Babylon
(seguito di A Divine
Love)
19 -Incubi
L’ultimo
raggio di sole andò ad illuminare fiocamente i resti di una
vetrata colorata
che adornava la navata della chiesa sconsacrata che avevano adibito a
quartier
generale.
L’immagine
ritraeva l’Arcangelo Michele, il comandante delle schiere
celesti, sopraffare
quello che una volta era stato suo compagno d’armi ma che
comunque rimaneva suo
fratello, Lucifero il traditore.
Mikio
non si stancava mai di contemplare quella raffigurazione, nonostante
l’incuria
e le intemperie l’avessero deturpata in numerosi punti, il
tutto nella speranza
di ritrovare un po’ di se stesso nella figura angelica del
protagonista.
Michele, l’Arcangelo senza macchia, ciecamente fedele al suo
Signore, era
tuttavia così diverso da lui, che probabilmente di angelico
aveva solo la
manifestazione della sua potenza, quelle ali lucenti che in quel
momento erano
serrate e spente.
Un
bagliore fiammeggiante alle sue spalle diede ancora più vita
ai colori della
vetrata, seppur solo per qualche istante.
“Ebbene?”
domandò Mikio alla sua sottoposta dalla chioma scarlatta.
“Come
pensavamo. Sono impreparati e spauriti, la preda perfetta”
rispose lei,
soddisfatta.
“E
la dea?” la interrogò ancora.
“Non
si percepisce niente di divino in quel posto malcelato”
Mikio
sospirò. Stava passando troppo tempo, presto sarebbero
potuti sorgere i primi
sospetti ed arrivare le prime domande sulla loro competenza. Gli ordini
erano
stati chiari, occuparsi di quel che era rimasto di Afrodite il prima
possibile,
non potevano tergiversare ancora a lungo.
“È
tempo di dare una scrollata a quel Santuario sonnacchioso. Richiama Ari
e Jez”
ordinò Mikio, rivolgendosi direttamente alla donna, la quale
però sembrava poco
convinta.
“Sei
sicuro che funzionerà?” gli domandò
infatti.
“Deve funzionare, altrimenti
sarà la fine
per tutti” rispose l’Angelo a denti stretti.
La
rossa annuì, quindi domandò ancora “Coi
soliti tempi?”
“Coi
soliti tempi” confermò Mikio.
Quella
lunga giornata era infine giunta al termine. Le tinte rosse del
tramonto
lasciavano via via spazio al blu della limpida notte ellenica, che
avrebbe
portato ancora una volta con sé un cielo punteggiato di
innumerevoli stelle.
Insieme
ad essa giunse anche il silenzio, rotto solo ogni tanto dal vociare
delle
guardie di ronda, in numero maggiore rispetto al solito data
l’emergenza che si
era presentata. Anche alla Casa dei Gemelli, da sempre rinomata per il
silenzio
che vi regnava all’interno quasi quanto quella della Vergine,
qualcosa
disturbava la quiete che la notte avrebbe dovuto portare con
sé.
Era
la prima notte che Ayame passava al Terzo tempio e scioccamente si era
aspettata che sarebbe stata diversa dai sonni agitati cui era andata
incontro
quando dimorava dal Gran Sacerdote. Tuttavia gli incubi
l’avevano seguita anche
lì. Occhi grigi e spenti e fauci che la divoravano, sempre
la solita
inquietante giostra che comunque riusciva a turbarla come la prima
volta. Si
svegliò di soprassalto, esclamando qualcosa di insensato
alla stanza di Saga,
nel girarsi convulsamente perse l’appoggio sul materasso e
cadde dal letto
battendo la testa contro il comodino.
Ormai
perfettamente sveglia, la ragazza trattenne a stento
un’imprecazione per non
rischiare di svegliare Kanon e si portò la mano alla fronte:
perdeva sangue.
“Ci
mancava anche questa, maledizione!”
Tenendosi
una mano sulla ferita, cercò di raggiungere la cucina, per
quanto col buio
avventurarsi per i corridoi della Casa di Gemini si rivelò
essere un’impresa
più ardua del solito.
Giunta
finalmente a destinazione, prese a setacciare ogni meandro della stanza
nella speranza
di trovare qualcosa che la aiutasse a tamponare la lieve emorragia, ma
interruppe la sua ricerca quando un lamento più simile ad un
ringhio giunse
alle sue orecchie. Per quanto poco conoscesse la sua nuova dimora,
capì che
quel rumore proveniva dagli alloggi di Kanon.
Lasciò
perdere la ferita e si avventurò per i corridoi della Casa,
guidata unicamente
da quei lamenti strazianti, finché non si trovò
davanti a quella che intuì
essere la porta della stanza di Kanon. Da vicino i lamenti risultarono
essere
delle vere e proprie grida che quasi convinsero Ayame a desistere
dall’aiutare
il suo ospite. Pensò che, qualsiasi incubo lo stesse
tormentando, doveva essere
di gran lunga peggiore del suo.
Prese
allora un respiro profondo ed entrò nella stanza. Era
semplice come la sua,
forse ancora più austera: un letto e pochi altri mobili
essenziali la
riempivano. Il giaciglio si trovava di fronte a lei, sotto la finestra
da cui i
raggi della luna e delle stelle entravano senza ostacoli ad illuminare
bene
l’ambiente e il suo inquilino.
