CAPITOLO TRENTESIMO
Vivianne osservava il paesaggio con il viso premuto contro il
finestrino, gli alberi sparivano davanti ai suoi occhi a una
velocità che trovava quasi spaventosa. Era abituata a
viaggiare in carrozza, ma sua madre aveva ritenuto che non sarebbe
stata una buona idea percorrere con i cavalli i quasi ottocento
chilometri che separavano Marsiglia da Parigi, ci sarebbe voluta una
settimana, se non di più, così aveva optato per
il treno. Aveva messo in valigia lo stretto necessario, il resto della
sua roba gli sarebbe stato spedito direttamente nella sua nuova casa.
Vivianne era sembrata entusiasta dell'idea di cambiare casa,
evidentemente era troppo piccola per capire che quel trasferimento era
dovuto a importanti scelte dei suoi genitori, a dei drastici
cambiamenti nella vita di entrambi.
Con enorme stupore della marchesa, Colette aveva deciso di andare con
loro, le aveva detto che quella casa sarebbe stata vuota senza lei e la
bambina, ma Diane aveva il sospetto che per l'anziana domestica
lasciare Parigi fosse stato più difficile di quanto aveva
dato a vedere. Anche Martine, la bambinaia che si era sempre occupata
di Vivianne, aveva deciso di seguire la sua padrona, aveva detto che
non voleva rischiare di rimanere senza lavoro e che non riusciva a
immaginare di dover essere al servizio di qualcuno diverso da Diane.
L'affetto delle due domestiche era stato per la donna un vero sollievo,
pensò che con loro si sarebbe sentita meno sola che in mezzo
a cameriere e inservienti del tutto estranei.
Non era stato difficile partire e lasciare Louis, era abituata a vivere
senza di lui e abbandonare il posto in cui aveva trascorso gli ultimi
otto anni non era da considerarsi un dramma, dal momento che Parigi le
era sempre sembrata estranea. Ciò che la spiazzava e le
faceva veramente male era la sensazione che si stesse lasciando alle
spalle i pochi ricordi di quel sogno che l'aveva resa di nuovo viva,
come aveva scritto nella lettera a Christine. Era risoluta nel suo non
voler dimenticare, nel non lasciare che fosse il tempo a
curare il suo dolore e a rimettere insieme i pezzi di un cuore che a
volte le sembrava quasi non battesse più. Sapeva che prima o
poi gli eventi avrebbero posto la giusta distanza tra lei e quell'amore
che era durato appena il tempo di un bacio, ma dentro la sua anima
niente sarebbe mai stato come prima. In fondo è questo che
fa l'amore, stravolge irreversibilmente, senza possibilità
di porre rimedio.
Il treno arrivò in stazione a sera inoltrata. Vivianne si
era addormentata cullata dal dondolio del vagone, sua madre aveva
dovuto portarla in braccio fuori alla stazione, mentre due facchini
trasportavano i bagagli.
Una carrozza condusse le tre donne e la bambina verso il porto, le
lasciò davanti a una pittoresca casa in mattoni preceduta da
un patio e da un piccolo giardino. L'odore del mare era piacevole, come
pure il suono cadenzato delle onde che si infrangevano sulla banchina.
L'edificio a due piani confinava con un'altra costruzione
più bassa e squadrata con un portone di legno scuro
sormontato da un'insegna sulla quale era raffigurata una nave con
accanto la scritta: Mercier Spedizioni.
“E' la sede della compagnia di mio padre- spiegò
Diane- quando i miei genitori morirono fu data in gestione ma
appartiene ancora alla mia famiglia, credo che ci toccherà
svegliare il custode se non vogliamo restare qui fuori tutta la
notte”, la donna lasciò Vivianne, ancora
addormentata, tra le braccia di Martine e diede un energico strattone
alla corda della campanella che era fuori al portone della sede della
compagnia di spedizioni.
