a una bottiglia di Ogden
Stravecchio e certe scaglie di drago essiccate che, aggiunte alle
sigarette, potevano sciogliere la lingua. Qualcosa, però, lo
aveva sempre trattenuto. Conosceva senza vederla, per averla ascoltata
mille volte, quale sarebbe stata la sua reazione: la coinvolta
compassione (solo un altro riflesso del disprezzo) con cui
ridimensionava ogni sua aspirazione, che fosse la Coppa del Quidditch o
il Premio di Trasfigurazione.
Nott sembrava prendere come un affronto personale ogniqualvolta lui
tentasse di uscire dall’asfittico, soffocante recinto in cui
la sua opinione lo aveva rinchiuso.
«I Gryffindor stanno festeggiando», disse Nott,
come dando conferma a quel pensiero. «Che gentaglia. Meno
male che non hai mai guardato al di là del tavolo di
Ravenclaw».
Lo sguardo di superiorità che Nott lanciò a
quelli di Hufflepuff era esemplare. Due ragazze con le insegne gialle e
nere sul mantello che stavano chiacchierando accanto al loro tavolo si
fecero da parte per permettere loro di passare. Era un gesto dovuto a
una spontanea cortesia, accompagnato anche da un sorriso fuggevole e
impersonale. Nott rise loro in faccia.
Draco Malfoy scavalcò una panca al tavolo di Slytherin
sollevato, in cuor suo, che Nott avesse trovato posto soltanto dalla
parte opposta. Si tirò indietro e, opportunamente nascosto
dietro la mole di Goyle, azzardò uno sguardo verso il
Gryffindor.
Come break me down
Bury me, bury me
I am finished with you
Caraffe di succo di
zucca volavano da un’estremità all’altra
del tavolo sotto lo sguardo affascinato delle matricole incapaci anche
a formulare il più semplice Incantesimo di Levitazione. Chi
muoveva le stoviglie con un cenno distratto della bacchetta –
l’attenzione assorbita da Potter che parlava a raffica
– era naturalmente la Granger, la cui immensa competenza era
ormai sancita dall’aura d’oro che circondava il suo
nome al primo posto della graduatoria che indicava gli assegnatari dei
posti per il semestre di studi alla Beauxbatons Academy.
Adesso stava prendendo in giro Ron Weasley per il suo pessimo francese,
lei che lo parlava con una splendida fluidità.
«Ron», gli sembrava di sentirla. «Adesso
sarai costretto ad impararlo. Non tengono lezioni in inglese a
Beauxbatons».
Draco Malfoy si era immerso nello studio con un impegno che rasentava
l’ossessione, aveva dato tutto con la fredda, calcolata
passione di cui era capace; il Professor Piton aveva scritto favolose
lettere di raccomandazione, suo padre aveva promesso a Madame Maxime
una nuova ala per la loro Biblioteca e di ingaggiare un coro di dodici
Ninfe Marine per festeggiare il loro Natale.
Non era servito. Il secondo posto era andato a Ron Weasley
perché, si era deciso, almeno uno tra quelli disponibili
doveva essere attribuito a uno studente con una borsa di studio.
Questione di correttezza e democrazia e pari opportunità,
né era importato a nessuno che metà delle prove
richieste per essere ammessi Weasley le avesse superate per divina
intercessione di San Potter e per il micidiale indottrinamento della
Granger.
Adesso avrebbero trascorso sei mesi in Francia, da soli.
Draco Malfoy allontanò il piatto con una mossa brusca.
L’ultima porzione di pudding, salvata da Tiger in extremis,
giaceva intatta accanto a una montagna di patate.
«È il pudding? Non ho fatto in tempo a prenderlo.
Era finito tutto». Theodore Nott comparve
all’improvviso con lo sguardo fisso nel piatto di Malfoy, poi
vi gettò sopra il tovagliolo sporco che aveva in mano.
«Tanto faceva schifo. Non avresti dovuto mangiarlo
comunque».
****
What if I wanted to fight
Beg for the rest of my
life
What would you do?