Nel
suo agitarsi durante il sonno, Kanon aveva fatto cadere a terra il
leggero
lenzuolo e in quel momento, prono sul letto, si stava aggrappando con
tutte le
sue forze al coprimaterasso e stava addentando il cuscino, quasi nel
tentativo
di soffocare le sue grida.
Ayame
non poté che provare pena per quell’uomo che
sembrava tormentato da demoni
peggiori dei suoi, ma per quanto poco lo conoscesse era facile intuire
che non
era tipo da accettare compassione da chicchessia, così si
fece forza e si
avvicinò a Kanon, allungando un braccio per svegliarlo.
Non
l’ebbe neanche toccato che il guerriero si sollevò
di colpo.
“IO
NON LA UCCIDERÒ!” gridò agitando un
braccio nel vuoto, come a scacciare
qualcuno o qualcosa che probabilmente albergava solo nella sua mente.
Quando la
sua mano incontrò il braccio teso di Ayame, che nel mentre
stava arretrando per
lo spavendo, lo afferrò con tutte le sue forze e
tirò la ragazza a sé.
“Kanon…
Ah!” urlò lei, che nel vedere l’altra
mano del Generale cercare il suo collo,
parò d’istinto il colpo e gli bloccò il
braccio sul letto.
“Kanon,
svegliati!” gli intimò alla fine.
Il
guerriero si ridestò e il suo sguardo vagò per
qualche istante dal suo braccio
tenuto fermo da Ayame sul materasso, alla sua mano che stringeva il
polsi di
lei, quindi al volto della ragazza, insanguinato.
In
un attimo si divincolò dalla sua presa, il volto contratto
in un’espressione
sconvolta, arretrando finché non fu contro il muro dal lato
opposto.
“No…
io… che cosa ho fatto?” cominciò a
balbettare, quindi si portò le mani tremanti
davanti al volto.
Ayame
rimase qualche istante a scrutarlo, nel tentativo di capire cosa
agitasse a tal
punto Kanon. Che non fosse ancora del tutto sveglio?
Poi
accadde di nuovo come la prima notte al promontorio. La stanza
lasciò spazio ad
un universo costellato da astri in collisione, a cornice di
ciò che
imperversava nella mente turbata di Kanon.
In
quel momento il Generale vedeva se stesso, vestito della sua armatura
di
scaglie d’oro, ai piedi della colonna
dell’Atlantico del Nord. Le sue mani
erano grondanti di sangue e due cadaveri giacevano ai suoi piedi:
quelli di
Atena e Poseidone. Subito dopo un terzo andò a completare la
macabra visione.
Era il corpo di Ayame.
Subito
la ragazza arretrò terrorizzata, poi il suo sguardo si
soffermò su un dettaglio
che diede un senso a tutto. Anche nella visione di Kanon, infatti, un
rivolo di
sangue scendeva dalla fronte della bionda. Probabilmente
l’averla vista in
quelle condizioni nello stato di dormiveglia in cui si trovava aveva
scatenato
in Kanon quel sogno raccapricciante.
Recuperata
la lucidità, Ayame provò a svegliare il Generale
con richiami via via più
insistenti, che però non sortirono alcun effetto. Sperando
di non doversene
pentire in futuro, la ragazza decise allora di ricorrere a maniere
più
drastiche e si scagliò contro Kanon per dargli un pugno.
Questi
parò il colpo e la visione scomparve.
Lo
sguardo di Kanon, prima perso nel vuoto, andò ad incontrare
quello di Ayame.
“Ti
sei svegliato, finalmente”
La
bionda ritrasse il pugno. Kanon però sembrava ancora turbato.
“Il…
il tuo volto…” sussurrò a malapena.
Ayame
gli sorrise serena e gli rispose “Non sei stato
l’unico ad avere gli incubi,
stanotte. Solo che io sono stata riportata alla realtà dallo
spigolo del
comodino”
“…
comodino?” ripetè l’uomo, ancora non del
tutto convinto.
“Già!
A quanto pare a tuo fratello piacciono i mobili con gli spigoli ben
pronuncia…
auch!”
Kanon,
che sembrava essersi ripreso del tutto, interruppe gli sproloqui di
Ayame
afferrandola con poca grazia per il mento e girandole il viso per
studiare
meglio la ferita. L’emorragia sembrava essersi arrestata e il
sangue sul volto
si era in buona parte coagulato, incrostando una sottile ciocca di
capelli.
“Vieni
con me” disse poi, lapidario e monocorde come al solito.
Ayame
trasse un sospiro di sollievo, prima di seguirlo verso la cucina. Era
tornato
il Kanon di sempre.
Da
lontano era sempre sembrato un anfratto come ce n'erano tanti tra le
colline
rocciose intorno al Santuario, probabilmente per questo nessuno vi
aveva mai
fatto caso.
Con
la minaccia degli Angeli incombente e la conseguente intensificazione
dei
controlli lungo i confini, la stranezza di quel recesso roccioso era
stata
subito notata. Quattro scalini perfettamente levigati portavano
all'ingresso di
quella che si intuiva essere una caverna scavata all'interno della
collina. Due
spesse porte metalliche sbarravano l'accesso a quei locali, niente che
qualsiasi colpo di qualsiasi Cavaliere, anche solo lanciato a mezza
potenza,
non avrebbe sbalzato via in meno di un battito di ciglia. Non sapendo,
però,
con certezza, cosa vi fosse al di là di quelle porte, Shion
aveva preferito
essere prudente.
