(LEO)
“El
tò muruus el gira el muund in barca a vela
e me sun mai naa foe de sto giardén
me sunt un fiuur che anziché verdess el se
sàra
e di mè röös i henn restaa lé
dumà i spénn"
(Davide van de Sfroos)
Non mi
interessa chi sei, non mi interessa della tenda e nemmeno della
fontana, aveva pensato Calypso quando aveva guardato quel tizio tutto
pelle e ossa (Leo) che sudava intorno a non si sa bene cosa.
L’unico motivo per cui gli faceva portare da mangiare era che
sul serio era pelle e ossa, e sudava, tanto che l’aria
intorno a lui sembrava riverberare come se fosse fatto di fuoco, e
Calypso aveva paura che di quel passo sarebbe diventato un cadavere
vivente.
Almeno non
aveva paura di innamorarsi di lui.
Il primo ad
arrivare era stato Ulisse. L’ultimo Percy.
Ulisse era
stato sbattuto lì da Poseidone, Percy era il figlio di
Poseidone, e in comune non avevano un bel niente. Nemmeno
l’età, uno era un uomo fatto, un sovrano, aveva
combattuto sotto le porte Scee, l’altro era un ragazzino, uno
che andava a scuola, e aveva iniziato a combattere da troppo poco
tempo. Uno era astuto, arguto, affabulatore, l’altro era
trasparente come il mare delle isole greche. Uno l’aveva
amato per tanto tempo, fino a conoscerlo come un compagno, con
familiarità, l’altro non l’aveva neppure
baciato.
Ma tutti e due
alla fine avevano scelto di andarsene.
Loro, come
tutti quelli che erano passati in mezzo.
Il ragazzo
fastidioso (Leo) stava martellando e martellando qualcosa con gran
dispendio di fumo e fuoco, tutti gli uccelli erano volati via e a lei
tutto quel martellare dava fastidio, era come quando dormiva da sola e
le veniva da piangere e sentiva solo il battito agitato del suo cuore
rombarle nelle orecchie. O come quando invece c’era qualcuno
accanto a lei e osava sperare che rimanesse, stavolta sì,
stavolta magari è diverso.
Come quando
c’era stato Drake, che aveva circumnavigato
l’America e trovato una città d’oro e
sconfitto un’intera armata, e la sua amante era una regina.
Ma lui non poteva stare assieme a una regina, e così Calypso
aveva osato sperare che invece potesse stare con lei. –Ma tu
sei una dea, se non posso stare con una regina, figuriamoci con una
dea-, le aveva detto lui sorridendo, ma era una scusa. La sua regina,
le sue navi, le sue avventure, era quella la vita che voleva.
Era stato
facile innamorarsi di lui. Era fin troppo facile innamorarsi delle
canaglie, anche quando sembravano gentiluomini. Come
l’Etrusco. Era impossibile non innamorarsi
dell’Etrusco.
Era arrivato
sull’isola, e la chiamava “tesoruccio”, e
le raccontava milioni di storie con una voce di acqua dolce. Quando la
accarezzava indovinava i suoi desideri come se glieli leggesse nella
mente, e aveva un sorriso che era come la falce della luna.
Era buffo,
Calypso non si ricordava nemmeno come si chiamasse. Le aveva detto di
essere un aruspice, e di avere due fratelli e una moglie, da qualche
parte. Era stato con lei, poi un giorno aveva letto il futuro nel
fegato di un animale e le aveva detto che doveva andare, i suoi
fratelli avevano bisogno di lui. –Per salvare il mondo?-, gli
aveva chiesto, con amarezza. Lui non la guardava nemmeno, non guardava
nemmeno la zattera, guardava solo l’orizzonte, quando le
aveva risposto: -No, per conquistarlo.
Calypso si
disse che basta, meglio occuparsi del giardino, muovere le mani, fare
qualcosa. Nella sua mente si ingarbugliava tutto (era certa che
l’Etrusco fosse molto prima di Drake, ad esempio) e la colpa
era di quel tizio che faceva un sacco di confusione (Leo).
Giravano il
mondo in nave, gli uomini che arrivavano a Ogigia. Non proprio tutti,
in effetti, ma molti. Calypso si chiese se per gli dèi
dispettosi fosse più facile mandare su un'isola un
navigatore, o se fosse perché lei aveva un debole per i
marinai giramondo. O i giramondo in generale. Come l’uomo di
Marsiglia, che però mica era di Marsiglia, le aveva detto,
faceva solo finta. Aveva la fotografia in bianco e nero di una donna, e
tanti ricordi da cui cercava di scappare. Calypso si era ripromessa di
non innamorarsi più, la cosa da tragica stava diventando
ridicola, si era fatta spiegare cos’era una fotografia e
raccontare i suoi viaggi. Diceva che lo chiamavano
“l’uomo della tempesta”, ed era stata una
tempesta a sbatterlo a Ogigia. Dopo un po’lei aveva provato a
vedergli il futuro; non aveva visto granché, era una magia
difficile, ma una cosa era chiara: resta con me, e la tempesta
finirà. Non gliel’aveva detto,
all’inizio.
