Questo
racconto è dedicato a ValorosaViperaGentile.
‘La terra è
scura come i capelli di mia moglie’
Hispalis,
Hispania[1] – 174 d.c.
Il sole filtra tra i rami
degli alberi in
lame d’argento screziate di verde, e si riflette sull'onda di
grano che si
gonfia e si increspa al ritmo di un vento lieve.
Massimo deve schermarsi gli
occhi dal
riverbero mentre si appresta alla casa di mattoni neri e rossi, che
spunta come
uno scoglio solitario nel mare riarso della campagna baetica.[2]
Nel lungo tragitto dal nord
ha fatto riposare
il cavallo in ogni stazione di posta, ma può percepire la
stanchezza di Scarto
nel tremolio nervoso del collo sotto le dita e nell'odore acre di
sudore del
suo corpo accaldato.
Potrai
riposare molto presto, amico mio, lo
rassicura senza parlare e, come sempre, la bestia sembra percepire i
suoi
pensieri, sollevando la testa scura e scuotendo la criniera con un
nitrito
sonoro.
Il sentiero d'ingresso alla
magione è
fiancheggiato da alti alberi di cipresso, ed è strano
constatare come tutto, in
quel luogo, gli ricordi casa sua: l'odore di fieno e i ciottoli aguzzi
della
strada, il rumore degli zoccoli dei puledri lasciati liberi nel recinto
e i
colori caldi della terra appena smossa dopo l'aratura. Nonostante i
quindici
anni di conoscenza, questa è la prima volta che visita la
casa di Tiberio, e
prova una fitta alla gola nel notare come, anche nel luogo che li ha
visti
nascere e crescere, fossero così simili.
Porta una mano al fianco a
sfiorare la daga
che pende dal balteus,[3] e
riconosce
al tatto le iniziali incise sul fodero di cuoio, appena sformate dal
tempo e
dall'usura. Quella daga fu donata a Tiberio da Marco Aurelio nello
stesso
giorno in cui l'imperatore gli fece dono della sua, come simbolo della
loro
elezione alla carica di alti tribuni dell'ordine equestre.[4]
Da allora non se ne
è mai separato – come mai
l'ha fatto Tiberio, fin quando la daga gli è stata
strappata a forza dalle
mani, indurite dal freddo e rese scivolose dal suo sangue.
Ha dragato il fango
impolpato d'acqua e neve
per ritrovarla, l'ha ripulita e limata con punte di selce per ridarle
l'affilatura – ha inciso la sagoma del suo cavallo sul manico
di legno e infine
se l'è appesa al fianco dopo aver lasciato Vindobona[5]
diretto a sud, verso il
sole.
Ferma il cavallo nello
spiazzo polveroso
davanti all'ingresso e un ragazzo gli viene incontro, dapprima
sollecito poi
timoroso, quando scorge le insegne delle legioni. Per questa
visita ha
indossato l'alta panoplia, come dovesse presenziare a un ufficio di
importanza
sacrale: la preziosa lorica di lino sagomato e la tunica orlata di
porpora,
lunga al ginocchio; gli stivali bordati di pelo leonino e la spada
lunga, con
le insegne di cesare; l'elmo è quello crestato di rosso,
simile ai cimieri
attici, ma non è il suo. Lo porta sotto il braccio, lo
squarcio sul lato
nascosto contro il fianco, in un ultimo gesto di pudore e protezione.
Il ragazzo lo sta fissando,
forse ha intuito
qualcosa perché gli occhi si sono fatti grandi sul viso
scuro, da contadino.
Senza dire una parola prende in consegna il cavallo; Massimo gli
rivolge solo
poche indicazioni su come vuole che la bestia venga accudita
– poi, finalmente,
gli chiede l'unica cosa importante.
Il ragazzo indica
un punto dietro la casa,
dove i cespugli di caprifoglio crescono alti, spandendo un odore
pungente che
lo stordisce.
Lei è
lì, chinata nell'orto a raccogliere
piante aromatiche in una piega dell'abito di tela ruvida e scura. Anche
i
capelli sono neri – una cascata d'ebano morbido che le ricade
sulle spalle fino
alla vita, e in ciocche scomposte sul viso abbassato; appare intenta e
concentrata come una ninfa agreste tra gli arbusti scheletriti.