Era
stato avvisato di quella scoperta da una delle guardie responsabili
dello
strano ritrovamento, la quale aveva avuto la fortuna di trovarlo ancora
sveglio, in preda ai pensieri che l'intrusione dell'Angelo aveva
portato con sé.
Sebbene in principio avesse pensato che tale scoperta non valesse il
suo
disturbo, quando si era trovato davanti le due porte metalliche si era
dovuto
ricredere.
Non
rammentando, poi, di aver ordinato lui la costruzione di quella
caverna, era
andato immediatamente a chiedere al suo 'successore' delucidazioni, per
quanto
fosse stato un gesto che gli era costato uno sforzo immane e per cui in
altri
frangenti non avrebbe sprecato un viaggio dall'altra parte del mondo,
seppur
facilitato enormemente dal teletrasporto.
Saga
di Gemini studiò da vicino per qualche minuto il passaggio
chiuso e ricoperto
dai detriti, sorpreso che gli scontri di cui quelle colline erano stati
testimoni l'avessero risparmiato. Ricordava, infatti, di aver
commissionato la
costruzione di quel luogo a qualcuno, ma erano comunque ricordi confusi
e
annebbiati, a causa di quella doppia personalità che tanti
danni aveva arrecato
e non solo alla sua mente.
Nel
tentativo di riesumare più memorie possibili, Saga prese a
percorrere il
portone metallico con la mano, scrostando più sporco che
poteva, finché non
riuscì a riportare alla luce ciò che gli
interessava.
Quello
che di primo acchito poteva sembrare un semplice tastierino metallico a
nove
cifre in realtà era un schermo tattile incorporato nella
porta, il quale pareva
ancora funzionare a distanza di anni. Una barra orizzontale lampeggiava
tenue
sopra i tasti.
"Ricordi
la combinazione?" gli domandò Shion, giunto alle sue spalle.
"Ricordo
solo che qualcuno l'aveva comunicata ad Arles e temo che lui se la sia
portata
via con sè" rispose Saga, sorprendendo il Gran Sacerdote nel
rivolgersi
alla sua metà malvagia come se fosse qualcuno di estraneo.
"Possiamo
però sperare che qualcun altro possa scoprire un modo per
entrare qua
dentro" riprese Gemini, riprendendo a togliere lo sporco poco al di
sopra
dello schermo, finché non comparve un logo inciso sul
metallo.
"Qualcuno
che, fortunatamente, non sarà difficile da scovare"
commentò Shion,
lasciando trapelare un minimo di sorpresa.
Il
logo riportato alla luce da Saga era quello della Kobayashi Software.
Quando
Camus entrò in cucina, trovò Galatea intenta ad
imbandire la tavola per la
colazione. Era già la seconda volta che si prodigava in quel
modo, ma quando
qualche giorno prima gli aveva preparato il pastitsio greco
l’aveva rifiutato
in malo modo. Perciò, per quanto quel suo indaffararsi lo
mettesse a disagio,
decise che non avrebbe fatto storie. Se ne convinse ancora di
più quando la
ragazza lo accolse con un sorriso raggiante, in grado di scaldarlo
più del
solito.
“Buongiorno!
Ho sentito che sei rientrato tardi ieri sera, così ho
pensato di farti trovare
già tutto pronto”
In
cuor suo Galatea sapeva che quello che aveva detto era vero solo in
parte. Le
faceva piacere dare una mano al suo ospite con le faccende, ma quella
mattina
aveva anche un altro obiettivo: scoprire cosa stavano tramando Camus e
Milo.
Non che fosse da lei immischiarsi nelle faccende altrui, specialmente
se questo
comportava dover affrontare lo sguardo glaciale e sfuggente di
Aquarius.
Tuttavia con Ayame avevano convenuto che i traffici dei due Cavalieri
avevano a
che fare con Psiche e, dati gli ultimi avvenimenti che
l’avevano vista
coinvolta, era giusto capire se il ‘progetto’ di
cui avevano sentito parlare
fosse dannoso per la Sacerdotessa.
Come
suggeritole da Ayame, quindi, Galatea aveva sfoggiato il suo miglior
sorriso
non appena Camus era entrato in cucina, nella speranza che questo,
insieme
all’abbondante colazione che aveva preparato, servisse a
scucire qualche
dettaglio in più sulla faccenda all’algido
guerriero.
“Grazie!
Sei… sei stata molto gentile” rispose incerto il
ragazzo, sedendosi a tavola e
cominciando a versarsi del succo d’arancia.
“Non
ho fatto nulla di speciale se non attingere dalla tua ricca
dispensa” ribatté
Galatea, mentre si sedeva accanto a lui “Dopo i bruciori di
stomaco che ho
causato a Shura col pastitsio, ho capito di non essere
granché come cuoca e non
volevo rischiare di avvelenarti”
“Capricorn
non ha mai avuto uno stomaco di ferro” rise Camus, con una
naturalezza che non
ricordava di possedere, ma che per una volta gli aveva permesso di non
rendersi
ridicolo davanti a Galatea. Anch’ella stava ridendo, e la
stanza sembrò d’un
tratto più luminosa.
