Derail.
The Inbetween.
Extra chapter.
Riders on the Storm
*
Maggio
2010.
Pennsylvania
– Tokyo – New York
C'è una ragazza che
corre.
Il sentiero
di terra battuta scorre veloce sotto i suoi piedi, un nastro marrone
punteggiato di sassolini e fili d'erba schiacciati. La striatura grigia
dell'asfalto è una linea di gesso calpestato appena
percettibile all'orizzonte.
Nessuna
macchina passa mai da queste parti, ma la ragazza non può
fare a meno di controllare, con le palpebre strette per schermarsi dal
sole morente. Un'occhiata rapida, una debole fitta – forse
dolore, forse sollievo – al petto, poi via di nuovo con gli
occhi puntati davanti a sé.
Il sangue
le pulsa nelle orecchie. La brezza di questo fine maggio si trasforma
in un rombo. Non porta auricolari, la ragazza: li avrebbe trovati
indispensabili, in un'altra vita, ma non ora.
Sa che la
musica coprirebbe qualunque altro rumore. E lei vuole ascoltare tutto.
Il mormorio del piccolo corso d'acqua che scorre di fianco alla strada,
il frusciare del vento leggero tra le canne monche e secche, l'ultimo
ciarlare degli uccelli prima che il tramonto si spenga, ma non solo.
Se tende
l'orecchio, riesce quasi a sentire altro.
Sono suoni
senza nomi, un linguaggio che non ha parole, come sono solo le
sensazioni. Il sibilo dell'aria si trasforma in quello del bokken. La
fitta al fianco si trasforma in resistenza e tensione. La sua fatica ha
piccoli sprazzi di gioia – gioia di muoversi, di mettersi
alla prova. Di vivere per il puro, semplice impeto dello scontro.
Quando queste scintille la
toccano, la ragazza sorride appena e accelera.
Si
mordicchia il labbro inferiore e il sorriso torna una smorfia
concentrata, ma dentro di lei gli echi continuano a cantare.
Non ha bisogno di musica
quando ha questo a rassicurarla, a dirle che va tutto bene, che
può prendersi ancora cinque minuti.
Il tempo di
superare anche l'ultimo campo e infilarsi, senza rallentare, attraverso
la piccola macchia di cedri, querce e aceri ai confini della
proprietà.
Ecco,
è arrivata: il sentiero si allarga in una strada bianca di
polvere e pietruzze. Ci è caduta un paio di volte e ha perso
il conto di quante l'ha percorsa camminando, ormai le è
familiare. L'abitudine la spinge nel centro del nuovo percorso. Gli
alberi sono una chiazza confusa intorno a lei, ogni tronco una colonna.
Oggi,
però, l'aspetta qualcosa di nuovo.
Le immagini
si formano da sole nella sua mente. Niente percezioni, stavolta: un
ricordo. La visione di una lunghissima salita lastricata di pietre nere
sotto a una serie infinita di torii. Il profumo d'incenso e muschio, il
suono di piccoli sandali di legno in corsa – una corsa molto
più goffa della sua.
Il suono
delle campane del tempio.
Le campane di Gion, la
fugacità di ogni cosa.
La ragazza
boccheggia e rallenta.
Questa è nuova,
pensa. E all'improvviso c'è nuova urgenza nella sua corsa.
Allunga il passo, aumenta l'andatura. Le colonne rosse spariscono: ora
sono solo alberi, alberi che fuggono ai lati della sua visuale.
Con i
muscoli che le bruciano e il respiro sempre più rapido, la
ragazza corre e passa oltre.
Via, la
macchia.
Via, il
prato.
Via, il
cancello arrugginito che si spalanca su un cortile dove il sole cade
sbieco, morente.
Tre uomini
si affrontano nel cortile. Due impugnano spade di legno lucidate, il
loro avversario una lunga lancia sottile.