Massimo rimane a osservarla
in silenzio per
qualche istante, poi un nitrito più forte alle sue spalle le
fa alzare la
testa, e lei finalmente lo vede.
Si rimette in piedi e per
un attimo sembra
solo sorpresa, forse spaventata dai bagliori del sole sulle fibule in
bronzo,
ma poi lascia andare la gonna e le piante raccolte cadono a terra,
planando
piano nell'aria. Si porta una mano alla bocca e Massimo sente
di nuovo la
punta di lancia che lo punge alla gola, crudele.
Lentamente, abbassa lo
sguardo e solleva una
mano al petto, concedendole il riserbo e l'onore delle armi.
L'interno è
fresco e in penombra, colmo degli
odori intensi dell'aglio e del pane appena sfornato. È
seduto a un tavolo
antico, scheggiato dal tempo, una coppa d'acqua fresca tra le mani;
è rimasto
da solo per un po', giusto il via vai di un paio di servi e della
ragazza che
gli ha portato da bere – poi la sua unica compagnia
è stata il muggito dei buoi
e il frinire assordante delle cicale fuori dalle finestre.
Quando Clelia riappare nel
vano d'ingresso e
lo raggiunge al tavolo, gli sembra che siano trascorsi solo pochi
attimi. Si è
cambiata: ha tolto la veste da lavoro e ha indossato una semplice
tunica di
lino, bordata d'azzurro. Ha legato i capelli, ma alcune ciocche ribelli
sfuggono al fermaglio, scivolando sulla fronte liscia – e
sugli occhi
arrossati.
Massimo si concede di
guardarla solo per
pochi istanti, i segni del dolore ancora troppo freschi sul suo volto,
per
imporle il sopruso della sua attenzione.
Così come la
casa di Tiberio gli era
sconosciuta fino a oggi, così lo è sua
moglie, se non per le parole che lui,
così tante volte, le ha dedicato davanti a un
bivacco o nel buio di una
branda.
E di nuovo si sente a
disagio di fronte al
pensiero di questa estraneità, sebbene non ne sia poi
veramente stupito: la sua
amicizia con Tiberio è stata forgiata nel fango e nel
sangue, non nei morbidi
odori della terra arata; si è rinsaldata in anni di
battaglie fianco a fianco,
scandita dal clangore delle spade e temprata dai venti del nord, solida
come
una roccia brulla e lucida di ghiaccio, priva della morbidezza delle
spighe
cresciute sul suolo che pure lì ha cullati entrambi, prima
di consegnarli alla
guerra.
Nati ispanici e figli di
nessuno, in due si
sono inchinati al cospetto dell'imperatore, ricevendone gli onori e
rendendolo
fiero con il loro valore. Hanno condiviso tutto: le paure, le speranze,
i
desideri – l'orgoglio. E adesso, in questa casa
così nuova per lui, davanti a
questa donna sconosciuta – ma della quale sa così
tanto – è strano ritrovarsi
da solo.
Uno strazio segreto
l’ha accompagnato come
un’ombra nei lunghi giorni in cui non ha fatto altro che
cavalcare e ricordare,
cercando parole impossibili.
Rialza lo sguardo e non
è sorpreso di vedere
Clelia che lo fissa. Ha le palpebre gonfie ma gli occhi sono asciutti,
scuri
come il resto di lei.
Massimo sfila la daga dalla
cintura e la
poggia sul tavolo, in mezzo a loro. Clelia la guarda un istante, poi
torna a
osservarlo.
"Com'è
successo?" La voce ferma
deve esserle costata uno sforzo di cui non dà parvenza.
"Durante un
assalto, a Vindobona,"
risponde Massimo. Fa una pausa, incerto se continuare. "È
stato un colpo
netto. Ero accanto a lui quando la spada l'ha raggiunto." Si ferma
ancora,
in bilico sulle parole; poi: "Non ha sofferto, questo posso
assicurartelo."
Lei sospira, poi si porta
una mano alla
fronte. Per un attimo gli sembra d'aver percepito un singhiozzo, ma
quando
Clelia riabbassa la mano, gli occhi sono ancora asciutti. Fa scivolare
le dita
sul tavolo e avvicina la daga, sfilandola dal fodero con delicatezza.