“Sì,
in effetti è più Milo che mi dà
l’impressione di poter digerire anche le
pentole” azzardò la ragazza, sperando che
l’altro abboccasse.
“Puoi
dirlo forte! Una volta l’ho visto spazzolarsi una teglia
intera di lasagne che
sarebbe dovuta bastare per sei persone”
“A
proposito, come sta? Quando ve ne siete andati, ieri, era parecchio
giù di
morale”
“Sinceramente,
l’ho mai visto così a terra” rispose
Camus dopo qualche istante di riflessione
“Mi ricordo di Milo infuriato, dispiaciuto, triste, ma non
credo abbia mai
avuto il morale così a terra”
Aquarius
prese a scrutare intensamente il fondo del suo bicchiere, mesto come se
la
situazione emotiva dell’amico permeasse anche il suo animo.
“Ho
paura che si stia arrendendo, con Psiche” confessò
poi, non provando nemmeno a
nascondere quanto la cosa lo spaventasse.
“In
che senso?” provò ad indagare la bionda.
“Immagino
che Psiche vi abbia spiegato cosa è successo ieri e in
passato, tra lei e Milo”
Galatea
annuì.
“Milo
ha sempre avuto un debole per le donne, non ha mai neanche provato a
nasconderlo. Ma questa volta con Psiche era diverso! Voleva davvero che
funzionasse, si era persino lanciato in un…”
Il
Cavaliere si interruppe, si era accorto che stava andando oltre il
consentito
con le confessioni.
“…
progetto?” Galatea finì la frase per lui.
“Ve ne ho sentito parlare ieri mentre
tornavate alle Dodici Case”
Camus
annuì “Ci credeva davvero, in quel progetto, e ti
posso assicurare che era
perfetto, geniale”
“Di
che cosa si trattava?” domandò cauta la ragazza.
“Mi
spiace, Galatea, gli ho promesso che non l’avrei detto a
nessuno…”
“Manterrò
il segreto” disse la ragazza con una sicurezza che non
credeva di avere, e nel
farlo strinse istintivamente la mano a Camus. Questi non si accorse
nemmeno di
ricambiare il gesto altrettanto inconsciamente, dal momento che era
perso nello
sguardo limpido e determinato di Galatea.
Le
raccontò tutto, con sempre maggior enfasi, senza
risparmiarsi sui dettagli.
Poteva fidarsi.
“È
meraviglioso” commentò alla fine la ragazza, quasi
con le lacrime agli occhi.
“Sì,
lo è”
“Non
può abbandonarlo!” scattò poi lei,
alzandosi dallo sgabello che cadde dietro di
lei. La cosa tuttavia le importò meno di niente, aveva lo
sguardo infuocato e
stringeva la mano di Camus con tutta la forza che aveva.
“Dobbiamo convincerlo
a non farlo”
Si
avviò verso l’uscio della cucina che dava sulla
sala dei combattimenti dell’Undicesima
Casa, trascinandosi dietro il suo proprietario, il quale era
completamente
rapito dalla determinazione che la Sacerdotessa stava dimostrando e che
la
rendeva ai suoi occhi ancora più bella e desiderabile. Solo
gli dei sapevano
quanto avrebbe voluto baciarla, ma non era quello il momento giusto.
Tra
loro due era sempre stato Milo il trascinatore. Col suo entusiasmo
aveva sempre
cercato di far uscire Camus dall’involucro ghiacciato che si
era costruito
attorno, specialmente dopo che era tornati in vita. Era solo merito di
Milo se
stava iniziando a lasciarsi andare con Galatea e vederlo arrendersi
sull’unico
fronte su cui Camus non aveva mai neanche provato a batterlo era per
lui
inconcepibile. Non era quello il Milo che conosceva e che
l’aveva spronato solo
qualche giorno prima a cogliere la seconda occasione che era stata loro
concessa.
Si
lasciò guidare da lei fino all’Ottava Casa, senza
mai lasciare la sua mano. Una
volta arrivati, fu lui a condurla all’interno fino alla
stanza di Milo.
Bussarono
alla porta e attesero. Scorpio venne ad aprire dopo attimi infiniti.
Aveva il
volto scavato di chi non aveva chiuso occhio a causa dei troppi
pensieri.
Squadrò i due ragazzi con apparente sufficienza, quindi
parlò.
“Siete
venuti a dirmi che avete deciso di sposarvi?”
domandò con il tono monocorde che
aveva assunto dalla sera prima e che avrebbe fatto invidia a Kanon.
Camus
e Galatea subito non capirono, poi si accorsero di essere ancora mano
nella
mano. Sciolsero la stretta con notevole imbarazzo, cercando
però di nascondere
all’altro quanto avrebbero desiderato mantenere quel contatto.
“No,
volevamo parlare con te a dire il vero” disse poi Camus.
“So
già di cosa volete parlarmi e non ho niente da
dirvi” sentenziò Milo. Fece
quindi per richiudere la porta, ma una resistenza più
strenua del previsto si
oppose. Si sorprese quando vide che era stata Galatea a bloccarla.
“Non
puoi abbandonare il progetto della bottega” gli disse
risoluta la Sacerdotessa.
Milo
volse lo sguardo alle spalle della ragazza dove stava Camus.
“Meno
male che doveva essere un segreto” sbottò, quindi
uscì dalla stanza diretto in
soggiorno.