La loro
zuffa è più seria di un gioco, meno letale di un
duello all'ultimo sangue: mosse ripetute all'infinito,
perché i corpi si riabituino ancora una volta a
ciò che hanno imparato una vita fa. Di solito le fa piacere
vederli allenarsi, la fa sentire sicura.
Non oggi.
“Souji!”
Uno dei tre
alza la testa di scatto, deviando appena in tempo un colpo diretto al
suo torace. Gli occhi verdi, vigili, sono puntati su di lei. I suoi
avversari abbandonano il combattimento all'istante.
La ragazza
li raggiunge quasi senza fiato, piegata in due per il male al fianco.
“Che
c'è? Che succede?” chiede, brusco, l'uomo dai
capelli neri. Il compagno – più alto, i ciuffi
rossi come il pelo di volpe tirati indietro in una coda bassa
– gli lancia un'occhiata e un mezzo sorriso.
“Un
attimo, Hijikata – san, altrimenti scoppia.”
commenta, ma nei suoi occhi c'è una punta di preoccupazione.
La ragazza, ansimando, solleva lo sguardo sul giovane con gli occhi
verdi.
“Ho
sentito...”esala, in un soffio. “Ho sentito...qualcosa...”
Gli uomini
si guardano, allarmati. Souji si avvicina alla ragazza, la sostiene
prima che crolli a terra.
“Qualcosa...?”
incalza. Lei si costringe a un respiro profondo, le mani sulle
ginocchia. Per un attimo pensa che il petto le scoppierà.
“Non
lo so con precisione,” continua. “Ma penso che
fosse un indizio. Un messaggio.”
Una pausa.
“Dal
Giappone.”
Le campane.
“Che
cosa ti ha detto, Miki? Chi era?”
Miki si
umetta le labbra secche. Poi, meccanicamente, una frase le esce di
bocca.
Come se
fosse sempre stata lì.
“L'orgoglioso
non dura, è come un sogno in una notte d'estate. Il potente
cade, polvere davanti al vento.”
Tunc, fa la lancia,
cadendo dalle mani del suo proprietario. L'uomo è pallido
– per un secondo vacilla come colpito da un pugno.
“Shinpachi.”
mormora.
Hijikata
socchiude le palpebre. Alla luce del tramonto, il viola delle iridi
è quasi nero. Guarda Souji, in cerca di una conferma.
Il giovane
ha gli occhi che brillano.
“Sta
ricominciando.”
Miki, da
parte sua, abbozza un sorriso tirato.
“Oh my God, we're back again,”
sillaba. Ride in faccia alla paura e guarda l'orizzonte aperto del New
Jersey.
Dentro di
lei, la Scintillanza vibra e le suggerisce che presto anche la pianura
sarà un ricordo lontano.
Non
può far altro che chiedersi se un mese passato a correre
sarà sufficiente a non farsi ammazzare.
*
C'è
una ragazza che corre.
Dieci passi
e si ferma, ansimando, poi riprende. Il rumore del traffico che scorre
di fianco a lei è quasi assordante, una cacofonia costante
di macchine e motori. Niente clacson, non qui dove la cortesia
è una regola che vale anche sulla strada.
A Londra si sarebbero
già intasati, pensa la ragazza. Il suo naso si
arriccia in una piccola smorfia e deve spingere di nuovo gli occhiali
al loro posto. Non può permettersi di romperli: sono quelli
che ha preso in prestito da Aiden. Tanto vale non tornare a casa, se li
fa fuori.
Sempre che casa si possa
definire.
Scatta di nuovo il verde. La
ragazza passa la strada, il sacchetto che le sbatte sugli stinchi. Ogni
tanto controlla che il suo contenuto sia ancora intero: sì,
eccoli lì. Due o-bento preconfezionati, due lattine di birra
Asahi, le bacchette usa e getta ancora intere nelle loro bustine
bianche, due dorayaki.
Cibo per un
esercito, si direbbe, e qualche passante – nonostante i
giapponesi siano più che ferrati nell'arte del farsi gli
affari propri – non riesce a non lanciare un'occhiata alla
ragazza, chiedendosi come farà a demolire tutta quella roba.
