La maschera bugiarda di un clown di
pezza
Frey era solo
una
maschera. Una maschera che recitava Fisheye
Placebo e che reclamava la libertà, pretendendo di
essere viva.
Ma
Frey
non era nulla se
non polvere che una volta era stata roccia, consumata dal suo stesso
spasmodico
ed utopico sogno. Irraggiungibile.
Non
c’era alcuna verità in
quel viso da bambino e quegli occhi ora vispi ora di chi è
già morto da un
pezzo.
Frey
è il nome di un
fantasma, bianco come i suoi capelli. Lo stesso colore di
ciò che non ha una
storia, la neve non ancora calpestata.
Vance ha i
capelli neri,
un nero che segna lutto, ma è già qualcosa. Il
nero dei mostri notturni, ma che
col tempo si imparano a non temere più, perché
sotto il letto non c’è nulla di
più dei coniglietti di polvere.
I
fantasmi, invece, si
temono sempre. Perché esistono, e non devono essere per
forza le anime di
morti.
Frey andava al
liceo, e
nascondeva un corpo troppo fragile sotto le felpe larghe e pesanti come
ancore.
Il ghigno era sbieco come una freccia in volo, pronta a schiantarsi e
ferire.
Frey si era
schiantato. Un
ragazzino inzuppato dalla pioggia, unico davanti a quell’orda
di uomini neri
inginocchiato sulla strada. E sorrideva.
Aveva
portato centinaia di
persone a morire, eppure sorrideva ancora.
Perché
Frey
era solo una
maschera, e una maschera che ghigna non piangerà mai.
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