“Ha
promesso che non lo rivelerà a nessuno” disse
Camus, mentre lo seguiva.
“Sì,
certo, come no! Quelle tre sono un’associazione a delinquere,
si diranno
persino quando hanno il ciclo”
“Milo!”
lo rimproverò Aquarius, per voi voltarsi verso Galatea, la
quale non sembrava
però troppo turbata.
“È
vero, in linea del tutto teorica l’idea di indagare su questa
cosa è stata di
Ayame e poi dovrei riferirle tutto” ammise la Sacerdotessa
mentre, sulla soglia
della cucina, osservava Milo prendere qualcosa dal frigo.
“Non
avevo dubbi”
“Ma
ora che so tutto e che ho il quadro completo della situazione, ti giuro
sulla
mia stessa dea che non le dirò nulla”
Il
Cavaliere dell’Ottava passò oltre la ragazza non
risparmiandole un’occhiata
scettica e, una volta giunto in soggiorno, si stappò una
birra e si lasciò
cadere sulla poltrona.
“Ebbene,
parlate”
“Lo
so che sono sempre stato scettico riguardo il recupero di quella
bottega”
iniziò Camus, prendendo una sedia dal tavolo lì
vicino per sedersi di fronte
all’amico “Ma l’idea è davvero
buona, geniale oserei dire! È qualcosa che
Psiche non si aspetterebbe mai, specie dopo tutto quello che le
è successo”
“Tu
non l’hai vista oggi, alla spiaggia” lo interruppe
Milo, in quel momento di
gran lunga più scettico di quando l’amico fosse
mai stato “Non hai visto con
quanta rabbia e delusione mi ha guardato. E ha ragione a farlo, ha
ragione ad
avercela con questo maledetto posto! Qui non c’è
spazio per i sentimenti né per
i sentimentalismi, è quello che ci hanno insegnato”
“Vada
a farsi fottere quello che ci hanno insegnato, Milo!”
scattò Camus. Con una
zampata fulminea tolse dalle mani dell’amico la bottiglia di
birra, che cadde a
terra poco distante, frantumandosi e macchiando il pavimento. Scorpio
però
neanche ci fece caso, gli occhi azzurri e fiammeggianti di Camus lo
tenevano
inchiodato al suo posto e gli impedivano di volgere lo sguardo altrove.
“Tu
stesso mi hai detto che questa è una seconda occasione che
non avevi intenzione
di lasciarti sfuggire, e adesso alla prima difficoltà molli
tutto così? Sei un
vigliacco, un bugiardo o cosa, Milo? Dimmelo!”
Nell’inveire
contro Scorpio, Camus l’aveva preso per il bavero portando il
viso dell’amico
ad un centimetro dal suo. In quel momento erano occhi negli occhi,
oceano e
ghiaccio che si fronteggiavano, e il ghiaccio non aveva intenzione di
arrendersi.
Milo
riuscì per un attimo a distogliere lo sguardo per puntarlo
oltre Aquarius, dove
Galatea osservava la scena. Sembrava un po’ scossa dalla
piega che aveva preso
la situazione, ma sul suo viso rifulgeva la stessa determinazione che
Camus gli
stava dimostrando in quel momento.
Tornò
a guardare l’amico e gli sorrise, quindi si liberò
gentilmente dalla sua presa.
“Non
sono un vigliacco… e nemmeno un bugiardo. Sono solo un
coglione” ammise
alzandosi in piedi.
L’atmosfera,
fino a poco prima tesa come una corda di violino, si
alleggerì e anche Camus e
Galatea si sciolsero in un sorriso.
“Avete
ragione. Stavo mollando nel momento in cui non avrei mai dovuto
mollare”
“Ha
bisogno di tutto questo, ora più che mai”
confermò Galatea.
“E
noi ti daremo tutto l’aiuto che possiamo” aggiunse
Camus.
Milo
li guardò entrambi, scorgendo nel loro timido e strano
rapporto uno sprone in
più per andare avanti. Come gli aveva detto Camus, quella
era la loro seconda
chance. Se quel frigido del suo amico era in grado di approfittarne,
seppur coi
suoi tempi biblici, allora anche lui doveva farlo, esattamente come si
era
prefissato.
“Grazie,
ragazzi” disse lo Scorpione, stringendo la spalla
dell’amico. Perché quel
ringraziamento era più che altro rivolto a Camus, che per la
prima volta nella
sua vita aveva sentito divampare il fuoco dentro di sé ed
era riuscito a
riaccendere quello di Milo.
Sentendosi
di troppo, Galatea sfruttò la scusa dell’andare a
cercare qualcosa per pulire
la birra dal pavimento e uscì dal soggiorno, non prima di
averci lanciato
un’ultima sbirciata per vedere i due amici scambiarsi un
abbraccio fraterno.
Tenere
gli occhi aperti cominciava a diventare un’impresa titanica.
La notte era
passata praticamente insonne sia per Ayame che per Kanon, nessuno dei
due era
voluto tornare ad affrontare gli incubi che aspettavano nella
profondità del
loro subconscio. Tuttavia, nonostante i tentativi di Ayame, il Generale
non
aveva voluto parlare dell’accaduto e, dopo aver medicato
scrupolosamente la
ferita che la ragazza si era inferta cadendo dal letto, si era diretto
all’arena
per allenarsi in solitaria, lasciando Ayame con la sola compagnia degli
echi
della Terza Casa. Giunta l’alba, la bionda si era allora
diretta al villaggio,
accompagnata dalla prima guardia capitatale sotto mano e armata di uno
dei
boccioli di Aphrodite e di tutta la determinazione che possedeva per
scoprire
qualcosa di più sull’enigmatico guerriero e sul
suo legame col piccolo Proteo.
