Cardi
e spighe di grano
Il cielo è grigio, tetro, ampie nubi cariche di
pioggia che si stagliano in alto.
La portiera del
passeggero cigola mentre si apre, lasciando scendere un’esile
figura.
Un rumore improvviso
attira l’attenzione del giovane appena sceso dalla vettura,
portandolo ad alzare lo sguardo sopra di lui:dei corvi neri volano in
circolo in aria, come un cattivo presagio.
Mentre lascia che la
propria portiera si chiuda alle sue spalle, sente quella dal lato
opposto cigolare mentre si schiude appena, lasciando sgusciare fuori
un’altra persona.
Kidou si sente
osservato, uno sguardo puntato sulla sua schiena che lo infastidisce e
non poco … detesta essere osservato. Muove qualche passo,
l’asfalto è ancora umido per un recente temporale.
L’aria è fredda e frizzante, un vento leggero
soffia sul panorama, facendo vibrare qualunque cosa gli capiti a tiro,
compresa la schiena del ragazzo.
«Ricordami
perché siamo qui, te ne prego».
Una voce calda, eppure
dal tono leggermente sbigottito, lo distrae dal suo ragionare. Scuote
la testa, come per riprendersi da una qualche sorta di stato di trance,
quindi muove qualche passo in direzione del guardrail metallico di
fronte a lui, incerto.
Sospira appena ma
è quasi un’azione di riflesso la sua, non tanto
dettata da emozioni o qualcosa di simile.«Ho bisogno di una
cosa»si limita a replicare«e questo è
l’unico posto dove posso trovarla».
Le scarpe di tela nera
si muovono ora più rapide e decise, tanto che finalmente
raggiunge la barriera, scavalcandola. Altri passi risuonano nel
silenzio più assoluto alle sue spalle, fino a che non
avverte la presenza di un corpo accanto al suo.
«Non
penserai davvero di saltare giù»sente commentare
quasi in un soffio quella stessa voce, ora carica di angoscia.
Kidou flette appena le
ginocchia, sorridendo serafico.«Perché, se anche
fosse cosa cambierebbe?».
Prima che possa
ricevere una risposta spicca un balzo leggiadro, atterrando con grazia
al suolo. Non era un gran dislivello quello che gli si proponeva
davanti ma evidentemente il suo accompagnatore era stato colto da un
improvviso attacco di apprensione.
Kidou si
volta, un sorriso vittorioso dipinto in volto, quindi lo
provoca:«Non avrai paura di scendere, no? Oppure se
preferisci ci vado da solo …».
In risposta riceve
un’occhiata stizzita ma sente comunque
ribattere:«Va bene, va bene, ho capito, ci vengo pure
io», dopodiché si limita a seguirlo con lo sguardo
mentre scende lentamente lungo un avvallamento del terreno, alzando un
po’ di polvere nei punti in cui la terra non è
stata colpita dalla pioggia.
Quando finalmente
raggiunge a sua volta il suolo sfoggia
un’espressione trionfante e fa per avvicinarsi al ragazzo,
tuttavia Kidou si volta rapidamente, rivolgendogli nuovamente le
spalle, mentre si avvia lungo una strada apparentemente aperta in mezzo
ad un campo di grano che pare sconfinato, così non gli
rimane altro da fare che seguirlo.
Yuuto cammina sicuro,
seppur il sentiero sia un po’ intralciato da rovi e rami
secchi, tra le dorate spighe di grano del campo, appena ondulate dal
vento. Gli steli sono incuneati verso il basso, piegati dai recenti
piovaschi. Kidou stende un braccio verso l’esterno,
lasciandolo planare sul morbido tappeto dorato intorno a lui, il vento
che muove anche la sua camicia azzurrina, dalle maniche rassettate fino
ai gomiti, così che gli avambracci sottili rimangano
scoperti ed esposti anche loro al vento leggero, mentre un lembo della
maglietta si alza appena, lasciando intravedere un lembo di pelle nuda,
così rosea e morbida, del fianco.
Per un momento, forse
troppo lungo, gli occhi della persona dietro di lui si soffermano su
quel fianco scoperto, quasi avvertendo la necessità di
allungare una mano per lasciare che le dita traccino un percorso
invisibile su quella pelle perfetta … l’istante
dopo però quegli stessi occhi si costringono a cambiare
direzione, quasi in collera con loro stessi per i pensieri ben poco
licenziosi che hanno permesso alla mente di elaborare, mettendosi
così a fissare il frumento dorato ed appena appassito.
