Le dita percorsero ancora una volta quella superficie regolare, rigida,
perfino fredda al tatto, specie nei punti in cui il metallo formava i
pulsanti od il regolatore dell’obiettivo.
Era una vecchia macchina fotografica, di quelle che ormai
più nessuno utilizzava.
Eppure, per qualche strano motivo, non ero riuscito a non sentirmene
affascinato quando, giorni prima, l’avevo trovata in un
vecchio baule, nell’ormai abbandonata soffitta della mia
abitazione.
Forse ne ero tanto attratto a causa del fascino che gli oggetti antichi
sembravano avere su di me:avevo sempre pensato che, infatti, questi
possedessero la straordinaria capacità di raccontare la
storia di ognuno di noi meglio di quanto mille parole potrebbero fare.
A maggior ragione, quell’oggetto sembrava racchiudere ancor
più inenarrabili storie di qualsiasi altro artefatto
esistente al mondo.
Le macchine fotografiche, in effetti, avevano la mirabile
capacità di intrappolare con un semplice scatto, un unico
click, frammenti delle più svariate e memorabili avventure.
Così, da giorni, continuavo a bloccare in quelle istantanee
diapositive schegge del tempo che correva intorno a me, momenti di
quotidiana monotonia o sprazzi di ingenua follia.
I posti che maggiormente frequentavo, come le vie della mia
città in seguito ad un temporale, quando l’aria
è ancora satura di elettricità ed i marciapiedi
non sono che catrame ricolmo di pioggia.
I miei soggetti preferiti, tuttavia, erano le persone; ciò,
in un primo momento, aveva finito per sorprendere perfino me stesso ma
riflettendoci mi ero reso conto del perché.
Quel mio irrazionale bisogno di imprimere immagini nel rullino di
quella vecchia fotocamera … non era altro che un modo per
avere dei ricordi immutabili, fermi proprio nel momento dello scatto.
Era una sorta di piacevole sostegno, in gradi di rincuorarmi, di
fornirmi qualcosa cui aggrapparmi, in un lontano futuro.
Così ecco che il rullino si riempiva di quelle che, a quanto
pareva, erano per me le persone più importanti.
Spesso erano impegnati nelle attività che più li
caratterizzavano o che, più in generale, erano di loro
gradimento ma non era raro che ci fossero anche immagini insolite,
scatti rubati nei momenti in cui i vari soggetti meno si aspettavano di
divenire vittime della mia macchina fotografica.
Non era dunque raro vedersi alternare, quando si portava a sviluppare
il rullino, un Haruna che sorrideva tranquilla in camera, ben in posa,
ad una con la testa tra le nuvole, molti fogli sparsi sul tavolo della
cucina, mentre era impegnata a preparare un nuovo articolo per il
giornalino scolastico.
Stessa cosa per i vari componenti della squadra:capitava che uno o
più ragazzi si lasciassero immortalare dal mio fascio di
luce –più raramente erano loro stessi a
chiedermelo- e non mancavano le foto di gruppo alle quali talora mi
univo, chiedendo ad una delle ragazze di scattare al posto mio, eppure
vi erano anche quei momenti di vita che, altrimenti, sarebbero rimasti
taciuti.
Così ecco, alternato al sorriso smagliante di Endou, anche
un istante rubato, mentre la spossatezza aveva la meglio sul nostro
fantastico capitano e lui crollava addormentato, alla fine degli
allenamenti, su una vecchia panchina in fondo al parco cittadino.
Oppure ancora Gouenji, incastrato nei miei ricordi in un momento di
riflessione o mentre, colto da un’improvvisa eccessiva
tenerezza, di solito così estranea alla sua consueta
serietà, mentre giocava divertito con la piccola Yuuka.
Per non parlare di Fudou:avevo scoperto che, paradossalmente, adorava
mettersi in posa. Allora la memoria della fotocamera si era riempita di
momenti in posa, affiancato da Sakuma, insieme a quei sospiri annoiati
che non mi capitava mai di perdere.
Sorrisi appena mentre il flash si perdeva ancora una volta nei colori
rosati del tramonto.
Quello era decisamente uno dei miei momenti preferiti della giornata:il
sole si tuffava a strapiombo oltre l’orizzonte, tingendo il
cielo di mille sfumature, il normale azzurro appena velato dai bianchi
sprazzi di nuvole lasciava spazio al vivido rosso fuoco, fino ad un
più tenue arancio.
Un pittore avrebbe potuto trovare quel paesaggio meraviglioso e credo
che non avrebbe esitato un minuto oltre pur di imprimere quel
capolavoro della natura su di una tela:il rosso che incontra
l’azzurro, il fuoco e l’acqua.