Dove la metterà, soprattutto: è poco
più di uno scricciolo. Bassa, paffuta e occhialuta, i
capelli biondi che le svolazzano sulla schiena come una nuvola.
Con la
felpa Everlast scolorita che indossa e i jeans che le scivolano di
continuo sui fianchi sembra appena sedicenne. E forse non è
molto più vecchia.
La ragazza
nota gli sguardi, e brontola sottovoce.
E pensare che dovrebbero
essere uno dei popoli più riservati, diamine, cosa sono
tutte quelle occhiate?
Non le
piace essere osservata.
Se
è per questo, non l'entusiasma neanche essere costretta a
scorrazzare su e giù per il quartiere, ma il lavoro
è lavoro: la pagano per sudare sette camicie, quindi non si
lamenta.
Non ad alta
voce.
Rosso, il
semaforo dell'incrocio. La ragazza si ferma e riprende fiato, pulisce
le lenti appannate sulla felpa. Cattura il proprio riflesso nella
vetrina di un negozio di vestiti: incastrata tra un gruppetto di
studentesse universitarie in divisa e un sarariman al cellulare, la sua
faccia tonda è più rossa che mai.
Disgustosa,
decreta. Si arrotola le maniche della felpa. E dire che, secondo il
vecchio, il vero caldo deve ancora arrivare! L'afa è peggio
di una coperta soffocante. Un piccolo rivolo di sudore le cola lungo la
schiena, con un brivido. Lei rinuncia ad asciugarselo, conscia che se
lo facesse finirebbe solo per lasciare uno stampo scuro sul viola della
felpa.
Dai, semaforo,
canterella tra sé, spostando il peso da una parte all'altra.
Spera almeno che correre con questo maledetto caldo le tolga un chilo o
due.
Verde. Le macchine si fermano,
i pedoni si fanno avanti. La ragazza zigzaga tra di loro –
è diventata brava a farsi largo senza urtare nessuno
– approda sul marciapiedi opposto, va avanti ancora per dieci
metri e poi gira in una laterale.
Tokyo
è una città bizzarra. Grattacieli e palazzi di
luci in un angolo, strade secondarie di case con il giardino e piccoli
templi di uno o due monaci in un altro.
Sugamo fa
parte della seconda categoria.
È
come essere proiettati in un altro universo: sopra di lei incombe
l'ombra del gigantesco palazzo a quasi dodici piani, ma la strada si
stringe tra case dalle facciate bianche e marroni e pali della luce
sovraccarichi.
Il rumore
del traffico si spegne, lasciando spazio alla quiete: qui il tintinnio
di pentole che vengono spostate dentro una casa, qui un'anziana che
versa acqua sulla strada con un cestello di legno e un mestolo. Si
ferma per lasciarla passare, e la ragazza si ferma per ringraziarla con
un piccolo inchino formale e un sorriso – corrisposti
entrambi – prima di ripartire, accompagnata solo dal rumore
delle proprie scarpe sull'asfalto.
La cortesia, questa strana
tradizione. Non ci ha ancora fatto l'abitudine, nonostante viva a Tokyo
da quasi quattro mesi, ormai, Ma a Londra o ti fai strada a gomitate o
ti devi rassegnare a essere lasciato indietro, ed è
difficile perdere la diffidenza con cui si ha sempre convissuto.
Ecco, è quasi
arrivata. Ancora una svolta a destra, e poi finalmente l'insegna
incassata nel muro.
Shieikan Dojo,
recitano i kanji sul legno. La porta di legno è spalancata,
come al solito.
La ragazza
entra, calcia via le scarpe da ginnastica e le lascia nel vano
d'ingresso. Percorre a passo rapido il largo corridoio di legno.
