Mostri orribili mi
circondano: le loro zanne marcite mi vorticano intorno, i loro artigli
s’impigliano nei miei capelli, i loro aliti fetidi mi
soffocano. Ali viscide mi sfiorano, code simili a serpenti velenosi si
attorcigliano alle mie braccia, alle mie gambe, al mio collo; mani e
zampe putride mi toccano, mi afferrano, mi trascinano verso una
muraglia di fuoco bruciante, vivo, consapevole. Più avanzo
più le fiamme s’impennano, guizzando
nell’aria per avvicinarsi e accorciare la distanza che mi
separa dalla loro stretta mortale: il calore mi avvolge come un
sudario, preannunciando il modo in cui il fuoco divorerà le
mie carni. Il supplizio si avvicina. Punto i piedi a terra: la spinta
delle disgustose creature che mi sospingono come una vittima
sacrificale al cospetto del loro Dio si fa più decisa, vince
con facilità la mia resistenza. Mi divincolo; altri arti e
altre code mi serrano più strettamente; il patibolo ardente
incombe. Una lingua di fiamma colma la breve distanza che ancora ci
divide; si attorciglia al mio braccio, e sento la sua forza
distruttrice corrodere la mia pelle. Urlo. Ecco, infine! La morte!
Sollevo le palpebre. La seta del baldacchino
sostituisce i mostri e le fiamme nei miei occhi;
l’oscurità della notte è una
benedizione, dopo il bagliore accecante del fuoco demoniaco che fino a
un momento fa invadeva la mia mente.
Mi metto a sedere lentamente, attenta a non
compiere movimenti bruschi, e lancio uno sguardo oltre la spalla alla
figura addormentata nell’altra metà del letto.
Trattengo un sospiro.
Filippo…
È curioso come le cose siano tanto
complicate appena al di sotto di un’apparente perfezione.
Tutto va come dovrebbe andare: Malefica è morta, gli
occupanti del mio castello avito sono tornati a vivere e una maestosa
cerimonia di nozze ha coronato l’amore mio e di Filippo e le
aspettative dei rispettivi padri sull’unificazione dei regni.
Tutto va esattamente come dovrebbe andare.
Tranne la mia testa.
Dopo che il bacio di Filippo mi ha risvegliata
dalla maledizione di Malefica, dopo quel momento di superba,
irraggiungibile felicità in cui esistevamo solo noi due sul
marmo splendente di quella pista da ballo, niente è
più stato lo stesso. La prima notte di sonno che ha seguito
quell’istante di pura gioia mi ha chiarito quello che tutti
avrebbero dovuto sospettare, conoscendo Malefica, e a cui tuttavia
nessuno ha pensato.
Come,
come abbiamo potuto credere che sarebbe finita
così?
Malefica era una fata e una strega di eccezionale
potenza, tanto che nessuno fu in grado di annullare la maledizione che
scagliò sulla mia testa quando ero ancora in fasce; e
allora, come mai non una sola persona ha mai sospettato che avesse
previsto anche la disfatta, e che l’incantesimo con cui mi ha
colpita si sarebbe tramutato in una seconda e ancor più
terribile maledizione, se ne fossi stata risvegliata?
Non posso fare a meno di pensare che sapesse, che
avesse previsto tutto. Altrimenti perché agire prima che Serena mi
concedesse il suo dono? Era certa che la mia buona fata
l’avrebbe speso per mitigare la sua maledizione; che avrebbe
mutato quella condanna a morte in una di sonno eterno; e ha fatto
sì che fosse proprio l’atto di bontà di
Serena a porre sulla mia testa quella seconda maledizione che ancor
oggi mi perseguita.
Da quella prima notte a seguito della disfatta di
Malefica, il sonno pacifico di cui sempre avevo goduto non è
diventato che un lontano ricordo.
All’inizio c’erano gli incubi,
che mi turbavano mentre il sonno mi teneva avvinta nelle sue spire; poi
il peso di quelle immagini di puro terrore divenne così
grande da spezzare persino quel profondo oblio in cui sprofondavo nelle
ore notturne. Ora non ci sono più neanche quei pochi minuti
di requie tra il momento dell’addormentarsi e quello in cui
iniziano gli incubi.
Non posso più dormire.
Ho paura.
Col passare dei giorni prima e delle settimane poi
ho imparato cos’è davvero la paura. Io, che avevo
vissuto per sedici in anni in pericolo senza saperlo; io, che mi ero
ritrovata vittima di una maledizione senza neanche rendermene conto;
io, che a differenza del mio caro Filippo non avevo patito neppure per
un istante, sprofondata in quel sonno simile alla morte e privo di ogni
cosa; io, ora, so cosa significa avere il terrore nel cuore.