Gli Scacchi Magici di
per sé erano complicati: se non concordavano con la
strategia scelta dal mago potevano iniziare a creare questioni a non
finire. Domarli era difficile, era necessaria una mente fredda e una
mano salda. Inoltre Il suo avversario era il migliore di Hogwarts.
Della bravura di Ron Weasley si favoleggiava già
dal primo anno quando, appena matricola, aveva battuto la Scacchiera
Magica della Professoressa McGranitt, la cui riproduzione si trovava
nella Biblioteca di Hogwarts a disposizione di chiunque volesse
cimentarsi.
Era una sfida ardua: Scacchi creati da una leggenda della
Trasfigurazione, dotati di una volontà di ferro e di una
solida conoscenza delle regole. Gli Scacchi Magici usati a Slytherin
erano dotati di una mentalità più elastica:
nessuno si stupiva se un alfiere falciava le gambe del cavallo e i due
Re erano capaci di affiancarsi e tramare in un armistizio impossibile;
non era neppure inusuale vederne uno mandare a morte tutto il suo
esercito, accordandosi in segreto per avere salva la vita.
Sì, giocare con Slytherin era più semplice: la
guerra come alla guerra era qualcosa che Malfoy poteva capire.
Quando invece entrò nella Sala degli Scacchi vide la
scacchiera nel caos. L’Alfiere e il Cavallo dei Neri
discutevano ad alta voce, i pedoni si agitavano, gettandosi occhiate
dubbiose. Un pesante sospiro della Regina li richiamò
all’ordine, nell’istante stesso in cui lui varcava
il confine della scacchiera posizionandosi tra le sue pedine. Con
l’esercito bianco alle spalle, Malfoy osservò i
Neri acquietarsi: ognuno raggiunse la sua casa e lì si
fermò mentre lui, con calma, si muoveva lungo il perimetro
per decidere la propria mossa. Scelse di arroccarsi. Ordinò
al Re di muoversi e dopo fece altrettanto con la Torre. Quando da tutte
e angolazioni gli parve che la situazione fosse sotto controllo,
rinfoderò la bacchetta e si voltò per andarsene.
Fu solo un guizzo, un movimento impercettibile che lo costrinse a
girarsi. La Regina Nera lo stava guardando: aveva ruotato, silenziosa,
sul proprio asse e adesso il suo volto impassibile era rivolvo verso di
lui. Nel mondo bianco e nero che si estendeva i suoi piedi, Malfoy
scorse una traccia di colore spento. Si avvicinò e scorse
accanto all’orlo della veste regale un bocciolo di rosa secco
e avvizzito che si chinò a raccogliere, incuriosito.
You
say you wanted more
What are you waiting for
I'm not running from you
La porta della sala si
socchiuse, portando con sé un’ondata di freddo e
un profumo leggero. Ancora un tremolio impercettibile
increspò l’aria ma dopo un poco Malfoy si convinse
di essere solo e uscì dalla Sala degli Scacchi per andare a
curiosare intorno alla Sezione Proibita.
Dopo essere riuscito a farsi cacciare in malo modo da Madama Pince, si
ritrovò in una delle sale studio alla ricerca di qualche
faccia familiare e di qualcuno con cui andare ad allenarsi a Quidditch,
invece trovò una tavolata di Gryffindor intenta a sbucciare
arance e a fare in comunità i compiti di Antiche Rune.
«Ognuno traduce una frase», annunciò
Dean Thomas con aria autorevole. «Poi le uniamo».
Neville Paciock alzò una mano. «Io ho
l’ultima, come faccio a capire se non so cosa viene
prima?».
Thomas perse tempo a rispondere e fu bersagliato da una gragnola di
bucce d’arancia. A un’estremità del
tavolo, Harry Potter e Ron Weasley stavano facendo lezione di francese.
Weasley leggeva ad alta voce le frasi da un libro elementare con un
accento languido ed esagerato nella sua migliore imitazione di Fleur
Delacour.
«Mi serve per ameliorare
il mio franscese».
Harry Potter era piegato sul tavolo con gli occhiali di traverso e
rideva come un deficiente. Weasley si schiarì la voce e si
alzò, posò un piede sulla panca e
cominciò a declamare tutta una scena della Sorcière
Marie che prendeva la bacchetta da sopra il table e incantava
le rose accanto alla fenêtre.