Qualcuno ha
lasciato la ventola accesa nell'ufficio: un soffio di aria fresca la
investe mentre passa di fianco alla porta e la ragazza si lascia
sfuggire un sospiro di sollievo, fermandosi. Solo un secondo, si
ripromette. Dopotutto, non ha nessuna intenzione di presentarsi davanti
ai suoi datori di lavoro così stravolta. Anche se dubito che lo scemo
noterebbe la differenza, commenta tra sé, assorta.
È già tanto se sa che sono femmina.
In un dojo di soli uomini,
è normale.
Suppongo.
Un rapido
controllo al suo fardello – tutto ok? Non è
esploso niente? Ottimo – e riparte, calma.
La sala principale del dojo
è deserta. Gli alunni della mattina sono tornati a casa
già da un'ora, lasciando i bokken impilati con ordine sulle
rastrelliere della parete sinistra. Qualcuno ha pulito il pavimento,
togliendo ogni traccia di polvere dai tatami. Alla ragazza sfugge un
sospiro divertito davanti alla cura maniacale con cui è
tenuta la palestra.
Certi
uomini provano un amore incondizionato per la loro macchina. Sugimura
Yoshie, allo stesso modo, è innamorato del proprio dojo. E
lei dubita che, se si trovasse una ragazza, le porterebbe la stessa
cura.
Ammesso che
riesca a non farla scappare, a forza di parlare di kendo. Kendo, kendo,
kendo. Tutto quello che esce dalla bocca del capopalestra ruota intorno
alla spada.
“Thatcher!”
...o quasi.
Jodie sospira, raddrizza le
spalle e indossa la sua migliore maschera stoica. Eccoci qui, si
dice, avviandosi verso la porta sul retro. La fusuma fruscia, leggera,
aprendosi su un piccolo porticato di legno e un giardino.
“Eccomi,
eccomi!” replica, uscendo. Il legno è
piacevolmente fresco sotto i suoi piedi – probabilmente
questo è l'unico punto dove l'afa non riesca ad arrivare.
“Sono qui, eccomi.”
“Bentornata,”
la saluta uno dei due uomini. È alto abbastanza da dover
stare tutto rannicchiato per sedere sulla panca del portico, e il suo
naso è storto come quello di un pugile, ma il sorriso che le
rivolge è gentile. “Hai trovato la strada senza
difficoltà, spero.”
“Shimada,
non farti intenerire, andiamo!” protesta il suo compagno.
“Ormai è a Tokyo da abbastanza tempo. Sa benissimo
dove deve andare.”
Jodie
sbuffa, con una piccola smorfia. L'altro le rivolge un'occhiata
imbronciata, incrociando le braccia.
“Sei
in ritardo,” decreta, scrutandola con occhi azzurri e severi.
“Lo
so.”
“Ah,
lo sai.
Stavo per mangiarmi il tuo bento, signorina LoSo, non ci vedo
più dalla fame!”
“C'era
coda al konbini,” taglia corto Jodie, porgendogli la busta.
Si sporge per vedere oltre, indirizzando un sorriso all'altro.
“Mi spiace per il ritardo, Shimada – san. I mochi
dolci erano finiti, quindi ho dovuto ripiegare sui dorayaki, e non ero
sicura quale fosse più gradevole.”
“Non
fa nulla, tranquilla.” replica Shimada. La sua voce
è un basso vibrante, ogni volta che pronuncia il suo nome
sembra dire “Bocchan”.
Al contrario, quella del proprietario è secca.
“Ehi!
E io?”
Jodie lo guarda sbattendo le
palpebre.
“Cosa?
Che?”
Riceve uno
sbuffo in cambio. “Lascia perdere, ragazzina. Continua pure a
fare gli occhietti dolci a Shimada e lascia perdere.”
brontola il giovane istruttore, arraffando la busta. “Oh,
bene, la birra c'è.”
“Non
avrai intenzione di cominciare a bere adesso, Chase –
kun.” lo rimprovera bonariamente Shimada, accettando con un
cenno il suo o-bento. Chase fa spallucce, rompendo l'incarto del
dorayaki.