È la condizione più
spaventosa, la più miserevole, aver paura di se stessi. Se
ciò che mi minaccia e turba la mia esistenza fosse qualcosa
di esterno – com’erano Malefica e la sua
maledizione – almeno potrei combattere, difendermi, tentare
qualcosa. Invece il mostro è nella mia mente: è
sempre con me. Mi divora ora dopo ora, privandomi di ogni speranza di
fuga e di salvezza. È annidata nel mio petto, quella
creatura maligna, e lì resterà.
Il marmo freddo sotto i piedi mi riporta alla
realtà: rimuginare sulla mia condizione non
cambierà le cose. Vado verso il grande balcone con passo
leggero, evitando ogni rumore che possa svegliare Filippo: lui crede
che io dorma come chiunque altro, che nulla mi abbia tolto la
serenità delle ore di riposo. Potrei dirgli la
verità: ma a cosa servirebbe? Si dispererebbe; si
consumerebbe; e non troverebbe soluzione. Perché il seme
piantato da Malefica è ben peggiore di lei stessa, e del suo
spaventoso sembiante di drago: è qualcosa che soltanto io
potrei sconfiggere, se non ne fossi già così
fiaccata. Se non fossi ciò che lo alimenta. Si sviluppa come
un rampicante venefico, che mi soffoca poco a poco. Un rapido passaggio
davanti allo specchio me lo conferma. Dov’è,
Aurora, dov’è l’incarnato luminoso e
roseo che ti valeva il soprannome attribuitoti dalle tue care fate
madrine? Dov’è la brillantezza
dell’occhio, e la sua vivacità?
Dov’è l’oro dei capelli, ormai opachi e
simili a paglia secca? Non ci sono più. Hai diciassette anni
e sei morta dentro.
L’aria tiepida della notte mi fa sentire
ancora più cari i giorni della perduta innocenza: su questo
balcone tutto è semplice. Somiglia a una terra di confine:
basterebbe un passo oltre il suo limite estremo per liberarmi del
mostro. Che poi per ucciderlo debba sacrificarmi io stessa, che importa?
Un frullo d’ali dolce e lieve mi
allontana da questa tentazione. La mia buona fata, la cara Serena,
vigila sulla mia veglia forzata come sempre. Lei è
l’unica che sappia; è l’unica a cercare
una soluzione; è l’unica a rammaricarsi di non
trovarla. Rammento ancora il giorno in cui mi confidai con lei,
raccontandole cosa mi succedeva.
Rammento ancora quel giorno di quattro mesi fa,
quando per la prima volta dissi ad alta voce: io ho paura di dormire.
È così. Il lavoro di
Malefica è completo: il mio terrore di addormentarmi
è tale che la mia mente produce immagini spaventose ben
prima che il sonno mi colga. La mia vita si è tramutata in
un unico, lunghissimo, interminabile giorno, in cui il momento di
coricarsi non arriva mai. Mi sono procurata pozioni e distillati che mi
tengano sveglia, e che rallentino il declino a cui il mio corpo sta
andando naturalmente incontro, ma non servirà: so che non
servirà. Come potrei trascorrere anni, e decenni, in questo
modo? Forse il mio corpo potrebbe reggere ancora; ma la mia mente, il
mio cuore, no.
Stavolta non posso trattenere un sospiro; ma
Filippo non è accanto a me, non rischio di svegliarlo,
dunque posso concedermi il lusso di manifestare, anche se solo per un
breve istante, la disperazione e il senso di oppressione che provo.
Lancio uno sguardo di soppiatto a Serena,
appollaiata su un angolo della balaustra nella forma piccina e discreta
che assume quando vuol volare. Ci sono momenti in cui, con il mio
desiderio di morire – con la mia rassegnazione – mi
sembra di mancare di rispetto al suo dono.
La speranza.
Certo, Serena non avrebbe mai potuto immaginare
quanta me ne sarebbe servita: sembra che ormai la mia vita non si fondi
su null’altro che la speranza. Quella di cui non ho
abbisognato durante la maledizione – quel sonno breve, tanto
breve da non aver lasciato spazio a cambiamenti di sorta –
l’ho consumata fino all’ultima goccia dopo il risveglio,
quando tutti erano allegri e festosi per il prezzo irrisorio con cui
era stato pagato l’affronto fatto a Malefica tanti anni
prima. Prezzo irrisorio, certo, ma per gli altri: non per me. Io sto
pagando un prezzo altissimo.