Si sentì un brontolio rauco provenire da dietro la porta,
poco dopo le venne ad aprire un uomo di mezza età che teneva
tra le mani una bugia con una candela quasi del tutto consumata. L'uomo
si aggiustò sul naso un paio di occhiali dalle lenti tonde e
osservò la donna che era davanti a lui,
“Madre del cielo, mademoiselle Diane!”
esclamò stupito,
lei sorrise
“E' un piacere rivedervi Robert” disse
“Oh ma cosa ci fate qui mademoiselle... ah, che sbadato,
dovrei dire madame... non avevate avvisato nessuno del vostro
ritorno”
“Lo so, è stato un capriccio improvviso-
tagliò corto la donna- ma ora siamo molto stanche, veniamo
da un lungo viaggio e vorremmo riposare, potreste darmi darmi le chiavi
di casa?”
“Certo, certo madame! Non immaginate che bella
sorpresa”
Robert conosceva la famiglia di Diane da molto tempo, aveva sempre
lavorato per suo padre ed era rimasto a fare da custode alla casa
vuota. Si coprì con una giacca e frugò in un
cassetto dal quale estrasse un mazzo di chiavi, poi si diresse verso il
cancello della casa,
“Queste sono Martine e Colette, le mie domestiche”
spiegò Diane
“E questa bambina meravigliosa immagino sia vostra
figlia” concluse Robert osservando la piccola che era rimasta
addormentata tra le braccia della sua governante tanto il viaggio
l'aveva spossata,
“Si, Vivianne”.
L'uomo aprì la casa e si occupò di portare dentro
i bagagli delle donne, poi sollevò alcuni teli che coprivano
i mobili dell'ingresso sollevando degli sbuffi di polvere,
“La casa è esattamente come quando ve ne siete
andata, madame- spiegò- vostra madre, Dio la abbia in
gloria, non è mai stata amante dei cambiamenti, e da quando
il Signore l'ha chiamata a Sé nessuno ha più
toccato niente qui dentro”,
Diane osservò la casa nella penombra, mentre Robert
accendeva qualche candela. Si accorse che i ricordi che quelle stanze
le suscitavano erano meno vividi e precisi di quanto pensasse, era come
se la giovinezza che aveva vissuto in quella casa fosse stata un'altra
vita. Si poggiò con la mano contro il muro cercando di
tenere testa alle emozioni,
“Domani, se volete, farò venire qualcuno ad
aiutare le vostre domestiche a dare una ripulita alla casa”
aggiunse Robert, dopo aver mostrato a Colette la cucina e le camere
della servitù,
“Molto bene, è bello essere a casa-
mormorò Diane in tono riconoscente- ma ora vorremmo
riposare, ci vediamo domani Robert”
“Si madame. Ah, avete intenzione di fermarvi a
lungo?” domandò lui
“Si, credo proprio di si” rispose la donna
distrattamente.
La casa era meno spaziosa della villa di Louis ed era molto diversa,
anche se era ugualmente una dimora elegante e decorosa. Al pianterreno
c'era un piccolo salotto dalle pareti coperte con una carta da parati
color verde acqua, sulla destra c'era la porta della camera da pranzo
che era direttamente collegata con la cucina, sulla sinistra c'era una
scala di legno scuro che portava al piano superiore, e nel sottoscala
c'era una porta che introduceva nelle stanze riservate ai domestici. Il
secondo piano era diviso tra le camere da letto e una piccola libreria.
Il retro della casa affacciava su una piccola mulattiera che
costeggiava la banchina del porto, su quel lato dell'edificio i mattoni
erano coperti da una patina bianca di salsedine.
Quando il custode se ne fu andato Colette salì al secondo
piano, cercò le lenzuola e preparò la stanza
più grande per la sua padrona e una delle due camere
più piccole per la bambina, pensando che non vedeva l'ora di
rendere quella casa di nuovo pulita e confortevole. Sapeva bene che una
casa è solo un'idea e non un luogo, non si tratta di mura o
di mobili, ma di sensazioni familiari e sicurezze, senso di protezione
e di appartenenza. Lei aveva provato tutto ciò nei lunghi
anni in cui aveva prestato servizio in casa dei De Valois, e adesso
doveva ricominciare da capo a costruire la propria casa in un luogo
diverso. Non sarebbe stato facile, ma non se l'era sentita di
abbandonare la marchesa e la bambina, era giunta ad un età
in cui aveva bisogno di credere che ci fosse qualcuno che non potesse
fare a meno di lei e siccome non si era mai costruita una famiglia
Diane e sua figlia erano i suoi unici affetti.
