Dunque dunque bella
gente!
So di essere
sommersa dagli impegni e dalle fanfic, ma questa veramente mi ha
ossessionato per un mese intero, e alla fine non ho potuto non
scriverla. *w*
La domanda è
molto semplice: cosa sarebbe accaduto se Sena non si fosse iscritto
alla Deimon, ma all'Ojou? *-*
Pairings:
ShinxSena, TakamixSakuraba.
WARNING:
YAOI, e annuncio fin da subito che ben presto il raiting si
alzerà bruscamente per presenza di esplicite scene lemon.
Quindi chi si sente offeso dalle coppie o dalle tematiche
omoerotiche, clicchi sulla X rossa in alto a destra e si levi dalle
scatole. ^w^
A chi resta,
buona lettura! ^3^
A few
yards from the love
Prologo
Era
mattina e i ciliegi, meraviglioso spettacolo di grazia e bellezza,
davano con le loro chiome fiorite uno strano aspetto esotico a quella
prestigiosa scuola simile ad una cattedrale gotica. La pietra grigia
come ammorbidita dai soffici petali dei fiori degli alberi, l'aspetto
austero, eppure di un'impressionante magnificenza, reso quasi
accogliente.
Kobayakawa
Sena ebbe quest'impressione solo per un momento, prima di sentirsi
definitivamente schiacciato dalla mole di quella scuola incredibile,
e non solo dalla mole delle sue guglie altissime, ma anche e
soprattutto dalla sua fama di istituto di altissimo livello, ed
estremamente, mortalmente selettivo nelle sue ammissioni.
Ojou
Private Senior Hight School. E già il nome non era
incoraggiante.
E
Sena entrò dai cancelli altissimi in ferro battuto con il
cuore pesante, l'angoscia della certezza che gli pesava sul capo e
rendeva amara la saliva. L'aspettativa era quasi nulla, anche perché,
effettivamente quante possibilità c'erano che uno come lui
fosse passato e fosse stato ammesso in quella scuola il cui solo nome
bastava per far cadere le mandibole degli adulti in delle “O”
impressionate?
Nessuna, di certo.
Anche perché Kobayakawa Sena non si sarebbe mai
iscritto di propria volontà all'Ojou: era stata sua madre a
costringerlo, affermando senza possibilità di replica che non
avrebbe accettato nulla di meno da parte del proprio figlio. Eppure
sapeva che Sena non era una cima in nessuna materia, e che faceva
veramente schifo tanto in inglese (l'arabo sarebbe stato più
comprensibile), quanto in matematica.
Ma a casa Kobayakawa la parola di sua madre era
incontestabile, e chiedere aiuto a suo padre sarebbe stato tempo
perso. In definitiva, a Sena non era rimasto altro che andare al
macello da bravo agnellino.
E pur avendo l'assoluta certezza che nemmeno dopo mille
anni di studio sarebbe riuscito a superare i test d'ingresso, Sena
aveva studiato. Molto, davvero molto, come non aveva mai fatto, come
un disperato. Aveva chiesto spudoratamente aiuto a Mamori-nee-san, si
era ammazzato sui libri, aveva passato notti in bianco per finire di
studiare il programma, prendendosi la testa fra le mani e colpendo il
libro con la fronte quando, dopo nove ore di studio, si accorgeva di
non essere arrivato a nulla, assolutamente a nulla. Solo occhi rossi
per la fatica e per quelle crisi di pianto nervoso che a volte lo
coglievano di sera quando la stanchezza era troppa e lui si sentiva
sempre più inetto e sempre più incapace.
Non era mai stato bello per Sena sentirsi un buono a
niente. Ma quando glielo dicevano gli altri nella vita di tutti i
giorni in qualche maniera faceva meno male, perché nonostante
l'umiliazione e l'amarezza, Sena concordava con loro e accettava i
propri limiti. Ma ritrovarsi faccia a faccia con tutto ciò e
capire che quelle persone malevole avevano sempre avuto davvero
ragione, e che lui era realmente un incapace buono a niente e che
proprio per questo motivo avrebbe finito per deludere tutti, era
davvero un'altra cosa. Nessuno aveva mai avuto delle aspettative nei
suoi confronti, e se per questo di certo nemmeno fiducia; ecco perché
il ritrovarsi a fare i conti con le inaspettate e pesantissime
aspettative di sua madre era stato per Sena un vero e proprio shock.
Aspettative, siamo sinceri, solo e soltanto aspettative.
La fiducia era per qualcun altro.