«Nessuno ha imparato l’Incantesimo di
Traduzione?», domandò Thomas.
«È vietato dal regolamento»,
esclamò una voce femminile.
Le bucce d’arancia volarono immediatamente nel cestino della
carta straccia, Ron Weasley smise di blaterare e Neville Paciock
alzò uno sguardo adorante sulla nuova arrivata.
«Ron, il tuo accento è orribile», disse
Hermione Granger in tono altezzoso, lasciando cadere la borsa dei libri
ai piedi di una sedia. Stava per aggiungere qualcosa quando il suo
sguardo si posò su Malfoy, ancora immobile accanto alla
porta sul lato opposto della stanza, scivolò lungo la sua
persona fino a fissarsi sulle sue mani. Gli occhi scuri si dilatarono
appena, Paciock le disse qualcosa che parve sfuggirle.
Malfoy si guardò le dita e vide che il bocciolo secco aveva
assunto la forma di una piccola rosa rossa e selvatica, petali carnosi
e adesso vivi e colorati da cui si sprigionava un lieve profumo. Aveva
dimenticato di averla con sé e, sorpreso, la
lasciò cadere per terra.
Quando guardò di nuovo in direzione dei Gryffindor, la
Granger aveva preso il tomo di Antiche Rune e stava spiegando qualcosa
a Paciock senza prestargli più alcuna attenzione.
(From you)
****
Come break me down
Bury me, bury me
I am finished with you
«Ciao».
«Pansy, questo è il bagno dei maschi».
«Sto aspettando Blaise, facciamo sempre due chiacchiere
mentre lui fa il bagno».
Malfoy non commentò, si limitò a controllare che
il nodo dell’accappatoio non fosse troppo lento.
«Sai che pensavo l’altro giorno?»,
continuò lei senza prestare alcuna importanza al riflesso
cupo nello specchio appannato dal vapore della doccia. «Che
è passato un sacco di tempo dall’ultima volta che
abbiamo fatto qualcosa insieme».
Draco si scompigliò i capelli bagnati deciso a non darle
alcuna importanza.
«Potremmo andare a bere qualcosa da Madama Rosmerta, il
prossimo fine settimana, così ci aggiorniamo su un
po’ di cose. Non mi racconti più niente».
Lui si strinse nelle spalle e si passò una mano sul mento,
indeciso se radersi o meno. «Non c’è
niente da dire, Pans».
Con un movimento circolare della bacchetta si depose un ricciolo di
schiuma densa sul palmo della mano, poi iniziò a spalmarla
sul mento e sulle mandibole.
Con un sorriso amichevole, Pansy saltò a sedere sul ripiano
dei lavandini. «Davvero? Carina quella cosa della rosa,
invece».
«Non ho assolutamente idea di cosa tu stia
parlando».
«Secondo me sì, invece. Una rosa, tu e la Granger
che vi guardate in sala studio».
La mano di Malfoy era ferma mentre passava la lama del rasoio proprio
sopra la vena del collo, il suo sguardo era del tutto indifferente.
«Quel fiore secco che ho trovato in Biblioteca».
«Non te lo ha dato lei?».
«Tu sei fuori di testa».
«Meglio così. Lasciami essere chiara per il tuo
bene», disse lei, in tono gentile. «Tu non sei
Potter. È meglio se guardi un po’ più
in basso».
«Come verso di te?».
«Non volevo offenderti», Pansy sollevò
entrambe le mani. «Non c’è niente di
personale ma non è a quelli come te che vanno la Coppa delle
Case, quella del Quidditch e certe ragazze».
Draco Malfoy fissò con intensità la propria
faccia nello specchio, dopo si sollevò un ciuffo biondo
dalla fronte. «Niente stupida cicatrice, genitori vivi e
vegeti, … no, non sono Potter».
Intercettò lo sguardo di Blaise Zabini nello specchio ed
entrambi scoppiarono in una grassa risata. L’espressione
cortese sul volto di Pansy si sgretolò, mostrando un lampo
di rabbia negli occhi neri.
