Sciossione d'Anima
PROMPT:
Immagine
M: "Time
Machine" by Joe-Roberts (la stessa usata per il titolo)
Citazione n.4: "Tutti
i miei dominii per un istante di tempo" - Elisabetta I
Note
autore
È
la prima volta che mi cimento nel femslash.
Il racconto è piuttosto criptico, sicuramente al lettore
sorgeranno delle domande: alcune troveranno risposta nei prossimi
capitoli, altre probabilmente saranno destinate a rimanere irrisolte.
Il bello, secondo me, è che ogni lettore può
viaggiare con la fantasia e immaginare le risposte che più
gli sembrano adatte.
Ci
sono un’infinità di modi diversi
per dire “ti amo”:
Allaccia la
cintura
Fai
attenzione a dove metti i piedi
Riposati un
po’
Non fare
affidamento su quell’orologio.
La storia della mia vita
può essere riassunta brevemente
così: c’era una volta un orologio, poi
l’orologio si fermò e io divenni parte
integrante della quarta dimensione. Per quanti vogliano eventualmente
conoscere
i dettagli della vicenda, mi sono presa la libertà di
sigillare il mio
resoconto in un luogo sicuro tra le pieghe dello spazio-tempo:
precisamente in
un cassetto della mia nuova specchiera.
All’Ibizu
Kilea, pub
situato sulla
strada di raccordo per il più grande spazioporto terrestre.
Ero seduta a un
tavolo laterale e osservavo la pioggia scendere in rivoli oltre la
finestra che
avevo di fianco. All’esterno, sull’ampia strada
principale, c’era traffico e
anche il marciapiede era piuttosto affollato; a quell’ora i
lavoratori dello
spazioporto che avevano finito il turno si riversavano lungo la via per
tornare
a casa a cenare. Le ultime luci del giorno, che filtravano fra le
spesse nubi
temporalesche, stavano abbandonando gli imponenti grattacieli di
cristallo
nelle fauci della notte. Dalla mia posizione si vedeva un fiume di
ombrelli
colorati scivolare lento sotto il diluvio e si udivano i clacson degli
automobilisti impazienti ogni volta che qualcuno tardava a partire
quando
scattava il verde.
L’Ibizu
Kilea
era un posto accogliente e dal vago sapore esotico; mi piaceva
soprattutto
perché, essendo vicino allo spazioporto, aveva
un’ampia gamma di scelta fra le
pietanze e il costo era accessibile a tutti.
Ero in quel
locale perché avevo appuntamento con Linsdy, la mia migliore
amica. La
aspettavo ormai da mezz’ora e il cameriere era passato
già due volte per
chiedermi se volevo ordinare. Non era da lei dare buca in quel modo,
non
rispondeva nemmeno al cellulare: ero abbastanza seccata, quindi decisi
che
avrei aspettato altri cinque minuti, poi avrei ordinato qualcosa da
asporto e
me ne se sarei tornata nel mio alloggio per studenti.
Mentre
aspettavo mi persi a osservare la famigliola di srehitani seduta al
tavolo di
fronte al mio. Con i loro capelli verdognoli e il mento lungo a punta
erano
inconfondibili: madre, padre e i due piccoli scalmanati sembravano
tutti molto
felici. Avevo studiato srehitano il primo anno
dell’università come terza
lingua, ma riuscii a comprendere gran poco di ciò
che si dicevano
perché usavano troppe espressioni dialettali. Qualcun altro
al posto mio avrebbe
potuto pensare che lo facessero apposta per non farsi capire.
Ultimamente,
sulla Terra, s’incontravano pochi esseri provenienti da altri
sistemi solari;
nonostante gli sforzi del governo mondiale per promuovere
l’integrazione,
sembrava che i pregiudizi fossero profondamente radicati nella razza
umana, che
non smetteva di trovare ogni giorno un nuovo pretesto per muovere
guerra contro
i propri fratelli. Non era illogico pensare che si fosse arrivati
più
volte alla soglia
dell’autodistruzione, anzi, forse il pianeta Terra
già non esisteva più da un
bel pezzo, ma qualcuno era provvidenzialmente tornato indietro nel
tempo e
aveva modificato la realtà. Perché no? La
tecnologia per i viaggi nel tempo
esisteva ormai da due decenni; non si poteva di certo escludere la
possibilità
di vivere in un ramo temporale creato artificialmente.
Il rumore di
qualcosa di vetro che va in frantumi mi distolse improvvisamente dai
quei
pensieri. Uno dei piccoli srehitani al tavolo di fronte aveva urtato
un
bicchiere che, a contatto con il pavimento, era finito in pezzi; i
cocci
taglienti si erano sparsi a terra fino ad arrivare sotto al mio tavolo.
