Prologo
Quando tutto era
ancora un nulla informe e indefinito Esperbar, l'Unico, infranse il tetraedro
di cristallo viola in cui si era generato per sua stessa volontà divina. Al di
fuori di esso nulla aveva alcun senso d’esistere, perciò dai frammenti del
minerale presero subito forma i suoi due fratelli Ektabar, lo Spazio, e
Plessofer, il Tempo. Grazie a costoro Esperbar, in quanto essere esistente,
fatto di corpo e anima, materia e spirito, imparò subito a percepire la sua
esteriorità nello spazio e la sua interiorità nel tempo circostanti. Non appena
Esperbar riuscì così a manifestare i propri pieni poteri, i due fratelli,
Ektabar e Plessofer, iniziarono a piangere, riconoscendo che la vita era stata
concessa loro dal fratello Esperbar e che dunque essi erano al tempo stesso
maestri, ma anche allievi. E quando la loro gratitudine cessò di manifestarsi e
i loro cuori si furono svuotati di ogni pia emozione, essi si accorsero che le
loro lacrime si erano fuse in un'unica sostanza purissima e trasparente, che
aveva preso la forma di una sfera. Colto da una caritatevole benevolenza, Esperbar
decise di fare un dono ai due fratelli che lo avevano aiutato a riconoscersi: egli
si avvicinò così alla sostanza inerte e, espirata parte del suo spirito, la
trasferì nella sfera inanimata. Subito si udì un crepitio nel vuoto circostante
e un tremito vitale incrinò la superficie della sfera, la quale iniziò vibrare
e a ondeggiare, finché, dopo alcuni istanti, prese a sgretolarsi e a
rimodellarsi in turbinii burrascosi, acquistando infine le sembianze di una
bellissima dea; in tal modo nacque la prima figlia di Ektabar e Plessofer, che
costoro chiamarono Ellasser, la Forza, o Spirito.
Così vissero per
molti giorni e molte notti i quattro dei, ma la tenerezza che fiorì tra Ektabar
e Plessofer continuava ad avvicinarli e presto iniziarono a nutrire amore l’uno
per l’altra. Tale sentimento alimentò a lungo il fuoco dei loro spiriti, finché
essi decisero di fondere le loro anime e in una fredda notte s'amarono,
giacendo e godendo l'un l'altra delle proprie virtù. Da questa unione divina si
generò il loro figlio primogenito Ordubar, ovvero la Riluttanza, o Pesantezza,
conosciuta anche come Materia. Ma sul destino dei due fratelli iniziò a calare
l’oscurità malvagia; Ellasser infatti prese a invidiare molto suo fratello,
poiché sospettava che il legame che Ordubar possedeva con i genitori Ektabar e
Plessofer, essendo di sangue, fosse più legittimo di quello che essi avevano
con lei e che per tale ragione costoro amassero più lui che lei. Un giorno
dunque Ellasser decise di mettere alla prova tale amore e, recatasi dal
fratello Ordubar, lo ammaliò con parole deliranti, velenose e dolorose. Ordubar
si lasciò convincere da Ellasser e la follia oscurò i suoi occhi; egli,
estratta così una costola dal proprio corpo, fabbricò un pugnale in grado di
penetrare la pelle di un dio e, impugnata l’arma, i due si recarono subito al
cospetto di Ektabar e Plessofer. I due genitori, spiazzati, rimasero come
pietrificati alla vista dello scempio compiuto dai due fratelli davanti ai loro
occhi; Ordubar infatti aveva ormai già affondato la scintillante lama nelle bianche
carni della sorella e una grande pozza di sangue divino irrorava il suolo
sterile. Ektabar e Plessofer corsero subito dal figlio per strappargli di mano
la crudele arma, ma costui, irrigidito come un macigno, aveva già fatto cadere
l’arma in terra e l’orrore del suo gesto stava invadendo la sua mente deviata;
poi i due dei si inginocchiarono a fianco della figlia, non curandosi del nero
sangue che risaliva le loro candide vesti. Ma il colpo di Ordubar non recise
completamente la vita della sorella, che agonizzante si stava crogiolando nella
buona riuscita del suo piano malefico; e quando Esperbar giunse per riportare
l’ordine ella fu la prima a tendere debolmente il suo dito verso il fratello.
Ma come fu la prima a incolpare Ordubar, ella fu anche l’unica: i due genitori
Ektabar e Plessofer si inginocchiarono dinnanzi al dio padre, implorandolo di
risparmiare la vita al figlio Ordubar, il quale non sembrava più essere del
tutto cosciente. Così Esperbar, dall’alto della sua magnificenza, ascoltò i
suoi due fratelli e decise di non annientare Ordubar, ma di infliggergli una
severa punizione, un supplizio: egli decise di incatenarlo per l’eternità.