«Portati via questa stordita», disse Malfoy rivolto
a Zabini, in tono leggero. «Prima che mi tagliuzzi la faccia
a forza di ridere».
«Andiamo a fumare», disse Zabini. La Parkinson
uscì senza aggiungere altro, limitandosi a sbattersi la
porta alle spalle. L’altro la seguì e Malfoy
rimase di nuovo solo.
Look
in my eyes
You’re killing me, killing me
All I wanted was you
Nel silenzio nato dalla
risata interrotta, sospeso come vapore, aspro come il profumo del
limone e della paura, si guardò nella cornice dello specchio
e abbassò la mano che teneva il rasoio e che, adesso,
tremava senza freno. Perse la presa sul manico e un rivolo di sangue
sbocciò al lato del pollice, gocciolando sulla porcellana
immacolata e fredda del lavandino.
****
I tried to be someone
else
But nothing seemed to
change
I know now, this is who
I really am inside.
Una settimana dopo la
Regina Nera teneva sotto scacco il suo Re.
La pioggia batteva contro i vetri con furia divina. Rivoli
d’ombra scorrevano come acqua scura sui profili delle pedine,
profili alti e muti nella semioscurità della Sala degli
Scacchi.
Studiò a lungo la scacchiera. Accecato dalla rabbia dovette
compiere il giro del perimetro ben quattro volte prima di comprendere
l’origine del disastro. La facilità con cui il suo
avversario aveva approfittato di un fianco scoperto, la perfezione con
cui lui aveva costruito la sua difesa lasciando però libero
un unico lato. Lui aveva previsto migliaia di mosse e contromosse,
giocato centinaia di partite nella sua testa e non aveva previsto la
semplicità.
Non apparteneva alla sua natura: lo disorientava al limite
dell’odio, quell’ostilità e diffidenza
che solo il diverso e l’arcano possono suscitare, la gente
per cui tutto era lineare e che poteva arrivare, casa dopo casa, a
toccare un obiettivo quando lui non era nemmeno in grado di concepire
qualcosa che non fosse indiretto e tortuoso – girare intorno
a un disegno così ampio che una mente qualsiasi non avrebbe
potuto nemmeno abbracciarlo, né con i passi obliqui
dell’Alfiere né con i salti del Cavallo.
Ordinò al Re di spostarsi, con una fredda collera che
stroncò sul nascere qualsiasi protesta, solo un brusio
metallico, simile a uno sciame di api meccaniche, si diffuse dietro le
celate degli elmi. I finimenti di un Cavallo tintinnarono, una Torre si
schiarì leggermente la voce.
«Silenzio», tuonò lui. «Oppure
vi distruggo, tutti quanti».
Fu andandosene che vide l’errore,
quell’imperdonabile distrazione che arriva solo alla fine di
lunghi ragionamenti. Nel riflesso del pannello di vetro della porta,
tra rivoli di acqua scura, nel bagliore di un lampo che, quasi un
minuto dopo, ebbe la sua eco in un tuono lontano.
Tanto valeva ordinare al Re di arrendersi.
Con un cenno distratto della mano e senza neppure voltarsi,
impartì il comando e il Re Bianco, con un gesto rabbioso ma
non privo di rispetto, si piegò su un ginocchio, davanti
alla Regina Nera.
Draco Malfoy studiò la scena nello specchio della vetrata e
si impose di tacere. Mettersi a urlare e inveire davanti a una platea
di scacchi non aveva senso e lui nella sua vita aveva fatto mille cose
stupide ma mai una inutile.
Al tuono successivo però qualcosa prese il sopravvento e,
prima di averne coscienza, si vide scagliare il pugno contro la
vetrata, avvertì il gelo delle schegge e il caldo del sangue
quando la pelle si squarciò. Poi, mentre il pannello si
ricomponeva, i frammenti che per magia si ricomponevano tornando
indietro nel tempo, lui vide un volto nel riflesso così come
il vetro lo aveva catturato qualche ora prima quando era ancora integro.
Il suo avversario si girò per contemplare a lungo il Re
Bianco e, infine, gli sfiorò un braccio come a chiedergli
scusa prima di ordinare alla propria Regina di terminare il massacro.