«Una cosa
che non potevi trovare da nessun’altra parte se non in un
campo nel bel mezzo del nulla?»domanda ancora quella voce,
forse più per convenzione che per altro.
Kidou ritrae il
braccio, sbuffando sonoramente mentre replica:«Possibile che
non debba mai andarti bene niente?».
Stavolta
dall’altra parte non giunge risposta, così Yuuto
si limita a proseguire lungo quel campo immenso, gli unici rumori che
gli tengono compagnia sono ora il suo respiro mite, lo scalpiccio dei
passi tra le sterpaglie ed il fischio del vento, intervallato di tanto
in tanto dallo sporadico gracchiare dei corvi. Di colpo Kidou si ferma,
notando un piccolo avvallamento a pochi passi da lui. Dopo un attimo
d’incertezza ci si dirige sicuro, fermandosi solo non appena
ne raggiunge il limite.
Si inginocchia sul
terreno umido, forse macchiandosi appena i jeans mentre protende le
braccia verso il basso, sporgendosi pericolosamente in direzione di
quei rovi pungenti.
«Ti farai
male»si sente ammonire dalla voce sopra di sé.
Finge di non aver
sentito quel rimprovero e si limita a ribattere:«Il vaso.
Presto».
Sente la zip di una
borsa aprirsi, gli oggetti al suo interno vengono rivoltati mentre le
mani frugano alla ricerca di qualcosa. Poco dopo vede un vasetto di
vetro di quelli delle confetture, accuratamente lavato e privo di
etichetta, che cala fino all’altezza dei suoi occhi,
già privo del tappo color oro.
Yuuto armeggia ancora
un po’ con la pianta, una smorfia di dolore sempre
più evidente che si forma sul suo volto. Alla fine
però, con uno strattone deciso, riesce a sradicarla,
stringendola finalmente per intero tra le sue mani. La fa cadere quasi
subito nel vasetto, i palmi ormai fin troppo indolenziti e sanguinanti
per tenerla oltre, dopodiché torna a chinarsi e riprende il
suo lavoro.
Quando ritiene di aver
recuperato piante a sufficienza si rimette in piedi, se non avesse
paura di macchiarsi ulteriormente i pantaloni con il sangue cercherebbe
di cancellare le tracce di terra, tuttavia si limita a rimettersi
nuovamente in cammino, stavolta percorrendo all’indietro la
strada fatta in precedenza.
Sente dei passi svelti
che lo raggiungono, le piante che tintinnano contro il vetro mentre si
sente domandare:«Posso sapere per quale motivo abbiamo fatto
tutta questa strada se quello che ti serviva era una semplice pianta
infestante?».
Kidou gli lancia
un’occhiata dubbiosa, sorpreso, dopodiché torna a
puntare lo sguardo cremisi sul terreno davanti a sé mentre
spiega:«Quelle non sono delle semplici piante infestanti,
Kageyama, bensì dei cardi. Qualche giorno fa mi è
capitato di leggere, su un vecchio manuale che ho trovato nella tua libreria che,
secondo il linguaggio vittoriano dei fiori, il cardo rappresenta la
misantropia, vale a dire la caratteristica di chi è
solitario, odia il mondo intero e rifugia ogni genere di compagnia.
Rivedendomi molto in tale sentimento, ho ben pensato che avere sempre a
portata di mano un paio di cardi a ricordarmi sempre chi sono facesse
proprio al caso mio».
Reiji vorrebbe
obiettare che, se il suo desiderio era quello di raccogliere delle
piante che crescono praticamente ovunque non c’era motivo
alcuno di fare tutta quella strada, tra l’altro i cardi sono
rinomati per avere lo stelo ricoperto di spine particolarmente aguzze,
tanto che Yuuto si è riempito le mani di tagli e quando
arriveranno a casa la prima cosa che farà sarà
disinfettargliele per bene, oltretutto sono anche sporche di terra a
causa dell’ambiente nel quale si trovano. Però
decide di non dirglielo, di non farglielo pesare, non vorrebbe mai
farlo soffrire, così si limita ad aprire le braccia, come se
in questo modo volesse circondare tutto il panorama intorno a loro per
poi domandare:«E queste spighe di grano, allora? Anche loro
hanno un significato?».
Yuuto arriccia le
labbra, come se stesse pensando a qualcosa che lo infastidisce, oppure
nel tentativo di afferrare qualcosa di lontano nella sua memoria,
sepolto sotto strati e strati di conoscenza, quindi lancia una rapida
occhiata a Kageyama prima di rispondere:
«Prosperità. Oserei dire che non ne sento bisogno
alcuno».