“Chi,
io? Nah! E poi è solo birra. Non si può neanche
parlare di bere.”
replica, azzannando il dolcetto. Tempo due secondi e l'ha
già demolito. I suoi occhi cercano Jodie e la sua bocca si
apre-
“Ah-
giusto.” ricorda lei, togliendosi un secondo dorayaki di
tasca. “Oggi ne davano via gratis. Una promozione o qualcosa
del genere. Ho pensato di prenderne qualcuno in più, visto
che ti lamenti sempre che sono troppo piccoli.”
Glielo
lancia. Chase arraffa il dolcetto al volo, guarda l'incarto, poi lei.
Sorpreso.
“...ah.
Grazie.”
Jodie
risponde un abbozzo d'inchino ironico, gira sui tacchi e va a prendere
il suo pranzo dal frigorifero scalcagnato dell'ufficio. Quando torna
fuori, Shimada e Chase stanno preparando la lezione del pomeriggio,
facendo sparire con perizia il contenuto dei loro bento. Li lascia in pace, andando a
sedersi contro una delle colonne del portico. Lascia le gambe penzoloni
e si sistema il vassoio sulle ginocchia.
Niente bento per lei, solo
semplici sandwich. E un thermos di té freddo,
perché le abitudini sono dure a morire. Mentre scarta il
primo e appallottola la stagnola, si dice sempre la stessa cosa.
Un altro giorno di questo
lavoro e mollo tutto, lo giuro.
Sa che non
è vero. Ha preso a lavorare al dojo solo da due mesi: non
è stufa, non davvero. L'aiuta a prendere aria. A staccare un
po' dalle ricerche che la tratterrebbero troppo tempo all'osservatorio,
sotto l'egida dispotica del nonno.
Solo,
qualche volta pensa che le piacerebbe qualcosa di più di
quella routine. A volte le piacerebbe essere qualcos'altro, invece che
solo la ragazza che corre quando il capo schiocca le dita.
Datti tempo, si
ripete. Stacca un morso dal sandwich e tra sé sorride,
chiedendosi se quella tranquillità apparente è la
fine di un percorso o l'inizio di uno nuovo.
PSH- fa la
birra, esplodendo in un tripudio di schiuma sulla maglietta di Chase.
“THATCHER!”
...ripensandoci,
se non si dà una mossa, questa volta sarà
sicuramente la fine del mondo.
*
C'è
una ragazza che corre.
È
il suo incubo e il suo sogno, e non le importa d'altro.
Veloce. Veloce. Ti
troverà.
Il cielo di
New York un'ora prima dell'alba è nero e viola come un
livido, un ematoma. Le luci dei grattacieli in lontananza sono gemme
false nello strato di patina grigia di nebbia smossa dall'afa. Non
c'è sollievo dal caldo, nemmeno di notte. Non tra queste
strade piccole e strette come un budello.
La ragazza
incespica, perde l'equilibrio, si tira su. Ha la schiena madida di
sudore freddo. I capelli s'incollano alla sua nuca, ciocche nere
tagliate tutte alla stessa lunghezza che ondeggiano come corde ad ogni
passo: ora a destra, ora a sinistra, e d'accapo.
Se li
scosta dal viso e prosegue, saltando una pozzanghera d' olio e un
tombino che esala vapori che sanno di piombo, di marcio. Le scarpe
colpiscono l'asfalto senza tregua.
Nel
silenzio tombale, etereo, ogni tonfo è un colpo di cannone
per lei.
Gira nel
prossimo vicolo e si ferma di scatto, il cuore che le martella nel
petto come volesse scoppiare.
Un bivio.
No.
Si guarda
intorno, la bocca aperta, inghiottendo aria. Destra, sinistra. Destra,
sinistra. Dove vado?
Dove vado? I suoi occhi scattano alle sue spalle, verso
il rumore di passi che crede in avvicinamento, poi di nuovo in avanti.
E si
chiudono.