Oh! Meglio sarebbe stato morire pungendomi con
quel fuso! Mille volte meglio sarebbe stato quel sonno in tutto uguale
all’oblio più profondo! Meglio sarebbe stata
persino una morte dolorosa, purché rapida. Invece sono stata
condannata a consumarmi con lentezza, a sentire la vita abbandonare il
mio corpo una briciola alla volta, come un fiore spogliato dei suoi
petali da una fanciulla sognante e bizzosa che pensi al suo amore.
Ma questo è il mio destino; ormai
l’ho capito. Per nulla al mondo potrei più sfidare
il Fato impostomi da Malefica; per nulla al mondo – neanche
per il mio caro Filippo, neanche per il bambino che mi cresce in grembo
e di cui nessuno ancora sa nulla – potrei coricarmi di nuovo
in quel letto, chiudere gli occhi, cercare il sonno. La sola idea di
addormentarmi copre la mia fronte di un viscido sudore gelido; il
semplice, minimo segno di stanchezza che spinge il mio corpo a voler
dormire mi riempie di un terrore inesprimibile a parole. Mi fa sentire
una condannata condotta al patibolo: il fiato manca, le ginocchia
tremano, gli arti tentano una disperata resistenza, ma niente ferma il
carnefice dal trascinare la vittima incontro al proprio destino.
Mi accorgo solo ora che Serena svolazza accanto
alla mia testa.
«Va’ a dormire, mia piccola
Aurora» sussurra.
Sento il poco sangue che ancora anima il mio volto
defluire all’istante. I mostri ricompaiono, invadono la
notte: li sento strisciare intorno a me, su di me,
stringermi e togliermi il fiato. La stanchezza mi crolla addosso come
una montagna di detriti. Mi schiaccia, mi spinge verso il sonno, verso
quel bene così innocente per me divenuto una tortura.
Potrei tentare; e se andasse bene? Se finalmente
il mio sonno fosse privo di orrori, se le dolci parole di Serena
– il suo affetto, la sua sollecitudine, la sua partecipazione
alla mia sofferenza – fossero esse stesse un nuovo, benevolo
incantesimo, in grado di annullare quello crudele di Malefica?
Annuisco prima di avere il tempo di ripensarci,
prima che la paura mi assalga di nuovo.
Vedo Serena sorridere soddisfatta e allontanarsi
nella notte a mano a mano che mi riavvicino al mio letto nuziale: per
il momento in cui mi ridistendo tra le coltri di seta, è
sparita.
Con gli occhi fissi al baldacchino prendo dei
respiri profondi e silenziosi, tentando in ogni modo di svuotarmi la
mente: è tutto quello che posso fare, se davvero voglio
avere una possibilità di dormire tranquilla. Continuo a
respirare, soltanto a respirare, lasciando che la stanchezza abbia la
meglio poco a poco.
Neanche mi accorgo del momento in cui le mie
palpebre calano del tutto.
Fluttuo in un nulla
tiepido e confortevole. Sono immersa in una nebbia opalescente,
illuminata da ogni lato da una luce crepuscolare, a metà tra
il rosa e l’oro.
La
luce dell’aurora.
Questo giaciglio quasi impalpabile mi culla, tenendomi sospesa nel
mezzo dello spazio, lontana da qualsiasi asperità.
È rassicurante; è privo di rischi.
Non
so per quanto tempo resto distesa in questo morbido nulla: non ha
importanza, ora, quantificare lo scorrere del tempo. So solo che,
all’improvviso, percepisco qualcosa di estraneo in questo
angolo tutto mio: una presenza inaspettata che incombe su di me.
Non
so neanch’io come, visto che non esistono pavimenti o pareti
in questo luogo, recupero la posizione eretta. Mi volto, e
l’istinto mi fa indietreggiare di scatto e inciampare
nell’orlo della mia camicia da notte, l’unica cosa
solida e tangibile intorno a me. Cado di schiena sulla nebbia,
ritrovandomi di nuovo distesa, a guardare da sotto in su la causa del
mio spavento: un volto sconosciuto, affilato, verdastro, il capo
sormontato da un copricapo da cui si innalzano due lunghe, contorte
corna nere. Se non fosse per quest’ultimo dettaglio, questo
volto potrebbe apparire bello: ha lineamenti regolari, e gli zigomi
alti, insieme agli occhi allungati, gli conferiscono un aspetto regale.