L’oceano cristallino si tinse di cremisi ed ebbi la netta
percezione che non ci fosse una distanza, che il mare ed il cielo si
fossero fusi e che, se me lo avessero chiesto, probabile che non avrei
saputo dire dove finisse uno e dove iniziasse l’altro.
Mi lasciai attraversare dalla sferzante brezza marina, permettendo ai
ricordi d’invadermi di colpo, mentre un sorriso gentile mi
solcava il volto perlaceo e chiudevo gli occhi, per scivolare meglio
nei miei stessi ricordi.
Fudou che scompigliava la lunga chioma turchina di Sakuma, facendo
andare quest’ultimo su tutte le furie.
Non avevo idea di come mi fosse tornata alla mente proprio questa scena
ma ricordai la risata nella quale ero scoppiato dopo aver scattato la
foto, assistendo
ad una scena del genere.
Gli altri due mi avevano osservato, stupiti da quella reazione, tanto
inconsueta per me.
Eppure, in quel momento, mi ero sentito stranamente felice.
Sì, felice,
strabiliato da un senso di appagamento così forte, che mai
avevo provato fino a quel momento, in vita mia.
Allora avevo compreso.
Quell’unico gesto, quello scattare per imprimere saldamente
nella mia memoria, giorno dopo giorno, i momenti più
disparati di quelle esistenze che passavano, trascorrevano con
immutabile calma, era il mio modo per dire che sì, io ero lì, in quel
momento e stavo vivendo.
Forse non avere praticamente nessun ricordo visivo dei miei genitori
aveva contribuito a far sì che quello fosse il mio modo per
ricordare, immortalare istanti mutevoli in frammenti immobili, incapaci
di scappare da qualsiasi altra parte.
La mia mano sinistra cadde a terra, mentre la destra continuava a
stringere saldamente la vecchia macchina fotografica, come per timore
che potesse dissolversi da un momento all’altro.
Mi chiedevo spesso a chi potesse essere appartenuta, prima di arrivare
nelle mie mani:quali altre vite avesse vissuto, insomma.
D’altronde, era alquanto affascinante contemplare la
possibilità che quello strumento avesse sfiorato la vita di
altre persone prima della mia:contribuiva a renderla, in effetti,
l’oggetto speciale che per me era.
Le dita della mano sinistra si persero tra i granelli della spiaggia
sulla quale ero seduto, giocherellando con l’arenaria,
creandovi volute e crateri che puntavo giù, sempre
più verso il fondo, indirizzati al centro della terra.
Il terreno, in quel tardo pomeriggio di fine agosto, era fresco ed
umido, segno che ci stavamo avvicinando alla sera, con
l’immancabile umidità delle località
marittime, che rendeva tutto leggermente più freddo al
tatto.
Qualcuno si sedette accanto a me, con delicatezza.
Non avevo bisogno di certezze, avevo già intuito di chi si
trattasse quando avevo sentito i passi garbati seppur decisi percorrere
la sabbia alle mie spalle.
Si dicevano molte cose di me ma su una ero parecchio
d’accordo:che fossi un buon osservatore.
Era vero, mi piaceva osservare, era così che mi allenavo a
tenere la mia mente lucida e reattiva all’incirca da
sempre:cogliendo ogni minimo particolare di ciò che mi
circondava, partendo dai luoghi per arrivare ancora una volta,
analogamente al mio rullino fotografino, alle persone ed alle loro
abitudini, dai gesti più comuni ad inaspettati tic.
Appoggiai la schiena al petto della persona alle mie spalle,
meravigliandomi di quanto potesse risultare rassicurante perfino quel
minimo contatto.
Inspirai a pieni polmoni, lasciandomi inondare dai profumi che erano
intorno a me:l’odore salmastro della salsedine, che aleggiava
con prepotenza in ogni centimetro della baia, per poi perdermi in
quell’amato odore di carte e libri nuovi, che non abbandonava
mai la persona che ora era alle mie spalle.
«Grazie per avermi portato qui. È
meraviglioso»commentai, ammirando esterrefatto lo spettacolo
che i miei occhi si ritrovavano davanti.
Quasi percepii un sorriso tendersi sul suo volto mentre
replicava:«Figurati, niente di che».
Osservai una piccola onda che si formava, non distante dal punto della
riva in cui ci trovavamo:le acque limpide che scintillavano, alle
ultime luci che precedevano l’imminente e definitivo calare
della sera, mentre la schiuma ne imbiancava
l’estremità della cresta.