Mi serve tempo. Mi serve
tempo, ti prego, ti prego, ti prego, fa che funzioni-
Non sa da dove venga il
potere. A volte è un torpore che le penetra sin nelle ossa,
altre una corrente che la travolge e la trascina via con sé,
lasciandola aperta e vulnerabile al mondo. Ogni tanto, dopo averlo
usato, si stende e non riesce più a muoversi per molto,
molto tempo, come se i suoi muscoli avessero dimenticato come si fa.
E più di rado, sente che non potrebbe fermarsi mai
più.
Supplica il suo corpo
traditore e la fonte nascosta dentro di lei perché non
succeda. Non adesso.
Mi serve un ostacolo. Un
muro andrebbe bene, ma non ha tempo di crearlo: basta un reticolato.
Lo immagina
dietro di sé e l'asfalto si crepa all'istante, mentre
bastoni di acciaio scivolano fuori grattando il cemento.
Puntali di freccia neri si slanciano verso il cielo, fili di ferro
prendono vita e s'intrecciano, strisciando gli uni sugli altri come
serpenti. La ragazza immagina il luccichio dell'insegna neon semispenta
sul metallo, l' odore di ruggine, la forma delle schegge di vernice.
Ha chiesto
un ostacolo, e un ostacolo ottiene. Dal nulla, solo per lei. Per un
istante ne è quasi meravigliata.
Poi,
implacabili, arrivano le parole.
Il mondo non vede l'ora di
lasciarsi plasmare da te. Di farti piacere. Di esserti utile.
Mi domando, Sayuri, quale sia la tua inclinazione verso di me.
Provi la sua stessa spinta?
La ragazza rabbrividisce. Si
guarda intorno d'istinto, e la rete perde all'improvviso consistenza,
come ammosciandosi. Lei geme.
“No,
no, no, torna su, ritorna reale-” soffia. L'illusione, sorda,
resta grigia e priva di vita. Gliel'ha sottratta lei, distraendosi. Ora
è rovinata.
E lei non
ha il tempo di rimetterla a posto.
Si gira
verso il bivio. Destra, sinistra. Sinistra, decide, alla disperata. E
riparte. Ogni sussulto è una lama che s'infila un po' di
più nel suo fianco, devastandola. Fa male, ma lo ignora.
È
diventata brava a sopportare in silenzio.
Avanti, avanti, ancora avanti.
Supera un senzatetto che dorme tra i rifiuti, bidoni della spazzatura,
cercando di non pensare che una volta era come lui. Un gatto nero la
scruta con i suoi occhi luminosi e lei si scansa precipitosa,
perché le ricordano troppo quelli del mostro che la insegue.
Avanti, ancora. Altri vicoli da cui esce il gemito dei depuratori
d'acqua e delle caldaie.
Non
dovrebbe essere lì, dovrebbe essere da tutt'altra parte.
Scappare verso la stazione, o dirigersi verso il ponte di
Brooklyn. Anche l'East River andrebbe bene, si butterebbe in acqua
– forse se la caverebbe. Ma qui, nella fogna a cielo aperto
che sono i bassifondi di New York, non troverà mai la strada
per uscire dalla città.
Stupida
lei, e maledizione all'istinto da squatter che l'ha spinta dove un
tempo si sentiva sicura. Stupida lei-
L'ombra
esce dal buio così all'improvviso da strapparle un grido
strozzato. Alta, massiccia, scura – la falce di luna ne
è oscurata, le luci del centro si spengono mentre allunga
una mano verso di lei. La ragazza si scansa all'indietro, d'istinto.
NonoNO!
E cade in
braccia aperte solo per lei.
“Ahi,
chérie, ci fidiamo ancora troppo della vista.”
mormora una voce al suo orecchio – una mano sale a sfiorarle
una ciocca di capelli, quasi con dolcezza. Lei sbarra gli occhi, si
scansa.
Era
un'illusione. La consapevolezza è fredda come il qualcosa
che si arrampica su per le sue gambe. Catene, pensa, lacci. E poi. SPEZZALI.