Un
robot addetto alla pulizia del locale si attivò,
uscì dalla sua nicchia scavata sulla parete e venne a
portare via i resti
del bicchiere rotto. In quello stesso momento la porta del locale si
aprì ed
entrò lei, accompagnata da una raffica di vento e
pioggia. Linsdy mi
vide subito e mi raggiunse schivando il robot e saltellando in
corrispondenza dei
cocci per evitare di pestarli. Si sedette al mio tavolo senza salutare
e senza
nemmeno scusarsi per il ritardo. Non aveva l’ombrello, quindi
era fradicia, ma
la trovavo bella anche con quell’aspetto un po’
trasandato. Apprezzavo la sua
trasparenza: le si poteva leggere nello sguardo la storia della sua
vita, una
storia a tratti felice e a tratti sofferta.
«È possibile che ogni volta che io e te
ci incontriamo debba piovere?!»
Disse
proprio
così, mentre cercava di scostare i capelli umidi che le si
erano appiccicati al
viso. Non sembrava infastidita, il suo tono era divertito. Mi
fissò con i
quei suoi grandi occhi verdi, cercando di carpire qualche informazione
dalla
mia espressione.
«Stavo
per
andarmene», dissi atona.
«Perché?
L’appuntamento non era per le diciannove?», chiese
stupita.
«Esatto.
Adesso
sono le diciannove e trenta passate.»
Controllò
l’orologio da polso, poi se lo sfilò e lo
appoggiò sul tavolo: era rimasto fermo a mezz'ora fa. Si
trattava un oggetto di fattura chiaramente extraterrestre, con tre
quadranti - uno centrale e due laterali più piccoli - e
cinque lancette.
«Dovrò portarlo a
riparare», disse.
«Non
sarebbe
una cattiva idea. E potresti anche cominciare a rispondere alle
chiamate»,
risposi stizzita.
«Accidenti!
Avrei dovuto avvisarti: ho attivato il numero gioviano!»
Assunse
un’espressione così dispiaciuta che
riuscì a farmi sentire in colpa per la
freddezza con cui la stavo trattando, poi continuò:
«Non essere arrabbiata,
Edra. Quello che conta è che adesso sono qui.»
Sorrise, e dopo una breve pausa
iniziò a raccontarmi le sue novità. Per il
master, l'università le aveva
affidato un incarico in collaborazione con la colonia spaziale
orbitante
attorno a Europa, una delle lune di Giove. Lì, da quello che
avevo capito, c’erano
le condizioni ottimali per studiare gli effetti delle oscillazioni
gravitazionali sui vegetali coltivati in laboratorio.
Ci conoscevamo
dalle elementari e, da che io ricordassi, Linsdy aveva sempre
dimostrato un
grande interesse per il tempo e gli orologi, come me. Durante
l’intervallo
eravamo solite giocare a “predoni del tempo”;
raccoglievamo fiori e sassi nel
giardino della scuola per poi nasconderli nello scantinato in cui era
espressamente vietato entrare: consideravamo quel posto il nostro
rifugio
segreto dove portavamo tutti i bottini saccheggiati durante nostre
fantasiose
scorribande temporali. Quando, raggiunta la maturità,
arrivò il momento di
scegliere il percorso di studi, lei, per qualche strano motivo, scelse
biologia
spaziale.
«Hai
già deciso
che cosa farai dopo?», mi chiese.
«Penso
che
andrò a dormire.» Alla mia risposta rise come una
matta.
«Ma
no,
intendevo dopo gli studi», disse cercando di ricomporsi.
Mi
venne voglia
di rispondere con qualche altra assurdità per farla ridere
di nuovo, però mi
trattenni.
«Non
è che
abbia molta scelta. Con una laurea in cronoquantistica posso solo
sperare di
essere assunta all’Agenzia di Viaggi nel Tempo per
Benefici
Storici.»
«La
Titraahibe?!
Sarebbe fantastico! Sei sempre stata una grande appassionata di viaggi
nel
tempo!»
Non sono i viaggi nel tempo in sé, ma il concetto
profondo e la struttura del
tempo che mi affascinano, ma non glielo dissi. Ero convinta che
svelandole le
mie emozioni, quelle avrebbero perso valore e sarebbero diventate
qualcosa di
banale. Per aumentare la mia motivazione avrei dovuto dimenticare io
stessa le
ragioni che mi spingevano verso quella strada. Consideravo il tempo
come una
prigione ma, per quanto fosse piacevole starci dentro, io ambivo a
trovare una
via per evadere e sondare l’ignoto.
Solo ora mi rendo conto che, per colpa delle mie paranoie, non sono mai
riuscita a farle capire pienamente ciò che provavo per lei.
Nelle relazione sociali sono sempre stata incline a nascondere i miei
sentimenti. Insicurezza? Paura di mettersi in gioco e di ricevere delle
critiche? Forse un blocco emotivo causato da qualche avvenimento
verificatosi durante la mia infanzia... Credo che non lo
saprò
mai.