Rimasi non poco sorpreso quando poco dopo sentii la voce alle mie
spalle ammettere:«Kidou, devo farti una domanda».
Mi voltai ad osservarlo, d’un tratto particolarmente
incuriosito da quelle sue parole.
Fissai il suo volto, che mi ero aspettato di trovare, come al solito,
in ogni modo imperscrutabile.
Invece fui colpito di notarvi l’accenno di un lieve, eppure
così strabiliante, sorriso.
Sorrisi di rimando, piacevolmente stupito da quel momento, mentre
concedevo:«Certo».
Lui fissò gli occhi sull’oceano, perdendosi nei
guizzi delle onde, dopodiché, con lo sguardo puntato in
direzione dell’orizzonte, lo sentii domandarmi:«La
fotografia … cosa significa per te?».
Avvertii le mie guance imporporarsi appena, quello strano calore che
quasi mai vi avevo avvertito prima di allora che si diffondeva sulla mia pelle.
Puntai a mia volta lo sguardo sull’orizzonte, i miei occhi
rubizzi che s’intrecciavano al rosso del sole che si avviava
a tramontare come fili tessuti da abili mani.
Era strano per me ammetterlo, era così importante e segreto,
tuttavia avvertii la necessità di confidarglielo, di
metterlo a parte di quel lato di me, così
confidai:«Credo sia il mio modo di fermare i ricordi di un
mondo che corre, è sempre più di fretta e rischia
di sfuggirci, un momento o l’altro».
Lui mi fissò intensamente, senza tuttavia mettermi in
imbarazzo:sembrava veramente interessato alle mie parole.
«Ho avuto un’idea»affermò,
ancora quel lieve sorriso disegnato in volto«posso prendere
un momento la tua preziosa fotocamera?».
Annuii stoicamente, quindi allungai il braccio nella sua direzione e
lasciai che la macchina fotografica finisse tra le sue mani.
Si alzò in piedi, così lo imitai, tuttavia,
quando si allontanò di qualche passo da me, decisi di non
seguirlo, limitandomi ad osservarlo.
Raggiunse una roccia poco distante,
commentando:«Sì, qui potrebbe andar
bene».
Sorrisi appena e gli chiesi:«Kageyama, si può
sapere cosa stai facendo?».
La mia voce suonò irritata a sufficienza, anche
perché in realtà non lo ero affatto, volevo solo
capire cosa stesse combinando con la mia preziosa macchina
fotografica:dentro avevo un rullino quasi pieno, non potevo rischiare
di perderlo, oltre al fatto che, chiaramente, tenevo terribilmente a
quella fotocamera, per quanto potesse sembrare solo un vecchio cimelio.
Lui, per tutta risposta, si limitò ad armeggiare rapidamente
con lo strumento, premendo un paio di tasti, dopodiché
posò la macchina fotografica sulla roccia e mi raggiunse a
passo svelto.
«Ma cosa …?»cercai di domandare ma non
ne ebbi il tempo materiale.
Mi afferrò di spalle, tenendomi i fianchi tra le mani.
Mi prese totalmente alla sprovvista, così non riuscii a non
farmi sfuggire un sorriso allegro, mentre strizzavo gli occhi per non
farmi sfuggire qualche lacrima per la troppa ilarità.
D’improvviso capii:aveva selezionato la modalità
autoscatto, cosa che io ancora non ero riuscito a fare, nonostante negli ultimi mesi fossi diventato una specie
di esperto nell’ambito delle fotografie, collezionando i
più svariati obbiettivi.
Era la nostra prima foto insieme e forse fu anche una delle
più belle che avessi mai visto in vita mia.
* Angolo
dell’autrice *
Rieccomi qui, signori!
Stavolta ho deciso di proporvi una OS molto particolare ed
insolitamente per me, ricca di fluff.
È nata di getto, in uno dei miei rari momenti di buon umore.
Non ho molto da dire, se non che volevo che questa storia avesse un
gusto dolce ed un filtro al nero di seppia (?), perché adoro
la fotografia e mi sarebbe tanto piaciuto avere una di quelle macchine
fotografiche professionali ed un po’ retrò, stile
anni ’70:caspita, mi piacciono in modo preoccupante.
E no, niente, questo è un regalo per la dolce Sissy, che ho avuto
modo di conoscere qui sul fandom e che spero abbia apprezzato questa
storia:mi occupo di rado del genere fluff, spero che questo mio
tentativo possa essere apprezzato. Diciamo che questo è il
minimo dopo che avuto così tanta pazienza da sopportare i
miei scleri~ u.u
A presto (spero)
Aria_black |