Si
divincola con uno strattone, rompendo l'illusione di
Bartholomé. L'altro Aludra la lascia andare. Una
scintilla divertita gli danza negli occhi dalla sclera nera, un sorriso
gioca sulle sue labbra – ma il volto è scavato e
trasformato, una maschera del potere che gli vibra nel sangue.
“Te
ne vai un'altra volta?” chiede, avanzando di un passo.
“Pensi di farcela?”
Lei non gli risponde. Ha il
panico alla gola, e non ha bisogno di sforzi stavolta. Il potere si
torce dentro di lei e si scaglia sull'altro.
Il muro
esplode dalla strada, ogni mattone rosso come se qualcuno vi avesse
versato del sangue. Un metro, due metri, così – di
slancio verso il cielo plumbeo. La ragazza vacilla, il fiato mozzo. Ha
i polmoni pieni di polvere, di fil di ferro.
Le gambe le
tremano. Le braccia le tremano.
No, geme, no, no, no-
Inutile.
Conosce i sintomi – ce li ha addosso, la divorano mentre si
affloscia. Prima le ginocchia: un tonfo sul cemento crepato, il
riverbero che le percorre le ossa. Si morde la lingua per il
contraccolpo. Poi le mani, subito dopo. I polsi le bruciano quando
ricevono il suo intero peso. Un calore momentaneo.
Quindi
c'è solo torpore. Torpore che le risale le dita, le avvolge
i gomiti. Torpore che l'afferra per le spalle e la tira giù,
a rannicchiarsi contro l'asfalto, il nero dello smog accumulato che le
sporca la guancia.
Torpore.
Nulla di più.
Dall'altra
parte del muro, il suono dell'accendino. Il fumo della sigaretta
è l'ultima cosa che le arriva al naso prima che la paralisi
la strappi dal mondo.
Quando una
seconda sagoma, molto più massiccia di quella del ningen, si
posa su di lei, Sayuri non riesce nemmeno a sollevare la testa.
“Ne
hai avuto abbastanza?”
Non
c'è risposta. Non c'è mai – come si fa
a parlare quando hai un pezzo di carne marcia al posto della lingua,
Sayuri non lo sa. I suoi occhi, l'unica cosa che ancora si possa
muovere, puntano il demone che incombe su di lei.
Amagiri
sospira. La fievole luce di un'alba pallida e oppressa dall'afa getta
riflessi biancastri sui suoi capelli. Forse è solo una sua
impressione, ma le iridi che la scrutano sembrano quasi oro per il
tempo di un respiro.
Quello
successivo Sayuri capisce che il muro è crollato e lo
sgomento le crolla addosso, frantumando anche la paura.
Ho perso. Di nuovo.
Amagiri si
china. Sayuri serra gli occhi. Muori,
ordina al proprio corpo, ma non può chiudersi fuori da
sé stessa. Muori,
ora muori, dai.
Niente.
È bloccata in quel
grumo di muscoli indolenziti e immobili. E sente tutto: le mani
dell'oni che le circondano la vita, lo strattone che la stacca da
terra, lo spigolo duro della spalla di Amagiri contro il basso ventre.
Ha fatto il
callo all'assenza di sforzo con cui il demone se la carica sulla
schiena, al distacco con cui la maneggia. Ad Amagiri non importa nulla
di dove la tocca, per lui trasportarla equivale a sollevare un gattino
per la collottola. È il resto che non riesce a mandare
giù: quel nodo allo stomaco, la certezza che nelle prossime
ore si pentirà di non essere riuscita a scappare.
Lui.
“Lasciami
andare.”
La sua voce
è ridotta ad un soffio, ma Amagiri la sente lo stesso.
Questo non significa che le risponda sempre.
“Non
ce la faccio più. Lasciami andare.”