Era
ormai mattina inoltrata e la mancanza di riposo iniziava a dare segno
di sé. Il
fiorellino come al solito non voleva saperne di sbocciare né
Ayame si stava
prodigando perché la cosa cambiasse. Praticamente sdraiata
sul bordo della
fontana che adornava la piazza principale del villaggio, cullata dal
vociare
degli abitanti, stava lentamente scivolando nel mondo dei sogni quando
uno
spruzzo d’acqua fredda la riportò bruscamente nel
mondo degli svegli.
Rimessasi
subito a sedere, si asciugò il viso e prese a cercare il
responsabile del suo
risveglio, quando sentì una risata sommessa alle sue spalle.
“Ihihih!
Stavi cominciando a russare” rise Proteo, mentre si dondolava
sul bordo della
fontana.
Ayame
rise a sua volta e si mise a sedere. “Come mai da queste
parti, Proteo? Non sarai
di nuovo scappato” gli chiese.
Il
ragazzino alzò le spalle “C’era lezione
di matematica, ho chiesto di andare in
bagno”
“E
vieni sempre in bagno
qui?”
“Dipende…”
rispose lui vago.
“Ti
dovrei riportare in classe per le orecchie, lo sai?”
provò a minacciare Ayame,
ma Proteo non si lasciò intimorire.
“Anche
tu stavi dormendo invece di fare quello che devi fare con
questo” rispose lui
risoluto, facendo sventolare il bocciolo davanti al viso della ragazza.
“Ehi!
Dove l’hai preso?” domandò lei,
riprendendoselo, imbarazzata per essere stata
colta in flagrante.
“Ti
era caduto mentre dormivi. Che ci devi fare? Ce l’avevi in
mano anche ieri”
“Sei
troppo sveglio e curioso per avere otto anni”
ribatté lei dopo qualche istante.
“Me
lo dicono sempre anche le educatrici” Proteo
gonfiò il petto, orgoglioso “Allora,
cosa devi farci con quel fiore?”
Ayame
sospirò, avendo inteso che il ragazzino non aveva intenzione
di demordere. “Beh,
che tu ci creda o no, devo farlo sbocciare”
“E
come fai? Non hai mica un potere come il Cavaliere dei Pesci”
constatò il
bambino, andando involontariamente a toccare il nervo scoperto di
Ayame, che ci
mise qualche istante a formulare una risposta sensata.
“Teoricamente
dovrei averne uno simile”
“Sei
un Sacro Guerriero di Atena?” domandò il bambino,
con la voce bassa da
cospiratore ma il volto illuminato dall’ammirazione.
“No,
non proprio, sempre a livello del tutto teorico io sarei…
una dea”
A
quella rivelazione Proteo rimase qualche istante a fissarla a bocca
aperta,
quindi scosse la testa “Nah, mi prendi in giro”
Fantastico,
nemmeno
un bambino di Rodorio mi crede
pensò cupamente Ayame.
“Se
sei davvero una dea, perché non riesci a far sbocciare il
fiore?” domandò il
bambino, convinto di averla colta in flagrante.
“Te
l’hanno mai raccontata la fiaba della Bella
Addormentata?” chiese a sua volta
la ragazza, la quale stranamente ci teneva che Proteo le credesse.
“L’ho
sentita qualche volta. La raccontano ogni tanto le educatrici alle
bambine”
“Bene,
allora, è come se io fossi la Bella Addormentata. Invece che
pungermi con un
fuso sono stata punta da uno spillo ed è stato una specie di
stregone alato a
farmi questo, non una strega. Come risultato, la dea che è
in me si è
addormentata e io non ho più il potere neanche di far
sbocciare questo dannato
fiore. Ti ho convinto adesso?”
“Neanche
un po’”
“Grandioso.
E comunque direi che sei stato in bagno
a sufficienza”
Ayame
si alzò dal bordo della fontana e invitò Proteo a
fare altrettanto, ma il
ragazzino non voleva saperne.
“Non
ci torno là dentro”
“Proteo,
neanche ventiquattr’ore fa stavi per finire sotto una
macchina. Hai fatto
preoccupare tutti quanti a sufficienza, non ti sembra sia il momento di
rigare
dritto, almeno per un po’?”
“Che
succede qui?” domandò una voce alle loro spalle.
Entrambi si ammutolirono
quando videro Kanon procedere nella loro direzione. Ad un primo sguardo
sembrava non fosse nemmeno passato a darsi una ripulita dopo
l’allenamento,
aveva ancora la fronte imperlata di sudore e la tenuta era sporca di
terra.
Il
Generale squadrò severo prima Ayame, poi il piccolo Proteo,
e di nuovo quella
sensazione pervase la ragazza, la quale diede una rapida sbirciata al
bocciolo
che aveva in mano: la corolla si stava lentamente aprendo.
Era
un’occasione d’oro per provare a svelare una parte
del mistero che aleggiava
attorno a quell’uomo e non poteva lasciarsela scappare.