Sfiora la
sagoma del cavallo, sul manico, e poi la solleva, portandola davanti al
viso.
"Questo è
Fulvio?" domanda, gli
occhi che seguono i contorni dell'intaglio. "Lo riconosco dalla
mezzaluna
sulla fronte."
Massimo annuisce. "L'ha
seguito nei
Campi Elisi. Non avrebbe mai permesso che Tiberio cavalcasse da solo."
Clelia sorride, sfiorando
di nuovo l'arma
prima di riappoggiarla sul tavolo.
"Tiberio mi ha molto
parlato di te,
Tribuno Meridio. Ti sono grata per essere stato tu a portarmi questa
notizia." Si morde le labbra, scavando un avvallamento nella carne
tenera.
"Non avrebbe voluto diversamente."
E Massimo vorrebbe
rispondere che non avrebbe
voluto niente di diverso neanche lui – se
non forse poter varcare quella soglia con
Tiberio al fianco, a riconsegnarlo sano e integro alle braccia di sua
moglie – ma
sono parole oziose di un uomo stolto, e le
ricaccia in gola, offrendole soltanto un sorriso stanco.
Si concede finalmente di
guardare il suo
volto, e si stupisce di come appaia giovane, nonostante la pelle
brunita dal
sole e le piccole rughe leggere ai lati degli occhi; sapeva quanto
Tiberio si
crucciasse di non averle potuto dare dei figli, troppo spesso lontano,
fin
troppo soldato per poter fare il marito – e di come avesse
deciso di anticipare
la fine dell’Honesta Missio[6] per poter tornare a casa, e prendere il
posto che gli spettava accanto a questa donna.
Ormai non potrà
più farlo, e rimarranno solo
i figli dei sogni a seccare e sfumare sotto la luce impietosa del sole
d'Hispania.
Clelia lo sta
ancora fissando e Massimo sorride
di nuovo, ricambiando lo sguardo di quegli occhi così
intensi. "È stato un
grande amico, e un soldato valoroso," dice finalmente, stupendosi della
naturalezza nella propria voce, "ha dedicato la sua vita alle legioni,
ma
ciò che desiderava era solo tornare al più presto
da te. Sono certo che avrebbe
voluto che lo sapessi."
Stavolta gli occhi di
Clelia brillano di
lacrime, è sicuro di non sbagliarsi; abbassa lo sguardo
mentre lei si volta in
un gesto di pudore, gli unici suoni il fruscio della tunica e un
singhiozzo
sfuggito alla gola.
Rimangono in silenzio per
un po', senza
guardarsi, poi Massimo si alza, risoluto a offrirle il rispetto del suo
lutto
privato.
"Qualunque cosa io
possa fare per te,
non esitare a chiederla," dice, già voltato verso la porta.
Clelia solleva il viso e i
loro sguardi si
incrociano di nuovo. "Ti rivedrò ancora, Tribuno Meridio?"
Poi, dopo
un attimo: "… Massimo?"
È solo un
sussurro. Ha la leggerezza del
vento che abbraccia le spighe. E, per un attimo, sembra lenire anche il
suo
cuore.
"Se è quello che
desideri."
Anche Clelia si alza e per
un attimo gli
sfiora la mano. La pelle è morbida contro la sua,
indurita dai calli e
dalla spada. Annuisce piano e poi gli volta le spalle, lasciando la
stanza.
Massimo rimane a guardare
l'arco di pietra da
cui è uscita, le ombre fresche che danzano sul muro,
sfiorate appena dalla luce
che filtra dalle finestre.
Poi, a passo sicuro, si
dirige alla porta,
uscendo nel sole.
Note:
[1] Nome antico dell’odierna Siviglia.
[2] L’odierna Andalusia.
[3] Prezioso fodero per la daga.
[4] Il tribuno augusticlavio era un alto grado di ufficiale nelle
legioni
romane. A differenza del tribuno laticlavio (di estrazione senatoria),
gli
augusticlavi venivano dai ranghi equestri.
[5] L’antico nome di Vienna.
[6] Il congedo dal servizio militare, a seguito del quale veniva
rilasciato
un diploma e una rendita in denaro.
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