Dopo aver messo la bambina a letto Diane si chiuse nella sua stanza.
Dormire nel letto dei suoi genitori le sembrava così strano.
Aveva quasi odiato suo padre quando l'aveva costretta a sposare Louis,
con il tempo poi aveva capito che lo aveva fatto per il suo bene, per
garantirle quello che a lui sembrava un futuro splendido, anche se non
sempre le scelte dei genitori possono rivelarsi quelle giuste.
Ripensando a suo padre la donna si chiese quali conseguenze avrebbe
avuto su Vivianne la sua scelta di andarsene, quando si stese sul letto
e sentì sotto la schiena il materasso più morbido
di quello su cui si era abituata a dormire si sentì persa,
Parigi non era mai stata casa sua, ma quel posto ormai non lo era
più. Si sentì vuota, senza scopo, e nuovamente
sola.
Diane si girò su un fianco stringendo tra le dita un angolo
del guanciale, scoppiò a piangere violentemente, per la
prima volta dopo tutto quello che le era accaduto, si
addormentò stanca con le tempie doloranti e il volto ancora
umido di lacrime.
*
Erik fissava il vuoto con i gomiti poggiati sul tavolo, la camicia gli
aderiva al petto sudato, era tornato indietro correndo, cercando di
mettere in ordine i pensieri, continuando a ripetersi che forse era
destino che lui e Diane non si rincontrassero.
“Marsiglia...” mormorò come se stesse
cercando di convincersene.
“Marsiglia- ripeté madame Giry- ma
perché?”
“E' la città dove è nata, ma non
capisco perché sia partita, proprio adesso per
giunta”
“Pensavi sarebbe rimasta ad aspettare la tua esecuzione,
volevi che venisse a guardare?” borbottò Eloise in
tono di sfida
Erik fece una smorfia di disgusto
“Certo che no, ma mi sembra così strano che abbia
lasciato Parigi, affrontato un viaggio così lungo con una
bambina. E se è andata così lontano temo che ci
rimarrà per molto tempo...”
“Potresti raggiungerla” suggerì madame
Giry,
l'uomo sollevò il capo verso di lei e sgranò gli
occhi come se la sua interlocutrice avesse avanzato una proposta
impensabile da realizzarsi,
“Cosa?”
“Hai capito benissimo. Conosci la chimica, l'alchimia, la
fisica e ti stupisci del fatto che si possa viaggiare?”
“Eloise, Marsiglia è molto lontana”
“Ma Diane, che è una donna, ci è andata
con una figlia piccola per giunta, non vedo perché non
potresti andarci tu... ah, no, non dirmelo, quelli come te non prendono
treni, quelli come te se ne stanno rintanati a guardare la propria vita
che passa, rimuginando su quanto il mondo è stato crudele
con loro!”
“Non ti ricordavo così indisponente, soprattutto
nei miei riguardi” protestò Erik
“Sto solo cercando di non commettere lo stesso errore
un'altra volta- rispose Eloise con un sospiro- non è stato
saggio da parte mia incoraggiarti a rimanere nascosto in quel
teatro”
“Non avevo scelta”
“E invece si! So cosa hai passato quando eri solo un bambino
ma poi sei diventato un uomo e sarebbe stato meglio, da parte mia,
aiutarti ad affrontare le tue paure invece di permetterti di creartene
di nuove. In questi mesi non hai vissuto nascosto, in isolamento, e non
mi pare che tu non te la sia cavata”
“Non è certo colpa tua se non volli più
mettere piede fuori dal teatro- commentò l'uomo- eravamo
entrambi così giovani allora”
Eloise scosse il capo, si sedette accanto a lui e gli posò
le mani sulle proprie,
“Sai anche tu che c'è stata una guerra di recente-
disse- la città è piena di uomini che sono
rimasti invalidi, che portano addosso i segni delle battaglie, ma
continuano a vivere in mezzo alla gente, non vedo perché non
possa farlo anche tu”
Erik si lasciò scappare un sorriso malinconico,
“A Marsiglia c'è il mare- mormorò- non
ho mai visto il mare...”.