«Aurora». Il mio nome esce da quelle labbra rosse
come una constatazione, come se mi conoscesse già.
«Finalmente ci incontriamo».
Anche la sua voce è regale: perfettamente modulata, non
troppo alta, con un bordo tagliente appena accennato che si confonde
quasi alla perfezione nel garbo con cui si esprime.
«Chi… chi siete?» non posso fare a meno
di chiedere.
La
sconosciuta raddrizza le spalle, ergendosi in tutta la propria altezza,
e mi guarda con superbia: ha un aspetto maestoso, molto più
di me, che sono una principessa, e più della regina mia
madre.
«Io sono colei che è perita nel tentativo di
realizzare la maledizione che ti avevo scagliato contro quando eri
ancora in fasce; io sono colei che ha vinto pur nella
sconfitta». I suoi occhi mandano un lampo. «Io sono
Malefica!»
Non
riesco a trattenere un gemito strozzato. Mi copro gli occhi con un
braccio.
Un
tocco leggero, gentile, mi solletica sotto il mento, forzandomi a
scoprirmi gli occhi: le dita della strega mi sollevano il volto,
costringendomi a guardarla.
«Una povera bambina davvero» dice in tono quasi
rammaricato. «Nata con tutte le fortune, nata per essere
amata e ricordata come una regina gentile e misericordiosa, solo per
vederti strappare ogni cosa!». Scuote la testa.
«Puoi ringraziare i tuoi genitori e le tue care fate madrine,
per il destino che ti è toccato».
La
mia bocca si inaridisce.
«Io… perché?».
Malefica si china ancor più su di me: il suo viso
è vicinissimo al mio, sento il suo fiato – fresco,
profumato, e non fetido come quello dei mostri che infestano i miei
sogni – infrangersi sulle mie gote.
«Perché in occasione della grande festa data in
tuo onore, quando eri ancora in fasce, io fui l’unica a non
essere invitata dai tuoi genitori; e perché quando mi
presentai ugualmente a corte, pensando a una svista, la piccola,
insignificante Serena mi disse con ben poco garbo che se non avevo
ricevuto un invito era soltanto perché non ero
gradita». Si interrompe per un istante, e i suoi occhi si
incatenano ai miei. «Io, signora di ogni Male, ignorata e
messa da parte come una sempliciotta qualsiasi! Non potevo tollerarlo.
Un affronto simile non si lascia mai impunito quando si è
grandi, quando si è potenti. Non l’avrebbe fatto
un re; perché avrei dovuto farlo io?». Mi guarda
ancora negli occhi; non batte mai le palpebre, e neanch’io,
perché il suo sguardo è ipnotico.
«Anche se indirettamente, eri tu la causa di un tale
oltraggio; ed eri anche la vittima perfetta, perché colpendo
te, avrei colpito tutti loro».
«Io non ho fatto nulla» sussurro quasi contro la
mia volontà mentre gli occhi mi si riempiono di lacrime.
«Non merito tutto questo».
«Oh, no, è vero» conviene Malefica.
«Non lo meriti. Tuttavia, mia cara, quasi mai abbiamo
ciò che ci meritiamo: se la vita è ingiusta e
crudele è solo perché le persone sono ingiuste e
crudeli, e non il contrario». Tace. Mi guarda con un misto di
orgoglio e pietà. «Sei stata il mio capolavoro
più grande. La maledizione che ho ordito contro di te
– la sua trama, i suoi meccanismi nascosti, i suoi sistemi di
sicurezza in caso qualcuno avesse cercato di renderla meno spietata o
fosse riuscito a disfarla – è stata la
più grande delle mie opere. Non c’è
modo di liberartene. Sei condannata». Posa lo sguardo sul mio
ventre. «Anche tuo figlio avrà lo stesso destino:
il mio sortilegio è così forte da estendersi
anche alla tua discendenza».
Stavolta è un singhiozzo vero e proprio a uscire dalle mie
labbra. D’istinto mi copro il grembo con le mani, quasi che
questo bastasse a proteggere il mio bambino. «Sei un
mostro!»
«Lo sono» conferma la strega: per un attimo, il suo
senso di trionfo la illumina per intero. «Chi, se non un
mostro, riuscirebbe a estendere il proprio potere anche dopo la
morte?»
Sono inorridita da tanta cattiveria. Fortunatamente, interviene un
pensiero a darmi un briciolo di speranza. «Come posso sapere
che stai dicendo la verità? Forse menti. Anzi, sicuramente
è così!» dico con forza.