Finally found myself
Fighting for a chance.
I know now, this is who
I really am.
****
Sentì alle
spalle dei passi che riconobbe all’istante. Impossibile
confondersi: ogni volta si sentiva strisciare la sua presenza
sottopelle. Intossicante, riempiva l’aria del corridoio
deserto simile al profumo di certi oleandri investiti dal sole, un
veleno comune che allungava dietro di sé le ombre di
un’estate indiana.
La sua partenza per Beauxbatons era fissata per l’indomani
mattina, una carrozza azzurra si sarebbe fermata davanti
all’ingresso del Castello e ci sarebbero stati
un’infinità di abbracci, saluti, il Preside
Silente e la Professoressa McGranitt composti e commossi; promesse di
cartoline, lettere e cioccolatini, bisou e au revoir.
Non era così che doveva andare.
Per lui avrebbe dovuto inventare bugie da raccontare ai suoi amici e
tenuto segreti da non condividere con nessun altro. In un luogo
nascosto sui Pirenei, avrebbero dovuto guardare una luna francese
attraverso fronde di alberi, abbracciati in un letto a baldacchino.
Quando lo superò per pararglisi davanti e sbarrargli la
strada, Draco Malfoy scartò di lato senza mutare espressione
e si allontanò.
«Malfoy».
Era la prima volta che sentiva il suo nome su quelle labbra senza gelo
né rimprovero.
Si fermò, attese che quei passi lo raggiungessero di nuovo,
che gli girassero intorno.
Avrebbe dovuto chiedere che cosa voleva oppure ordinarle di togliersi
di torno, invece gli uscirono dalla bocca solo due parole.
«Eri tu».
Hermione Granger incrociò le braccia sul seno e socchiuse
gli occhi. «Non mi sbagliavo, eri convinto di giocare con
Ron».
«Non sapevo che giocassi a scacchi. Pensavo fosse stato
Weasley a sfidarmi».
«Ho letto dei libri», gli rispose, quasi scocciata,
come se non avesse importanza.
«Come ti pare, Mezzosangue. Hai vinto. Ora vattene».
Anche davanti a quell’insulto spregevole il volto di lei non
perse colore. Aveva le guance accese, gli occhi brillanti.
«Ho vinto perché ti sei distratto. Sei un bravo
giocatore, Malfoy».
«Ti direi cosa puoi fartene dei tuoi complimenti ma in fondo
sono un gentiluomo, e se adesso vuoi scusarmi …».
Si mosse verso destra, lei a sinistra, simile a una figura speculare di
nuovo gli sbarrò il passo.
«Non ho finito».
Lui le rivolse uno sguardo esasperato. «Io sì. Vai
a vantarti con Potter o vattene al diavolo, fa’ un
po’ tu, per quanto mi può importare».
«Invece ti importa». Hermione Granger si interruppe
e, se fosse stata un’altra, lui avrebbe giurato che sotto il
suo sguardo sprezzante sarebbe fuggita in lacrime. «Ho notato
che mi guardavi. Prima non capivo, adesso sì»,
terminò lei e la sua voce non era disgustata o soddisfatta,
era soltanto melodiosa.
«Tu sei pazza», fece un passo verso di lei, il
sorriso congelato sulla faccia. «Adesso togliti di torno, per
cortesia. In un altro momento adorerei vedere come ti rendi ridicola ma
al momento ne ho abbastanza di te».
«Domani andrò via».
C’era qualcosa nella sua voce, un’incrinatura
– ansia, incertezza – che lo inchiodò a
terra e quella fu la sua rovina.
«Te ne ricordi?», domandò lei.
Adesso aveva sotto gli occhi una rosa, quel piccolo bocciolo avvizzito
che lui aveva raccolto dai piedi della Regina Nera e che, inaspettato,
gli era sboccato tra le dita. Era ancora viva, petali spessi, un
profumo dolce.
«È così da sei giorni, senza avere
avuto neppure una goccia d’acqua», disse lei.
Come break me down
Bury me, bury me
I am finished with you,
you, you.