*
Sentiva le gambe
pesanti, aveva camminato tanto. Le pareti di quel corridoio di pietra
erano umide e viscide, ma in lontananza vedeva una luce tremula, come
se da qualche parte alla fine di quel cunicolo ci fossero delle candele
accese, e la voce dal buio cantava soave e invitante come una
tentazione...
“You have come
here
in pursuit of you
deepest urge
in pursuit of that wish,
which till now has been
silent, silent...”
Il suono della voce era
carezzevole, caldo, e infondeva forza al suo cuore stanco. E quelle
parole, erano così vere!
La donna si fece
coraggio e continuò a camminare verso la luce, e
più si avvicinava e più avvertiva un calore
confortante che la spingeva a proseguire, a scappare via da
quell'incubo. Conosceva quel posto, lo aveva sognato altre volte...
E la voce continuava a
cantare suadente...
“I have
brought you, that our passions
may fuse and marge,
in your mind you've
already succumbed to me,
dropped all defenses
completely succumbed to
me...”
Raggiunse esausta una
grotta sulla sponda di un lago sotterraneo, l'entrata era sbarrata da
una pesante grata di ferro. Cercò di guardare dentro, la
luce delle candele e il calore venivano da lì. E lui era
seduto a davanti a un organo sistemato su un rialzo della roccia,
indossava un frak nero, abiti eleganti, calzoni di velluto scuro.
Sembrava completamente assorto dal canto e dalla musica e non si era
accorto di lei, ma era così bello.
“Erik!”
lo chiamò con quanto fiato aveva in gola, l'eco
ripeté quel nome all'infinito, poi lui si alzò e
si voltò a guardarla, le sorrise raggiante e
continuò a cantare.
“now you are
here with me:
no second thoughts
you've decided,
decided”
La grata si
sollevò da sola con un sordo cigolio, l'uomo rimase ad
attenderla senza smettere di sorridere, con gli occhi illuminati da una
serenità che lei non gli aveva mai letto in quel suo sguardo
tormentato. La donna si gettò nel lago e camminò
faticosamente verso di lui, ad ogni passo si sentiva più
stanca, la veste si appesantiva con l'acqua e il lago diventava sempre
più profondo e freddo.
Raggiunse con uno sforzo
enorme l'altra riva, dove lui le tese una mano per aiutarla a uscire
dall'acqua,
“Erik...”
mormorò lei, mentre l'uomo la sollevava tra le braccia e le
accarezzava il viso
“Sei
esausta” commentò posandola delicatamente su un
letto a forma di ciglio celato da una tenda di organza,
“Ora va
meglio, ora che ti ho trovato...”.
Aggrappandosi alla sua
camicia lo attirò verso di sé facendolo cadere
sul materasso accanto a lei e cominciò a baciarlo. Lui la
stringeva tra le braccia con la cura e la delicatezza che si riserva a
un oggetto prezioso, armeggiava con i lacci del vestito che in pochi
minuti finì gettato sul pavimento di pietra.
“Erik, ti
prego, amami...” sospirò lei godendosi la carezza
delle lenzuola di broccato sulla pelle delicata.
L'uomo la
baciò con più passione mentre con le mani
percorreva senza pudore ogni centimetro del suo corpo. Un attimo prima
di arrendersi a quelle carezze la donna gli sfilò la camicia
e gli cosparse il petto di baci, sentendo il suo cuore battere sotto i
palmi delle mani e tastando i muscoli levigati e la pelle che stava
diventando incandescente. Era così bello, come la sua
voce... un inevitabile invito al peccato.
Lui le
accarezzò l'interno delle cosce, risalendo con la mano
sempre più su, rendendo quelle carezze sempre più
audaci, fino a raggiungere la sua femminilità che
sfiorò leggermente provocandole uno spasmo incontrollabile...
“Erik!...”
“Erik!...”
Diane si svegliò con un sobbalzo, urlando quel nome con
disperazione e non per il piacere, come aveva fatto in sogno. Era
completamente avvolta dalle lenzuola che le si attaccavano
fastidiosamente al corpo sudato, tra le mani stringeva un cuscino
stropicciato. Le ci volle qualche secondo perché il respiro
le tornasse regolare, stava ancora ansimando quando si mise a sedere
per versarsi dell'acqua dalla caraffa che era sul comodino. Bevve
avidamente e si versò alcune gocce di acqua fresca sul collo
per cercare di calmarsi e di alleviare quel calore insopportabile che
sentiva.