Cala di nuovo il
silenzio e nessuno dei due sembra intenzionato ad aggiungere altro. Per
un attimo Kidou rimane ad osservare Kageyama che, sempre al suo fianco,
lascia scivolare una mano sulle spighe, quasi carezzandole. Poi si
limita a proseguire rapidamente, lasciandoselo alle spalle mentre
continua ad avvicinarsi sempre di più alla strada.
È
tutto buio. Ancora una volta.
Quasi
riesce a sentire di nuovo quell’odore stantio e le schegge di
legno che, lente ed inesorabili, penetrano dolorosamente nella pelle,
incidendola, ferendo quel corpo nel profondo della sua anima.
Ed
eccolo di nuovo lì, lo spettro di quell’esistenza
così infima, sembra quasi allungare le sue mani fuligginose
verso di lui, come se quelle dita così arcigne volessero
afferrarlo nuovamente, per trascinarlo nel loro baratro oscuro,
infinito, senza via d’uscita.
Quelle
grida … quasi riesce a sentirle di nuovo.
Per
favore … aiutatemi! Fatemi uscire di qui! Non …
non riesco a respirare …
Yuuto si risveglia,
ancora una volta, boccheggiando. Balza a sedere in piedi, gli occhi
spalancati per il terrore, il fiato corto per le immagini che, ancora
una volta, gli sono passate indisturbate davanti agli occhi.
Di nuovo quella stanza
… di nuovo quell’incubo. È da
così tanto tempo che ne è perseguitato da averne
ormai perso il conto.
D’altronde,
come biasimarlo? Per anni era stato costretto a subire quella tortura,
rinchiuso in una stanza in cima alle scale ad ogni occasione. Quel
posto era terribilmente piccolo, si ritrovava perennemente schiacciato
tra la porta e la parete lignea che si stagliava alle sue spalle,
costringendolo in quell’ambiente dal calore asfissiante,
senza finestre, così che l’aria fosse viziata ed
irrespirabile.
Nessuno apriva mai la
porta e lui rimaneva bloccato in quel posto orribile per giorni,
piangendo e pregando di essere liberato, senza ovviamente che la sua
richiesta fosse accettata.
Alla morte dei suoi
genitori era stato affidato ad un orfanotrofio. Nessuno si era mai
accorto delle torture che aveva subito, erano state ben occultate. Non
uno si era proposto di adottarlo, d’altronde chi mai avrebbe
voluto un bambino taciturno e perennemente imbronciato e pensieroso,
con strane cicatrici rossastre che, secondo alcune voci malvagie che
giravano di stanza in stanza, erano state causate da riti satanici.
Perché non
credervi, dopotutto? Con gli occhi rossi che si ritrovava certe dicerie
potevano sembrare più probabili della realtà
stessa.
Yuuto avrebbe di gran
lunga essere figlio del diavolo in persona e forse era proprio questa
la verità, dopo tutto il male che aveva subito portare
ancora il cognome Kidou gli faceva venire il voltastomaco.
Eppure, per questioni
burocratiche, quel cognome lo avrebbe perseguitato per il resto
dell’eternità, come un marchio indelebile di una
colpa che non aveva e che, tuttavia, non poteva cancellare in nessun
modo.
Si guarda intorno, con
ancora il fiato corto, cercando di fare mente locale. Si trova in una
stanza accogliente, seduto su di un letto morbidissimo, avvolto tra
lenzuola dal candido color panna, l’odore del tè
al bergamotto che aveva sorseggiato ormai ore fa che ancora aleggiava
tranquillo nella camera da letto, il suo preziosissimo libro sul
significato dei fiori assegnato in epoca vittoriana poggiato sul
comodino.
È tutto
tranquillo, fuori è ancora notte, il buio appena rischiarato
dalla luna, alcuni raggi filtrano timidamente dalla finestra,
rivestendo la moquette a terra di chiazze di luce meravigliose.
È fortunato
ad aver trovato quel posto che, dopo mesi, finalmente si sente di
definire “casa”.
Quando, compiuta
l’età necessaria per essere autosufficiente, era
stato dimesso dall’orfanotrofio, si era ritrovato in un mondo
freddo ed oscuro, del quale ignorava ogni cosa. Incontrare, in quel
mondo folle e frenetico, una persona tanto gentile come Kageyama era
stata la sua più grande salvezza, un’ancora in una
società in tempesta.