Ma le suppliche
che Ektabar e Plessofer fecero a Esperbar affinché Ordubar avesse salva la
vita, sgretolarono l’animo già incrinato di Ellasser, la quale si sentì tradita
un’ultima volta dai due genitori, che, ai suoi occhi, parevano curarsi solo del
fratello. Così, pazza d'odio, per tutta la durata del processo di guarigione i
suoi pensieri deviati aumentarono e affollarono sempre più la sua mente persa
nel dolore, ed ella continuò così a maturare e a progettare trame sanguinose
contro gli dei padri. Ciò che Ellasser ignorava però era di possedere parte
dello spirito vitale di Esperbar, il quale per tale ragione riusciva a intuire debolmente
i pensieri della dea. Da dopo il misfatto costui aveva iniziato a sondare la
mente della nipote e quando infine si convinse che la parte del suo spirito che
risiedeva in lei si era ormai corrotta e logorata, abbandonandosi totalmente
all’oscurità, il dolore e il sangue erano ormai giunti alle porte. Egli decise
perciò di riprendere possesso della sua piena forza, ma ormai Ellasser, ripreso
il vigore di un tempo, aveva già concluso la sua prima mossa; giunta dal
fratello Ordubar, con l’aiuto del pugnale recise le catene che da tempo
immemore ormai stavano lacerando le sue carni e, liberatolo da quell’eterno
supplizio, aveva condotto la sua mente a perdersi definitivamente nell’oscurità
come la sua. Così, quando il possente Esperbar si presentò al cospetto dei due
fratelli con l'intento di uccidere la dea, mentre ella, strisciando in terra
come una nera serpe ricolma di veleno, lo supplicava di avere pietà e lasciarla
in vita, suo fratello Ordubar, estratta la scintillante lama dal fodero maledetto,
pugnalò il dio padre alle spalle. Esperbar dunque cadde in ginocchio, ma
nessuna arma divina avrebbe mai potuto annientare la sua vita imperitura,
perciò dopo pochi istanti, ripresosi dal vile volpo, si rialzò in piedi e,
accecato dall’ira, vibrò un colpo poderoso verso Ordubar; l'oscurità perenne
calò sugli occhi di ghiaccio del dio, il quale esplose in mille frammenti che
si misero a vagare a grande velocità nell'universo. Quando poi Esperbar si
volse alla dea per porre fine alla sua misera vita, ella era già fuggita alla
sua vista e molto spazio ormai intercorreva tra i due nemici.
Dall’unione del sangue traboccante d’ira di
Esperbar e dell’arma maledetta prese forma una creatura del male, chiamata
Xanfer, ovvero la Rovina, anche spesso detta Morte. Costei riuscì col passare
del tempo a non far spegnere nell’animo di Esperbar quella stessa ira che aveva
permesso la sua nascita, ma anzi ad alimentarla tanto da accecare la vista
imparziale del dio. Esperbar quindi, sotto il rovinoso consiglio di Xanfer,
decise di dare la caccia alla dea che aveva oltraggiato la sua figura di
creatore e mantenitore della pace e che aveva portato morte e distruzione alle
porte dei cieli delle divinità. Il dio decise perciò di servirsi dei grandi
poteri dei fratelli Ektabar e Plessofer ma, rifiutandosi essi di collaborare
all’uccisione della loro propria figlia, egli li incatenò ai piedi di Xanfer e
impose loro il suo doloroso dominio. Così partirono i quattro dei alla ricerca
della traditrice che tanto aveva osato contro di loro e Xanfer, sotto la severa
sorveglianza di Esperbar, costringeva Ektabar e Plessofer a piegare lo spazio e
il tempo al proprio volere al fine di rintracciare la fuggitiva. Ma il piano
malvagio di Ellasser non era certo ancora giunto a conclusione; nessuno degli
dei infatti sapeva che ella fosse incinta del fratello Ordubar e che nel suo
grembo si stava sviluppando la più orrenda delle creature, una bestia nata
dall'odio e non dall'amore, un mostro che, se avesse visto la luce del mondo,
avrebbe minato alla sopravvivenza e alla stessa esistenza degli dei padri. Passò
dunque molto tempo dall’atto sanguinoso di Ellasser a quando gli dei padri
decisero la loro contromossa e giunse perciò anche il momento per la dea di
partorire l'orrore che giaceva ormai da tempo immemore nel suo grembo e che
rappresentava il culmine delle sue trame; esso si presentò sotto le candide
sembianze di un’esile bambina che ella volle chiamare Arwafer, la Vita.