Ormai sognava Erik ogni notte, erano sempre sogni strani e
sconclusionati che si perdevano nell'oblio del sonno. Ma quella notte
era stato diverso, quel sogno sembrava così reale, quei
baci, quelle carezze, il calore della sua pelle. Come se...
“Come se fosse vivo...” mormorò Diane,
per poi rannicchiarsi contro la spalliera del letto con le le
braccia che stringevano le gambe piegate e abbandonarsi a un pianto
sommesso fino a farsi vincere dal sonno. Quello era diventato l'unico
modo in cui riusciva ad addormentarsi da quando aveva lasciato Parigi.
Era trascorsa una settimana da quando era tornata a Marsiglia. Aveva
passato quei giorni a cercare di rimettere in sesto la casa, aiutata da
Colette aveva assunto nuovi domestici, un inserviente che si occupasse
delle faccende più importanti, un cuoco e una cameriera che
aiutasse la sua vecchia domestica nelle pulizie e nella gestione della
casa.
La donna era stata di pessimo umore in quella settimana che le era
parsa durare un'eternità. Aveva sperato che la notizia del
suo ritorno in città non si spargesse troppo rapidamente,
non voleva ricevere visite di parenti e vecchi amici di famiglia che
sicuramente l'avrebbero riempita di domande. Pensò che forse
un giorno sarebbe potuta arrivare persino a rimpiangere la sua vita
piena di impegni mondani ai quali, come moglie di un marchese, non
poteva sottrarsi, ma in quel momento voleva solo essere lasciata in
pace.
“Perdonate se mi permetto, madame- disse Colette mentre le
serviva la colazione- ma siamo qui da una settimana e non avete ancora
scritto a vostro marito”
“Si, hai ragione, lo farò domani, oggi devo
trovare un maestro per Vivianne, ma pensavo che dopo l'estate potrei
mandarla ad una scuola pubblica” rispose la donna con aria
assorta,
la domestica non capiva perché mai la figlia di un nobile
dovesse frequentare una scuola pubblica, ma non c'era da stupirsi se
una persona come Diane lo trovasse assolutamente normale,
“Se credete che sia una buona idea, madame...”
“Lo è di sicuro! Voglio che mia figlia cresca
insieme agli altri bambini e non chiusa in questa casa. Anche se suo
padre potrebbe perdere dieci anni di vita, se lo sapesse”,
Colette sospirò e trattenne a stento un mugolio di
tristezza, Diane la guardò di sottecchi, sapeva che la
domestica non avrebbe mai compreso le sue ragioni e che una donna
anziana probabilmente non possedeva l'elasticità mentale per
comprendere la natura di quella situazione,
“Colette, voglio che tu sappia che se ci fossero dei
ripensamenti riguardo al fatto di vivere qui, non mi
arrabbierò se vorrai andartene” le disse con
dolcezza
“Madame, non oserei mai contestare le vostre scelte, o quelle
di vostro marito”
“Ah, ti prego, per una volta metti da parte le
formalità e sii sincera, qui non siamo a Parigi!”
“Madame, alla mia età è difficile
accettare dei cambiamenti tanto grandi, e non mi riferisco al vivere in
un'altra città...”
Diane osservò la zolletta di zucchero affondare nel
caffè e girò distrattamente la bevanda con il
cucchiaino,
“Hai ragione, l'amore è un pessimo
affare!...” concluse
“L'amore è stata un'invenzione madame, per
regalare felicità a chi poteva permetterselo o per dare un
motivo all'infelicità di tutti gli altri”
“E quando l'infelicità ha un motivo dovrebbe
essere molto più sopportabile secondo te?”
la domestica sospirò
“Quando si ha un motivo per essere infelici se ne devono
cercare altri per non esserlo. La felicità non ha mai un
solo volto, nemmeno quando si tratta di un volto luminoso e accecante
come quello dell'amore” commentò cominciando a
sgombrare il tavolo dalle stoviglie.
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