Ci sono voluti mesi
perché imparasse a fidarsi di lui ed a non rivolgergli,
spesso e volentieri, un’espressione scontrosa. È
stata dura ma ora, perlomeno da quel punto di vista, può
dire di aver fatto grandi passi in avanti. Si sente quasi sollevato
nell’aver trovato, per la prima volta in vita sua, una
persona che, sebbene conosca tutta la verità su di lui, non
gli rivolga quegli sguardi compassionevoli che odia, sebbene per tutto
il resto del mondo sembri ormai essere una prassi sfiorarlo con quel
genere di emozione negli occhi.
Ci aveva messo molto a
raccontare tutta la verità a Kageyama ma alla fine
l’aveva fatto. Ne era valsa la pena.
Guarda quel corpo
disteso accanto a sé, sempre pronto a stringerlo ed a
rincuorarlo nel cuore della notte, al sopraggiungere di ogni singolo
incubo. C’è un’espressione beata dipinta
su quel volto, mentre riposa tranquillamente sotto le coperte.
Anche a Yuuto viene da
sorridere, mentre lascia che il suo sguardo si posi sulla cassettiera
in fondo alla stanza. Lì, nell’angolo
più vicino alla finestra, giacciono i cardi che ha raccolto
quel pomeriggio, nel loro vaso di vetro:la luce della luna li irradia
completamente, con delicata grazia.
È vero, si
è ferito per prenderli … eppure ne è
fiero. Le sue mani ora sono ricoperte di bende e Kageyama ha curato con
estrema attenzione la pelle lesa, riversandovi sopra grandi
quantità di disinfettante. Non sono però nemmeno
quelle attenzioni ad inorgoglirlo tanto:è piuttosto la loro
presenza, lì, in quell’angolo della cassettiera
che lo rende felice, ricordandogli il suo passato. Non è
detto, infatti, che quello debba essere anche il suo futuro.
Si accorge solo ora
che, tra i cardi, spunta una piccola spiga di grano. È
abbastanza certo che l’abbia messa Kageyama ma non ha la
più pallida idea di quando l’abbia fatto,
né tantomeno del perché.
Chissà
che un giorno, magari, il futuro non possa riservare un po’
di prosperità anche per loro due.
Si distende di nuovo
sul morbido materasso, accoccolandosi contro quel petto caldo e nudo
che sa di speranza, sa di salvezza.
Va
tutto bene, ora. Era solo un brutto sogno.
*
Angolo dell’autrice *
Di ritorno dal mondo
dei morti, eccomi di nuovo qui!
{con questa storia
altamente deprimente, certo, but
who cares?}
Buon salve, gente!
Come va?
Io, ve lo dico subito,
malissimo:la scuola è ricominciata e mi sento uno zombie
come mai prima d’ora in vita mia.
Comunque.
Ci tenevo ad
informarvi –alcuni già lo sanno– che ho
modificato il mio nickname da Aria_black a _Porpora_ .
Ma sono sempre io, eh.
Un po’ esaurita dalla scuola, certo, ma sempre io.
Passiamo alle cose
serie:le spiegazioni riguardanti la shot. Allora, come avrete potuto
notare è ispirata al libro “Il linguaggio segreto
dei fiori” di Vanessa Diffenbaugh, che amo profondamente. I
significati dei cardi
e del grano
(o frumento
che qualsivoglia dire) sono quelli riportati nel dizionario alla fine
del libro. Ammetto che inserire anche il significato del frumento
è stata una decisione presa all’ultimo
momento:l’ambientazione della prima parte della shot mi
frullava in mente già da un paio di giorni, quando poi per
curiosità sono andata a controllare il significato del
frumento mi sono accorta che poteva starci bene pure come messaggio da
reinserire a fine shot … una sorta di bagliore di speranza,
insomma.
E così
è stato.
Come al solito mi
piacerebbe sapere che impressione vi ha fatto questa storia, le
recensioni sono sempre ben accette, lo sapete.
Bene, penso che per me
sia finalmente arrivato il momento per tornare a rintanarmene nel mio
angoletto. Chiedo scusa se sono scomparsa di recente ma la mia voglia
di scrivere si è presa una vacanza permanente e non ho idea
di quando tornerà del tutto. Per ora l’ha fatto
sotto forma di questa shot, la prossima … chissà!
Okay, mi taccio.
A presto (spero)
Aria ~
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