Poi non aveva
resistito.
Arrivava
sempre quel punto, quello in cui non riusciva a trattenersi, quello che
segnava l’apice da cui poi iniziava il punto di discesa delle
parabole di tutte le sue storie d’amore. E non era stato
diverso: lui le aveva detto che preferiva non avere meta e casa,
piuttosto che rimanere lì e strappare la fotografia. Quando
era comparsa la sua zattera, il mare intorno a Ogigia era insolitamente
in tempesta.
Viaggiatori,
pirati, mascalzoni, costruttori. C’era stato il portoghese
che viveva nel Borneo e aveva un amico fraterno che, si diceva, facesse
paura anche alle tigri (e una donna bellissima e un regno,
perché figuriamoci se non c’era una donna
bellissima, da qualche parte); c’era stato il veneziano che
le aveva raccontato di Lepanto e del suono dei cannoni e del fuoco
sull’acqua e del sangue dei turchi.
Ce
n’erano stati troppo pochi, in tremila anni,
perché lei ci facesse l’abitudine e imparasse a
considerarli solo visitatori che le scaldavano il letto per un
po’, ma abbastanza per avere troppi ricordi quando calava la
notte. Per un po’ci aveva sperato, dopo Percy, che le cose
cambiassero, ma naturalmente non era cambiato niente, la storia dei
suoi zii avrebbe dovuto insegnarglielo, come al solito Speranza era una
gran fregatura.
E comunque non
doveva pensarci. Basta, chiuso.
Dovevano
averlo capito anche gli dèi, che le avevano mandato quel
tizio strafottente, che non stava mai fermo e continuava a bruciare
qualsiasi cosa (Leo). Al pensiero, tirò troppo forte un gambo di
rosa e si punse. Imprecò. Non imprecava quasi mai, e
sì che motivi ne avrebbe avuti.
Di solito era
dolce. Era accomodante. Le piaceva prendersi cura di chi arrivava
sull’isola, tentare di lenire il loro dolore, le loro
preoccupazioni. Le piaceva, ed ecco a cosa l’aveva portata. A
un bel niente. Quindi basta, quindi il tizio che non stava mai fermo
(Leo) non avrebbe avuto sorrisi e lavanda e lenzuola di lino, che
ringraziasse se gli portava da mangiare, perché va bene
tutto, ma non voleva una specie di scheletro vivente affamato a zonzo
sulla sua isola. Comunque cosa stava a pensare, si disse succhiandosi
il dito, per quelle rose ci volevano le cesoie.
Che erano sul
bordo della fontana.
Che non
perdeva più.
E che erano
affilate come non lo erano state da tempo.
E si ricordava
di aver visto il ragazzo irritante (Leo) nel suo giardino.
E si accorse
che stavolta una differenza con tutte le altre volte c’era,
ed era che a modo suo era il ragazzo di fuoco (Leo) a prendersi cura di
lei.
Magari era ora
di fargli dei vestiti che non gli bruciassero addosso.
Note: roba scritta in una serata in
occasione della PJShipWeeksITALIA. Leo e Calypso sono la mia
seconda OTP della saga e mi sembrava brutto non scrivere proprio niente
niente.
L’ispirazione
mi è venuta dalla canzone citata all’inizio, che
tradotta significa: “il tuo moroso gira il mondo in barca a
vela/ e io non sono mai uscito da questo giardino/ sono un fiore che
anziché aprirsi si chiude/ e delle mie rose son restate solo
le spine”. Se qualcuno vuole sentirla, è questa.
Gli uomini di Calypso.
Beh, non potevano essere stati solo Ulisse e Drake, no? Non sarebbe
stato possibile fare una statistica e ricavare una maledizione sulla
base di due uomini (Percy non lo conto perché lei racconta a
Percy della sua maledizione). Quindi gliene ho affibbiato qualcuno.
Percy, Ulisse e Drake li conosciamo, l’Etrusco diciamo che
l’ho praticamente inventato io (ma forse qualcuno lo
riconoscerà), l’uomo della tempesta è
ispirato a questa canzone, il portoghese è
Yanez e il veneziano è a caso (ma dice che è un
figo).
Gli zii di Calypso
sono Prometeo ed Epimeteo, quelli del vaso di Pandora.
La storia non
è betata perché le mie beta di fiducia sono in
vacanza alla faccia mia che lavoro, quindi non abbiate paura a
segnalarmi qualunque cosa non vada bene.
Grazie mille a chi
è arrivato fin qui, a chi mi legge (e avrà
pensato “oh, ma dai, niente Clarisse stavolta?), e a chi
darebbe un arto per essere su Ogigia a non fare un cazzo, con qualche
uomo ogni tanto che si degna di sparire prima di diventare noioso.
Certi proprio non capiscono che hanno tutte le fortune.
Alla prossima!
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