Sei giorni
senz’acqua, sei mesi senza incontrarla.
«Non ho idea di cosa tu stia dicendo» rispose lui
e, mentre lo faceva, ricordò di avere detto la stessa cosa a
Pansy e allora capì.
«Ma brava la signorina Gryffindor»,
esclamò, gelido. «Tutto quel tempo a pontificare
contro la magia oscura e alla prima occasione utile utilizza un
manufatto di dubbia classificazione».
Hermione Granger ebbe la decenza di arrossire. Una vampata che le
accese un nugolo di lentiggini sul naso e le oscurò lo
sguardo di un affascinante disappunto.
«Non si tratta di Magia Nera», disse, altezzosa.
«Secondo il Paragrafo quarto del Regolamento Ministeriale
numero ...».
«Vogliamo raccontarlo alla Professoressa
McGranitt?», la interruppe lui. «Oppure a Madama
Pince chiedendole come le sia saltato in mente di inserire la formula
nel Reparto Proibito? Tra l’altro potrei anche chiederti come
sei riuscita a trafugarla, ma è inutile fare queste domande
su un Gryffindor, vero?». Aveva pronunciato quella parola
come un insulto e adesso stava quasi urlando.
«Una Rosa di Sangue non può mentire»,
sussurrò lei. «Proprio tu. Non lo avrei creduto
possibile».
«Avrai sbagliato qualcosa nella formula, Granger»,
sibilò lui. Si voltò verso la parete e vi
picchiò il pugno lasciando una traccia rossastra di sangue.
«La tua mano… », cominciò lei.
Malfoy voltò la testa e si allontanò di un passo.
«Non è niente, non ti riguarda».
«Non ho commesso errori», disse lei.
«L’Incantesimo era eseguito alla perfezione: se tu
non avessi provato nulla per me quella rosa sarebbe rimasta
così com’era, invece il tuo tocco l’ha
ravvivata. Non solo è sbocciata: è fiorita e da
quasi una settimana è viva e bella senza una sola goccia
d’acqua».
Malfoy abbassò gli occhi sul fiore.
«C’è il tuo sangue lì
dentro».
Lei annuì. «Ed è cresciuta esposta alle
tue emozioni e alla tua passione».
«La Sala degli Scacchi», proferì lui,
lentamente. «Ecco il perché di quella sfida
anonima». Lasciò ricadere le braccia lungo i
fianchi e indietreggiò fino ad appoggiare le spalle al muro.
Look in my eyes
You're killing me,
killing me
All I wanted was you
«Se lo
racconti in giro nessuno ti crederà», disse.
Hermione Granger gli rivolse uno sguardo determinato. «Non lo
farò».
Segreti che avrebbero diviso loro soltanto.
«Non hai detto a Potter e Weasley della sfida?».
«No. Ho detto loro che in Biblioteca volevo studiare, da
sola».
Per lui avrebbe mentito.
Lei si avvicinò di un passo. «Domani
partirò».
(Sei mesi
senz’acqua, sei mesi senz’aria).
Una mano cercò la sua toccando la sua pelle offesa e il suo
sangue, schegge di vetro nella carne e nel cuore. Esterrefatto
guardò dita gentili intrecciarsi alle sue senza trovare la
forza di respingerle.
«Tu sei sbagliata», disse lui, sottovoce.
«Sei innamorato di me?».
Draco Malfoy non aveva risposto e solo così era riuscito a
sottrarle l’ultima parola, quella per cui aveva lottato e che
alla fine gli era rimasta incastrata in bocca
(Veleno dietro
l’aspetto ingannevole del miele, tanto amaro da sfigurargli
il viso in una smorfia)
come l’esca di una trappola per topi che si chiudeva sopra la
sua testa.
Aveva distolto lo sguardo, la mano stretta nella sua al punto che le
loro ossa sembravano fondersi.
«Per ora mi basta», sussurrò lei.
L’indomani, quando si svegliò, era già
partita.
Il giorno successivo arrivò il primo gufo, sulla pergamena
era disegnata una scacchiera dove il bianco aveva già fatto
la prima mossa.