Ma
Malefica scuote la testa, come impietosita. «Povera, ingenua
bambina» risponde. «Io non ho mai mentito; non ne
ho bisogno, poiché mai ho avuto la necessità di
tenere celati i miei piani e i miei intenti, pur di portarli a termine.
Se ci pensi bene, sono stati gli altri a mentirti: i tuoi genitori, le
tre fate…». Scuote ancora la testa, lentamente,
prima di fissarmi di nuovo negli occhi. «Coloro che sono
considerati buoni spesso mentono quanto, se non più, dei
malvagi».
Il
respiro mi si strozza in gola. Ha ragione; ovviamente ce
l’ha. I miei genitori non si sono separati da me,
abbandonandomi, seppure a fin di bene, e privandomi della mia
identità? Non ho forse vissuto una vita intera nella
menzogna, per poi vedere il mio mondo – quello che credevo
essere il mio mondo – essere stravolto con poche, semplici
frasi da Fauna, quel pomeriggio di un anno fa, alla capanna del
taglialegna che avevo sempre creduto essere la mia casa?
Non
ho nessuna speranza di salvezza. Peggio ancora: sto condannando una
creatura innocente a subire il mio stesso destino!
Il
solito sudore freddo mi copre, facendomi rabbrividire. Malefica si
raddrizza.
«Non sfuggirai alla mia maledizione. Sei
condannata» ripete. Indietreggia, sparendo nella foschia.
«Sei condannata».
La
nebbia si fa pesante, quasi mi soffoca; la luce calda si spegne quasi
di colpo, assumendo toni grigiastri, cupi, angoscianti. Versi striduli
riempiono l’aria. Attraverso la foschia intravedo forme
spaventosamente familiari – code viscide, ali squamose,
artigli protesi – che mi si avvicinano. Scatto in piedi.
Corro. Salto. Evito i loro assalti, schivo i loro colpi, ma
l’aria sta diventando irrespirabile – è
come inspirare sabbia e rocce – il mio petto si fa pesante
– i detriti lo colmano per intero – i miei passi
diventano lenti – la zavorra è troppo grande
perché io possa continuare a muovermi.
Crollo. Come un masso, come se tutto il peso del cielo gravasse sulle
mie spalle. I mostri mi raggiungono, mi circondano, si gettano su di me
come bestie selvagge su una carogna – il loro peso si
aggiunge a quello che già grava sul mio corpo, mi schiaccia,
finisce di togliermi il fiato…
Apro gli occhi di scatto mentre un grido di
terrore fa per lasciare la mia bocca; ma la paura è tale che
neanche la voce riesce a farsi strada, muore in fondo alla mia gola
– la stessa gola che pochi istanti fa sentivo piena di sassi
– torna indietro nel mio petto – quel petto ancora
così pesante da non riuscire a immettervi il fiato
– si propaga in tutto il corpo – congela le mie
membra, impedendomi ogni movimento.
La sensazione di orrore non dura che un momento,
ma è bastato a innalzare la mia paura al massimo livello. Mi
alzo di scatto dal letto – svegliare Filippo non ha
più importanza – e fisso la finestra ancora aperta
– terra di confine, oasi di pace. La raggiungo correndo,
afferro l’orlo della camicia da notte tra le mani e la
sollevo per essere più veloce, per non avere intralci, per
arrivare al balcone prima di avere il tempo di riflettere, di
pensare…
L’aria fresca mi investe
nell’istante stesso in cui passo all’esterno
– mondo nuovo, lontano dal mio giaciglio di terrore
– e il pavimento freddo si estende davanti ai miei occhi: lo
spazio che mi divide dal parapetto di marmo sembra infinito, il limite
della balconata irraggiungibile, ma continuo a correre e mi avvicino,
mi avvicino…
Salire sul parapetto con un unico movimento e
lanciarmi nel vuoto ha richiesto a stento un secondo; poco di
più è durata la mia caduta verso il suolo.
L’impatto mi lascia la confusa, dolorosissima impressione di
essermi frantumata in un numero infinito di pezzi, come una statuetta
di cristallo scagliata contro un muro: sono ridotta in briciole, e
tuttavia mi sento felice.
L’oblio eterno si addensa intorno a me,
e so che stavolta sarà privo di mostri; e se avessi ancora
il controllo del mio corpo sorriderei, perché del dolce sonno
degl’innocenti disperavo ormai di goder. |