Provò ad inventarsi
qualcosa.
“Ero
qui che provavo a fare quello che devo, se capisci cosa intendo, quando
Proteo
è venuto a trovarmi. Ha approfittato di una pausa dalla
lezione di matematica
per fare un giro al villaggio. Gli stavo giusto dicendo che
però si era fatto
tardi ed era meglio se rientrava. Sei d’accordo con
me?”
“L’unica
cosa su cui sono d’accordo è sul fatto che siete
entrambi dove non dovreste
essere” rispose duramente, rivolgendosi poi direttamente ad
Ayame “Ti era stato
detto che non potevi girare da sola”
“C’era
una guardia con me, infatti” ribatté lei con un
tocco di supponenza.
“Eccola,
la tua guardia” Kanon indicò il limitare della
piazza, dove il soldato da cui
Ayame si era fatta accompagnare giaceva svenuto contro il muro di una
casa. “Non
è il loro compito vegliare su di te, ma il nostro. Con tutto
il rispetto per il
loro ruolo, girare insieme ad una delle guardie per te equivale ad
essere sola,
divinità da strapazzo”
“Quindi
sei davvero una dea?” domandò Proteo, con un
principio di meraviglia dipinto
sul volto.
“Mettiamo
in chiaro le cose” continuò il Generale,
frappostosi tra lei e il bambino “Mi
sono esposto a sufficienza con il Gran Sacerdote per te, cerca di non
rendermi
le cose difficili altrimenti ci metto un attimo a riportarti da lui in
cima
alla scalinata. Quanto a te, ragazzino” si rivolse poi a
Proteo, con uno
sguardo non meno severo “Vedi di alzare i tacchi e tornare
all’orfanotrofio, perché
non ho intenzione di rincorrerti di nuovo per tutta Atene”
“A-ah…
io… s-signorsì” balbettò
Proteo, il quale, invece che rifuggire lo sguardo
fiammeggiante di Kanon, ne sembrava talmente calamitato da non riuscire
nemmeno
a voltarsi per correre via. Si avviò verso
l’orfanotrofio camminando all’indietro,
incurante del fatto che potesse scontrarsi con qualcuno, cosa che
accadde
inevitabilmente. Ayame e il Generale non ebbero il tempo di avvertirlo
che il
bambino andò a tagliare la strada ad un mercante che
trasportava diverse
cassette di pomodori. Caddero entrambi a terra insieme al carico che
l’uomo
trasportava. Il mercante cominciò ad inveire contro Proteo,
completamente
ricoperto di poltiglia rossa, ma quando l’uomo
minacciò di rincorrerlo per
tutto il villaggio puntandogli contro un pezzo di una delle cassette di
legno,
vide subito il suo braccio bloccato dalla presa ferma di Kanon.
“Mi
dispiace. È stata colpa mia. Ho spaventato il
ragazzo” disse il Generale con
fermezza, mentre lasciava la presa sull’uomo.
“N-no,
voglio dire… signor Kanon, la mia
merce…” ribatté l’uomo a
fatica, indicando il
disastro ai suoi piedi e addosso al bambino.
“A
quello penserò io” intervenne Ayame, che era
accorsa per dare una ripulita a
Proteo.
Il
mercante la ringraziò con un leggero imbarazzo e
proseguì per la sua strada.
La
ragazza riprese a togliere quanto più pomodoro possibile dal
volto del bambino,
quando questi si divincolò dalla sua presa per recuperare il
bocciolo che lei
aveva lasciato momentaneamente a terra.
“Guarda!
È completamente sbocciato!” commentò
entusiasta “Come hai fatto? Allora sei
davvero una dea!”
Ayame
non riuscì a rispondere, talmente era presa dai suoi
pensieri. Ci pensò Kanon a
rispedire Proteo, ancora sporco, all’orfanotrofio.
La
corolla di petali si era completamente schiusa e sembrava assumere un
colore
sempre più acceso. Lo strano formicolio aveva completamente
pervaso la ragazza,
che riusciva a percepirlo soprattutto sulla mano che teneva il fiore,
come se
la forza vitale che l’aveva fatto sbocciare provenisse
proprio da lì.
Alzato
lo sguardo, Ayame capì da dove invece la stava captando lei.
Accanto a lei, in
piedi, Kanon stava guardando Proteo correre verso
l’orfanotrofio. Non lo perse
d’occhio finché non ebbe svoltato
l’angolo.
Non
c’erano più dubbi.
“A
quanto pare, sei uno dei pochi a cui dà ascolto, se non
l’unico probabilmente”
commentò Ayame, dopo essersi rimessa in piedi.
Sentendo
la sua voce, il Generale parve ritornare alla realtà. Senza
quasi degnare la
ragazza di uno sguardo, prese la strada verso il Santuario.
“Gli
faccio paura, tutto qui. Come alla maggior parte della gente al
Santuario del
resto” rispose cupo Kanon. Non ebbe bisogno di intimarle di
seguirlo, sentiva
la sua presenza alle calcagna, troppo vicina.
Sapeva
di aver commesso un passo falso con Proteo e proprio davanti ad Ayame,
che già
aveva visto troppi dei suoi fantasmi senza che lui lo volesse. Tuttavia
non ne
sembrava turbata, anzi, pareva che questo l’avesse invogliata
ad andare più a
fondo. Era Kanon che non era disposto ad andare oltre, a lasciarsi
travolgere
dall’uragano che Ayame si stava dimostrando essere.