****
Come
break me down (bury me, bury me)
Break me down (bury me, bury me)
Break me down (bury me, bury me)
L’abitudine di contemplarne la sua mancanza era radicata al
punto che quando la vide di fronte a sé, nel buio della Sala
degli Scacchi, rimase impietrito.
Nella semioscurità di un’unica candela, la vide
farsi largo tra il Cavallo e l’Alfiere che si tirarono di
lato, con aria scontenta.
(You say you wanted more)
What if I wanted to break...?
(What are you waiting for?)
Il vuoto aveva riempito le sue ore come nulla avrebbe potuto
– il senso di una risata fuggevole, una voce che echeggiava
in un’aula, uno sguardo rivolto a qualcun altro che lui aveva
preso per sé; riccioli castani che sparivano dietro una
svolta del corridoio regalandogli un altro momento di illusione.
L’assenza non era qualcosa da plasmare a suo piacimento:
troppo sottile per poterla controllare o, al contrario, poteva dilagare
riempiendogli le costole fino a soffocarlo, prendendo il posto di cuore
e fegato e respiro fino a lasciarlo sopra il letto, a sopportare senza
speranza.
Però a giorni alterni arrivava una lettera dalla Francia,
una scacchiera su cui annotare le sue mosse. A volte la completavano
brevi commenti, altre la formula di una pozione insolita. Allora
riprendeva respirare e si chiedeva se per lei fosse lo stesso.
Bury me, bury me
(I'm not running from you)
What if I
«Sei tornata».
«In questo momento, con una Passaporta da Parigi. Non ho
nemmeno tolto i vestiti del viaggio». Lei batté le
palpebre e si guardò intorno. «Non eri in Sala
Grande. Speravo di trovarti qui, ma non osavo credere che sarebbe
accaduto davvero».
«Perché sei venuta a cercarmi, Granger?».
«Ti ho fatto una domanda l’ultima volta che ci
siamo parlati. Aspetto una risposta da sei mesi, non volevo rinviare un
minuto di più».
Lui non parlò, si limitò a tenderle un braccio,
con una risolutezza a cui sarebbe stato inutile tentare di opporsi.
Combattere ancora avrebbe significato perdere l’unica cosa
che l’aveva sconfitto.
(Nemmeno per la prima volta)
come in ogni istante in cui i suoi pensieri si posavano su
ciò che sapeva non avrebbe mai potuto avere.
Il suo sguardo, il suo amore, il disgelo nelle sue mani se
l’avesse toccata ancora.
Un momento dopo lei era contro il suo petto, le mani aggrappate al
bavero del suo mantello. La sentì trattenere il fiato di
colpo e capì di averla serrata nell’abbraccio
implacabile che albergava, oscuro e bisognoso, nei recessi
più incontrollati della sua anima.
«Hai continuato a giocare», disse lei, con un filo
di voce incerta.
«Ogni giorno, contro me stesso».
Gli rispose un sorriso ansioso. «E chi ha vinto?».
Draco Malfoy inghiottì una risposta, un pezzo di vetro che
gli avrebbe lasciato quelle parole in bocca nelle sembianze di una
cicatrice che non sarebbe guarita mai più. Chinò
il capo per appoggiarle la fronte sopra la testa e, infine,
esalò un sospiro stanco.
«Tu. Hai vinto tu».
What if I
What if I
What if I
Bury me, bury me
30 Seconds to Mars, The Kill
*********
Maybe
Per tutto, come sempre
Buon compleanno, Draco Malfoy.
Prego gli esperti di scacchi di non volermene per qualche errore e spero di essermi ricordata di non deformare tutta la pagina del sito!
Questa storia la dedico a chi avrà capito da sé e
a chi continua con pazienza e affetto a seguirmi da sempre. Apro sempre
la mia pagina di EFP dove si trova una delle parti più
importanti della mia vita. Vi ringrazio sempre per i commenti, per i
messaggi, per gli incoraggiamenti. Ciò che ho conosciuto su
questo sito e tramite voi – molti, ormai, amici da anni
– è inestimabile e prezioso, in un modo che non
riesco neppure a descrivere.
Come sempre, scrivere per voi è stato un onore.
Savannah
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