De mortibus amoris

di Watashiwa
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De mortibus amoris
 
Se c'era qualcosa che Zenigata non aveva mai smesso di fare era dare la caccia alla sua nemesi, Lupin.
Era uno dei casi che la polizia giapponese non aveva ancora archiviato a distanza di anni e lui, stacanovista assoluto e dedito al suo lavoro di ispettore, non si era risparmiato nel visitare e circumnavigare le nazioni del globo dove Arsenio e i suoi seguaci mettevano piede, principalmente per sgraffignare qualcosa di prezioso.
Ma quando quel dannato 8 Gennaio arrivò, la sua vita perse profondamente significato e colore, in contrasto con il colore nero di quel cartoncino trovato misteriosamente nella sua scrivania dopo un'intensa giornata di lavoro.
Non aveva avvisato nessuno riguardo quel messaggio, era semplicemente partito per conto suo con impermeabile e manette in tasca alla volta di quell'abitazione indicata dalla grafia confusionaria e frettolosa del biglietto, così inedita ed insolita, non da Lupin.
Una volta giunto a Tokyo, aveva corso a perdifiato mentre qualche fiocco di neve iniziava a scendere placido nelle strade illuminate ma deserte della metropoli, mentre un'altra meccanica giornata stava terminando per gli altri.
Trovò l'indirizzo, l'appartamento e salì le scale con la goffaggine che lo aveva sempre contraddistinto: voleva vederci chiaro, il suo cuore non voleva ancora fidarsi di quelle parole così misteriose.
Sfondò la porta di legno che lo divideva dall'obiettivo e Zenigata sentì la sua anima morire tutto d'un tratto.
Jigen e Goemon stavano in silenzio coperti di vergogna e di shock, sopportando il silenzio eterno che l'amico stava loro donando in quel momento mentre gli occhi e le mani di Fujiko tremavano dall'imbarazzo di non saper come reagire esplicitamente, nel mentre che stringeva e sfogliava uno dei tanti crisantemi bianchi che aveva portato per commemorarlo.
Zenigata guardò gli alleati del suo più grande rivale e sputò silenziosamente tutto lo sdegno per non averlo salvato da quella situazione e, mosso da quel gioco che quasi da decenni avevano messo in banco, sbraitò leggermente indeciso tirando su le manette, in direzione di quella bara così scomoda e delicata.
La scosse intimando a Lupin di rialzarsi e smetterla di giocare alla solita recita al quale era abituato e più ripeteva tutto questo, la sua voce tradiva insicurezza e il suo sguardo invocava una verità diversa da quella che aveva già supposto la sua mente.
Non c'erano respiri, non c'erano sorrisi, nè trucchi e calore che il suo corpo potesse suggerire una nuova inconcludente avventura alla sua ricerca.
Ogni sguardo al suo volto era una pugnalata, ogni giorno in cui non era stato accanto a lui era qualcosa di imperdonabile che in quel momento pesava e rendeva tutto così grigio, informe.
Non voleva versare nessuna lacrima, ma come poteva non farlo spontaneamente per quello che era diventato l'amico più onesto e caro che c'era sulla faccia della Terra?
I suoi gemiti, rumorosi e incontrollabili, risvegliarono in tutto l'ambiente un'emozione diversa e non più trattenuta che era palpabile prima del suo arrivo fulmineo e tempestoso.
In quel momento erano tutti lì per salutarlo l'ultima volta, senza più ruoli e recite da improvvisare per mostrare implicitamente tutto l'affetto che c'era.
Jigen avrebbe lasciato al suo miglior compare la pistola con il quale l'aveva aiutato a centrare ogni obiettivo, Goemon la sua katana affilata e Fujiko un crisantemo macchiato dal suo rossetto rosso più un bacio malinconico sulla guancia.
Le luci delle candele che illuminavano quella stanza si spensero improvvisamente mentre delle manette e un borsalino prendevano un breve e momentaneo volo.
Poi ci furono degli spari, netti, precisi e caricati senza paura.

Quella vita ormai non aveva il minimo senso di essere vissuta.
 
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Watashiwa
 
 
 




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