Un’ora
dopo
avevamo finito di cenare; fuori continuava a diluviare, s’era
fatto buio e in
strada si vedevano solo i fanali delle auto schizzare via veloci.
«Domani
ho
appuntamento con un ragazzo», mi disse,
«l’ho conosciuto perché coordina il
programma scientifico a cui parteciperò per il master.
Partiremo assieme per Giove: è un
tipo simpatico, penso
ti piacerebbe. Prima di andare a dormire devo anche preparare i bagagli
per il
viaggio.»
Avvertii
una
fitta a livello del torace; sapevo benissimo che cosa significava, ma
non ci
badai.
«Conoscendoti
metterai in valigia almeno una decina di orologi», scherzai
cercando di occultare dietro un sorriso la mia preoccupazione.
Non le avrei mai
detto nulla nemmeno ora che stava per partire:
il
motivo era sempre lo stesso, temevo che svelandole i miei sentimenti
questi
sarebbero diventati banali, fragili. Probabilmente c’era
anche una
nota d’egoismo nel
mio pensiero. Se lei non mi avesse ricambiata, il mio stato di grazia
sarebbe
stato spazzato via come foglie secche da una raffica di vento e avrei
dovuto
guardare in faccia la cruda realtà. La realtà non
m’era mai piaciuta e poi Linsdy sarebbe
pure tornata dopo aver conseguito il master, no? Fra cinque anni, ma
sarebbe
tornata, e io allora avrei potuto riprendere in considerazione
l’idea di
parlarle. “Puoi rimandare, ma il
tempo
non lo farà”, mi avrebbe risposto il
professore di fisica applicata, che amava
tanto certe uscite filosofiche ad effetto.
Linsdy
si alzò,
mi voleva lasciare la sua quota di denaro sul tavolo, ma insistetti per
pagare
tutto io, allora si sporse verso di me: profumava di angelica e
di quel riattivante elettrico che
usava nei
suoi orologi.
Le piaceva salutare gli amici baciandoli sulla
guancia; lo faceva sempre, ma quella sera dovette avvertire in me un
certo distacco e quindi, dopo un attimo di esitazione ci
rinunciò e allontanò semplicemente sorridendo.
La osservai
sistemarsi il bavero del
cappotto per ripararsi dal vento e dalla pioggia per poi tuffarsi
nell’oscurità
della notte. Io rimasi lì seduta ancora un po'. La
famigliola di srehitani,
che occupava il tavolo di fronte, se n’era andata senza che
io
me ne fossi
accorta. Al suo posto ora era seduta una tipa scompigliata che incuteva
un
certo timore; una sciarpa arrotolata sul viso lasciva intravedere
appena i suoi
occhi furtivi. Abbassai lo sguardo sul mio tavolo e notai solo allora
che
Linsdy aveva dimenticato l’orologio.
Pensai che con
quella sua dimenticanza avesse voluto concedermi una seconda
possibilità. Uscii
di corsa senza nemmeno prendere l’ombrello. Girato
l’angolo del pub, la vidi
ferma vicino al passaggio pedonale. Provai a chiamarla, ma la voce
veniva
smembrata e portata via dal vento, così mi misi a correre
sperando di
raggiungerla prima dell'avanti. Il via libera per i pedoni
scattò proprio mentre ero
a qualche metro da lei. Un autista distratto si accorse all'ultimo
momento del rosso e
inchiodò di
colpo; le ruote del mezzo scivolarono sull’asfalto reso
viscido dalla pioggia
torrenziale provocando un suono acuto. Per un attimo sembrò
che Linsdy si
stesse girando verso di me, poi l’auto ormai fuori controllo
la investì in
pieno, terminando la corsa contro un vicino lampione della luce.
L'orologio mi
cadde dalle mani.
In un primo momento restai come paralizzata,
assistetti alla
scena come uno spettatore impotente, mentre la pioggia mi entrava negli
occhi
offuscandomi la vista. Linsdy non si sarebbe mai presentata
all'appuntamento
con quel ragazzo e non sarebbe mai arrivata sulla colonia di Giove per
il
master. Il suo destino era questo: cenare per l'ultima volta con me
all'Ibizu
Kilea, dimenticare il suo orologio fermo alle ore diciannove sul nostro
tavolo e
uscire di scena con un sorriso. Io non avevo potuto nemmeno
disperarmi, perché la pioggia rubava il posto alle lacrime e
il forte vento
sembrava l'unico artefice dei miei movimenti instabili.
Abbandonato sul marciapiede, zuppo d'acqua fino nel più
microscopico degli ingranaggi, l'orologio che un tempo apparteneva a
Linsdy fu calciato lontano da un passante.
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