Un giorno però,
quando Arwafer era ancora una piccola e gracile bambina, Ellasser, voltatasi
all’indietro, vide in lontananza dei piccoli puntini di flebile luce che stavano
costellando il nero orizzonte. Via a via che la fuga delle due dee proseguiva,
queste piccole fiaccole divenivano ogni giorno più grandi, tant’è che parevano
avvicinarsi a loro; e infatti dopo poco tempo, quando questi furono abbastanza
vicini a loro, Ellasser e Arwafer intuirono che quella miriade di piccoli
oggetti luminosi provenienti dallo spazio siderale che avevano scorto giorni
addietro e che stava attraversando quelle lande desolate a una grandissima
velocità, non era null'altro che un accozzaglia di porzioni del corpo del
defunto Ordubar. Ellasser, colta dal panico, pensò quindi che se essi l'avevano
raggiunta Esperbar, quantunque avesse preso ad inseguirla, non avrebbe dovuto
trovarsi molto distante da loro; infatti ella percepiva ormai da tempo che il
suo spirito si stava lentamente spegnendo e che, stilla dopo stilla, esso stava
abbandonando il suo corpo per ritornare al proprietario primogenito. Dall’alto
delle sue responsabilità verso la figlia Arwafer, la dea decise però di
arrestare la sua corsa poiché perseverare nella sua fuga a nulla le sarebbe
servito se non ad allungare la sua già lenta agonia. Ma la rabbia verso gli dei
padri non si era spenta e, anzi, aveva ancora dimora nel cuore di Ellasser; perciò
ella, conscia del fatto che Esperbar non avrebbe riposto la sua lama fatale nemmeno
davanti alla piccola Arwafer, dopo aver trasferito nella figlia ciò che le
rimaneva della forza del dio, depose costei su un frammento del fratello,
affinché fosse celata alla vista di Esperbar e continuasse così, indisturbata,
la sua folle corsa verso la libertà. Per l’ultima volta la madre vide così la
figlia, che si stava allontanando da lei per sempre, verso l'infinità
dell'universo.
Presto dunque
Esperbar, furente, giunse al cospetto della dea; insieme a lui viaggiavano gli
altri tre dei: mentre Xanfer, vigorosa, si ergeva potente dinnanzi alla
condannata mostrando un malefico ghigno, emblema di vittoria, Ektabar e
Plessofer invece nulla erano più se non pallide ombre dell'antico splendore che
li aveva avvolti all’inizio dei tempi. Nemmeno quando Esperbar fu in procinto
di annientare Ellasser i due vecchi genitori sembrarono curarsi di ciò che stava
accadendo attorno a loro; il loro sguardo era ormai spento e vitreo e più
nessuna luce riusciva a evadere dai loro occhi. Al contrario dei due fratelli
Xanfer si compiaceva di quello che sarebbe stato di lì a poco il suo trionfo
personale. E quando la vendetta divina fu compiuta, il nero sangue di Ellasser
versato e l'ordine ristabilito, Esperbar, a braccia aperte, si eresse fiero
come una statua di bianco marmo a capo degli ormai pochi dei superstiti. Ma
qualcosa turbò il suo animo, che da innumerevole tempo non era saldo quanto il
suo aspetto lasciava intuire che fosse; egli, dopo aver ucciso la dea, percepì infatti
un chiaro segno dell’indebolimento del suo potere anticamente illimitato, sentì
come una vibrazione nell'intera esistenza e solo in quel preciso istante si
accorse di essere stato defraudato di una parte delle proprie forze. E proprio
questa parte del suo potere risiedeva ormai in Arwafer, si era fusa con il suo
spirito e dimorava nelle sue viscere, ma ella, lontana dallo sguardo di
Esperbar, stava crescendo rigogliosa sugli antichi resti del padre.
Ma la natura di
Arwafer sembrava essere tutt'altro che di matrice divina, ella non si
crogiolava nel suo grande potere, non godeva appieno del respiro vitale di
Esperbar che le avrebbe concesso di elevarsi al pari degli altri dei; Arwafer
infatti non riconosceva di essere una divinità e, al contrario di quest’ultime,
non provava attaccamento per il proprio potere. Ella ogni volta che incontrava
quei freddi e spogli resti del venerando padre, che facevano capolino
dall’infinità dell’universo, faceva dono a essi di una piccola parte del
respiro di Esperbar affinché anch’essi potessero godere dei frutti della vita.
Così, agli occhi degli dei padri, il disordine e il caos presero il sopravvento
sull’ordine ferreo costituito da Esperbar all’inizio dei tempi, poiché Arwafer
stava concedendo all’imperfetta materia inanimata quei tratti che erano
puramente di carattere divino. Sembrava che non vi fosse alcuna fine a questo
scellerato agire di Arwafer e Esperbar sentiva ogni giorno di più che il suo
spirito si divideva in tanti piccoli frammenti sparsi per tutto l'universo, e
più egli cercava di riconquistare il suo pieno potere, più questi si dividevano
nuovamente, velocemente e incessantemente, divenendo una miriade di briciole
sempre più piccole, innumerabile anche per un dio. Più il tempo passava e più
nella mente di Esperbar si faceva strada la convinzione che non sarebbe mai
riuscito a riottenere i suoi pieni poteri; nonostante, infatti, si servisse
della sua amata Xanfer che, tramite la manipolazione che Ektabar e Plessofer
compievano su tempo e spazio, cercava di separare e dividere, riunire e fondere
i frammenti di spirito, essi, ormai plagiati da Ellasser, continuavano a
sfuggire al suo controllo.
Fu dunque questo
l'inizio di ogni disgrazia e di ogni patimento, l'inizio del prevalere del caos
sull'ordine, della vittoria della caducità viziosa sull'eterna perfezione, ma
soprattutto la storia di come la vita si sia dispersa nell'universo, sfuggendo
al controllo del grande Esperbar.
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