“Non
gli fai paura, ti ammira” ribatté sicura lei, che
cercava di stare al suo passo
“E non fare finta che quel bambino ti sia indifferente,
perché questo dice
esattamente il contrario”
Gli
sventolò davanti il fiore, ma Kanon fece finta di non
vederlo, anche se sapeva
che quella dannata rosa era la prova evidente di quanto Ayame
probabilmente già
sospettava. Ma non doveva sapere, non doveva scoprire che razza di
persona era
stata, e in fondo forse era ancora.
Per
un attimo Atena l’aveva convinto che poteva essere un uomo
migliore, ma il
ritorno alla vita, lo scontro con la realtà del Grande
Tempio, l’incontro con
Ayame, un’altra divinità, avevano riportato
bruscamente in superficie incubi
che pensava di aver ormai sepolto nelle profondità del suo
cuore e della sua
mente e che in quel momento gli stavano annebbiando la ragione, come
era
successo in passato.
Cercò
comunque di mantenere la calma.
“Quello
dimostra solo che forse stai riuscendo a fare il tuo dovere e che a
breve non
dovrò più farti da balia”
La
superò e accelerò il passo, ma Ayame sembrava non
demordere.
“Perché
ti ostini a negare l’evidenza? È per caso un
crimine voler bene a qualcuno, sia
esso un bambino come Proteo o qualsiasi altra persona?”
Ayame
stava praticamente correndo per tenergli dietro. Per quanto fosse
consapevole
di aver quasi oltrepassato il limite con Kanon, nel profondo non era
disposta
ad accettare questo suo cinismo, forse perché implicava
accettare il fatto che
il Generale non provasse nemmeno un minimo di affetto nei suoi
confronti e
avesse accettato di prendersi cura di lei per mero senso del dovere.
“Ma
certo” continuò la ragazza, sulla scia di
quest’ultimo pensiero “È sicuramente
più facile odiare tutto e tutti, incutere timore e trattare
il prossimo a male
parole. È sicuramente più facile stare da soli,
ma ti dico una cosa: stare da
soli è da vigliacchi. Quindi ti chiedo: lo sei, Kanon di
Gemini? Sei un
vigliacco?”
Non
fece quasi in tempo a gridargli contro l’ultima domanda che
si ritrovò contro
la parete di roccia che delimitava la strada verso la Casa
dell’Ariete Bianco, lo
sguardo rabbioso di Kanon ad un palmo di naso dal suo, la mano del
Generale
stretta attorno al suo collo.
“Io
non sono un vigliacco” le ringhiò contro
“E tu non sai niente di me”
“So
quello che ti rifiuti di ammettere a te stesso” rispose Ayame
con la poca voce
che riuscì ad usare e tutta la determinazione che
quell’espressione iraconda le
permise di esternare.
Bastarono
quelle poche parole a far tornare al Generale quel poco di
lucidità che gli
permise di notare che Ayame non sembrava essere minimamente spaventata.
Non aveva
paura di guardarlo negli occhi né di ribattere con
caparbietà nonostante il suo
esile collo fosse completamente in balia della stretta di Kanon.
Fu
lui il primo a distogliere lo sguardo per abbassarlo su quella mano che
stava
nuovamente minacciando un’altra vita. Ayame vide la sua
espressione
trasformarsi da furibonda a sgomenta.
Kanon
lasciò la presa su di lei quasi la sua pelle bruciasse,
anticipando l’ordine
che giunse un istante dopo da Aldebaran, accorso sul posto insieme a
Mu. La ragazza
prese un respiro profondo e si portò istintivamente la mano
alla gola, ma non
smise mai di guardare il Generale, il quale fissava inorridito la sua
mano,
esattamente come era successo quella notte nell’incubo.
“Kanon!”
lo richiamò all’attenzione Mu, risvegliandolo
dallo stato di trance in cui
pareva essere caduto il guerriero.
Questi
si voltò prima verso i due Cavalieri, quindi verso Ayame,
che nonostante tutto
lo stava guardando con apprensione.
Corse
via, senza badare
alla direzione presa, sordo ai richiami di chi si era lasciato dietro,
inorridito da se stesso ancora una volta.
Buonasera a
tutti!
Aggiornamento un po' più rapido rispetto all'ultimo e
capitolo un po' più succoso, come giustamente suggeritomi da
marig :) andando a scavare nel profondo per quanto riguarda un
personaggio in particolare, spero di non averlo snaturato, cosa che mi
dispiacerebbe perchè è uno dei miei preferiti
della saga. Sto parlando ovviamente di Kanon, questo capitolo
è abbastanza importante per quanto riguarda soprattutto il
suo rapporto con Ayame (e volendo anche con Proteo, ma secondariamente
in questo caso). Va anche avanti il timido approccio tra Camus e
Galatea, che, in quanto tale, procederà in modo un po'
diverso rispetto, per esempio, a quello tra Psiche e Milo. Ho
introdotto inoltre il punto di vista dei 'cattivi' e un nuovo dettaglio
che svilupperò nei prossimi capitoli.
Non anticipo altro, ringrazio chi, nonostante le ere trascorse, ha
continuato a seguire la storia e spero che questo capitolo sia di
vostro gradimento.
Martyx
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