Forse era per questo che Sena si era ammazzato di studio
senza avere nessuna speranza, ed ora sembrava avanzare verso il
patibolo, senza alcuna speranza di vedere il proprio nome fra quello
degli ammessi. Conosceva le aspettative, e sapeva di averle deluse,
come al solito. Anche perché nessuno aveva mai avuto fiducia
in lui, né sua madre, che nonostante tutto gli aveva imposto
quel peso, né Mamori-nee-san, che lo aveva aiutato come
poteva, ma con la sconfitta già dipinta in faccia, né
tanto meno lui stesso.
Cosa ci stava a fare lì fra quei ciliegi in fiore
e all'ombra di quelle guglie imponenti, troppo alte per i tappetti
incapaci come lui?
Sena non sapeva darsi una risposta, ma sapeva che questo
era ciò che gli spettava per aver osato bussare alla porta dei
re. Quindi si lasciò trascinare dalla folla di studenti
eccitati, fino alla bacheca.
Lì c'era davvero troppa gente, tutti più
alti e più grossi di lui, e il fastidioso odore di sudore gli
torturava le narici. Un breve ma acuto dolore alle scapole gli
annunciò di essersi preso una gomitata. Incapace di fare
altro, lasciò che la gente davanti a lui avanzasse e la seguì
come un sonnambulo, finché non trovò un varco fra quei
corpi accaldati e oltre ad esso una grande bacheca bianca. Sopra di
essa c'erano dei numeri neri.
Sena aveva in mano un cartellino e si premurò di
guardarlo per sicurezza.
021
Sospirò una volta, poi un'altra per essere sicuro
di essere pronto, e poi una terza per accertarsi di non essersi
sbagliato. Non era comunque convinto, ma la folla dietro di lui
incalzava e non c'era tempo per un quarto respiro. Si alzò
sulle punte dei piedi per vedere meglio e scrutò la parte
della bacheca per trovare il proprio numero nel posto che meritava:
fra i bocciati.
Quando arrivò a metà e ancora non aveva
trovato il proprio numero pensò che il destino era veramente
crudele a volergli prolungare le sofferenze in quel modo. Quando
superò la metà senza aver trovato nulla il dubbio diede
una timida bussata alla porta del suo cervello. Quando raggiunse la
fine senza aver visto neanche l'ombra di uno 021, non sapeva cosa
pensare. Se non di essersi sbagliato. Ripercorse tutta la tabella,
una, due, tre volte, ma dello 021 non c'era traccia.
Sena sapeva che ad un passo dalla sua mente la speranza
si stava già preparando ad entrare per fare baldoria,
scombussolargli tutte le sue aspettative e illuderlo
irrimediabilmente, ubriacandolo di sogni, quindi si impose di
rimanere lucido, di non concedersi il lusso di nessuna, dolorosa
illusione.
Appurato di non essere fra i bocciati, Sena si voltò
con gli occhi vitrei verso la parte del tabellone che contava i
promossi. Nella prima metà superiore non vide il proprio
numero, eppure, stranamente, questo non sembrò scoraggiare la
scintilla di fede che ancora si agitata in un angolo della sua testa.
All'inizio della seconda metà non trovò nulla, e per un
attimo Sena temette di non trovare affatto il proprio numero in
quella bacheca, e che forse i suoi risultati erano stati così
pessimi da non essere degni neppure di essere esposti alla vista di
tutti.
Poi lo vide. Piccolo e scuro, proprio nell'angolino.
021
Promosso.
Controllò non sapeva nemmeno quante volte di aver
visto bene, di non aver sbagliato tabellone o numero, o di essere
diventato pazzo o di stare sognando.
Ma lo 021 era lì, piccolo ma sicuro, e non
c'erano illusioni a tendergli un agguato o disillusioni a prenderlo a
schiaffi.
Era passato.
Era passato veramente.
La consapevolezza lo afferrò come una mano
guantata d'acciaio e mentre la folla impaziente lo spintonava via,
Sena sentì che in qualche modo quella marea di gente stava
trascinando via assieme a sé anche una parte di lui. E Sena
non ne era triste. Perché quella parte pesava più del
piombo ed ora, finalmente dopo molte settimane, il ragazzino si
sentiva finalmente libero di respirare.
Si ritrovò le guance bagnate. Ne fu felice.
Una piccola bolla di felicità gli si gonfiò
nel petto, e Sena sorrise assieme ad essa: per una volta, per una
piccola e stupida volta, finalmente poteva essere orgoglioso di sé
stesso.
E non gli importava se i tre anni seguenti sarebbero
stati durissimi per lui, perché in quel momento ce l'aveva
fatta e anche un piccoletto inutile come lui poteva concedersi un
minimo di speranza per il futuro.
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