Oggi non
è una di quelle rare occasioni. Sayuri lascia penzolare le
braccia, inerti, le spalle che bruciano. Chiude gli occhi e li tiene
chiusi. Non metterti a
piangere. Non ci provare. Hai vent'anni per il cazzo.
Vent'anni o
no, quando l'oni la posa a terra di nuovo va tutto in merda.
Perché anche ad occhi chiusi, Sayuri vorrebbe sprofondare
lì dove l'hanno lasciata: per terra. A un metro e mezzo da
un paio di anfibi neri e immobili.
A un metro
e mezzo dal suo cacciatore. Il suo mentore.
Per un
lungo attimo c'è solo silenzio. Quel silenzio che le
rinfaccia ogni cosa: di non essere stata abbastanza svelta, di non
essere stata abbastanza furba. Di avere provato lo stesso, ma di non
essersi sforzata abbastanza.
Lento, un
passo alla volta, lo sente avvicinarsi e accovacciarsi di fianco a lei.
Un ginocchio per terra, l'altro piegato – come se stesse
osservando una bestiola fremente. Kyou non la tocca mai, quando la
riprendono. Da quando l'ha tratta in salvo da quella stanza d'ospedale,
prima che la eutanizzassero, il contatto fisico tra loro è
un tabù. Forse gli fa schifo. O forse, l'oni è
consapevole che è abbastanza furioso da rischiare di
spezzarla in due al minimo tocco. Suo malgrado, il potere ha un debole
guizzo dentro di lei e Sayuri si ritrova a desiderare quelle mani che
la scansano accuratamente.
Non sono le sue mani che teme.
Shiranui Kyou è in grado di farle male semplicemente
esistendo.
Per ora, si
limitano a impugnare la Glock. La canna fredda le sfiora la nuca,
leggera come un bacio, cattiva come un morso. Il cane viene tirato
indietro. Il dito si posa sul grilletto.
Sayuri
spalanca gli occhi.
“Sei
morta un'altra volta, ningen.”
Click.
.:Author's
note:.
Una piccola specifica
prima di imbastire discorsi, ché mi conosco e poi so che mi
perdo in chiacchiere. No, questa pubblicazione non sta a segnalare
la ripresa di Derail.
Se qualcuno di voi ci ha sperato me ne scuso, e se alla maggior parte
non interessa una bega me ne rallegro, almeno non ho creato false
aspettative u.u
Avevo detto che, di
Derail, non avrei messo altro online - nulla che fosse a
metà strada, almeno. Questo capitolo, in effetti, era pronto
da un pezzo. Per qualche motivo, prima di abbandonarlo in una cartella
e dimenticarmene, avevo cambiato il titolo, cosicché
è passato praticamente in sordina alla revisione di qualche
mese fa. Non l'ho riscoperto fino ad oggi, e paradossalmente si
è rivelata la data migliore per rispolverarlo.
In between avrebbe dovuto essere un interludio tra Afterdark. Rebirth e
Firebird. Renewal. Uno stacco per presentare la situazione dei
personaggi vecchi e nuovi - tra i primi Miki e Bartholomé,
che ricordo appartengono a Ellie_x3; tra i secondi, Jodie, che avrebbe
dovuto comparire nel seguito. Un periodo sospeso, come lo hiatus
protrattosi per due anni. Il filo di vento dopo la bonaccia.
E in effetti, un anno fa, in questi giorni, avevo appena
cominciato una storia che sta vedendo la stesura dell'ultimo
capitolo in questo periodo, e che mi ha aiutata a far pace con la
scrittura, e con D. Mi sembrava calzante, trovare un modo per
festeggiare la fine della *mia* bonaccia.
Quindi...un
buon non - compleanno
a quella storia, e verso nuovi orizzonti (specificatamente, su AO3
<3 ).
Colgo
ulteriore occasione per ringraziare le personcine che hanno
lasciato un parere sui capitoli di Derail, peraltro, ancora una volta.
Grazie, grazie, e grazie ancora. (L) Spero che questo snippet vi
piaccia.
Kei
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