Jessica quel
giorno indossava una graziosa gonna rosa,
accompagnata da un paio di calze semplici e chiare. La maglia era
scollata e, a causa dell'inverno sempre più vicino, anche
troppo fredda. Tuttavia, la vista generosa che regalava aveva
attirato in diverse occasioni lo sguardo di Alessandro,
perciò
si disse che valeva la pena soffrire un po'.
Era affacciata al davanzale della finestra,
nel
corridoio della scuola. Scorgeva le teste dei ragazzi che se ne
stavano nel cortile senza prestare particolare interesse.
Erano trascorsi due giorni da quella
fatidica notte. Ci
aveva riflettuto a lungo, il pianto di Asia l'aveva tormentata in
sogno. Una volta aveva ripensato a quella figura spettrale fra gli
alberi. Si era ripetuta più volte di averla solo immaginata.
Ma poi ripensava allo sguardo di Asia, fisso in un punto imprecisato
alle sue spalle...
Se davvero c'era qualcuno, lì, e
aveva visto
quello che avevano fatto, sarebbero state in guai seri.
Dall'aula accanto a lei proveniva un
vociare fastidioso.
Molte delle sue compagne di classe preferivano restare dentro,
durante la ricreazione, per poter spettegolare in tutta
libertà
degli affari altrui. Jessica amava i pettegolezzi, erano l'arma che
le aveva permesso di diventare così potente, tuttavia non
c'era nulla che quelle ragazze avrebbero potuto dirle che lei non
sapesse già. Grazie alle abilità da fotografa di
Flavia, lei era sempre la prima a conoscere i segreti più
oscuri di tutti i suoi compagni di scuola.
Inspirò a fondo, chiedendosi che
fine avessero
fatto Roberta e Flavia. Si erano allontanate dicendo di voler
prendere un caffé alla macchinetta. Jessica non era andata
con
loro, aveva preferito restare un po' per conto proprio.
La verità era che, dopo quella
sera, cercava di
evitare il più possibile la compagnia delle altre. Roberta
ancora le parlava di quanto fosse stato divertente, mentre per Flavia
ogni occasione era buona per farle notare quanto avessero esagerato.
Jessica voleva solo dimenticare quel
momento.
“Jess? Posso
parlarti un
attimo?”
Alessandro le si era avvicinato tanto che
Jessica
percepiva il suo profumo. Non aveva un odore particolare, sapeva di
bagnoschiuma misto a dopobarba, ma per lei era come un afrodisiaco.
Ogni volta che lo annusava, le tornavano dei flash di quando suo
padre la abbracciava, da piccola. Aveva lo stesso identico odore.
“Sì?”,
chiese Jessica. Le uscì una
voce fin troppo acuta. Si morse il labbro, sperando che lui non se ne
fosse accorto.
Gli occhi di lui sostarono qualche secondo
sull'ampia
scollatura, prima di sollevarsi per incontrare quelli di lei.
“Sei
davvero carina, oggi.”
Jessica sentì un formicolio
piacevole fra le
gambe. Moriva dalla voglia di sentire il tocco delle sue dita sulla
propria pelle. Se non fossero stati a scuola, non avrebbe saputo
resistere alla tentazione di buttarsi fra le sue braccia e lasciarsi
spogliare. “Grazie,” rispose, portandosi una ciocca
di capelli
dietro l'orecchio.
Alessandro lanciò un'occhiata
all'interno della
classe. “Tu sei in classe con Asia, vero?”, chiese.
Il cuore le mandò una fitta
lancinante nel petto.
Lo sfiorò con una mano, la bocca, resa lucente dal
lucidalabbra, dischiusa. “Sì,”
mormorò.
“Ecco... sai per caso che fine ha
fatto? Sono due
giorni che non viene a scuola. Sta male?”
Chiuse gli occhi, ricacciando indietro ogni
lacrima,
ogni singhiozzo pieno di angoscia. Non doveva preoccuparsi, non
avrebbe perso un'altra volta l'uomo della sua vita. Quando Asia
avrebbe trovato il coraggio di uscire di nuovo di casa, lui avrebbe
scoperto il suo nuovo aspetto e sarebbe corso dalle braccia di
Jessica. Era solo questione di tempo...
Nonostante continuasse a ripetersi quelle
parole,
Jessica non riusciva ad attenuare in alcun modo la propria
sofferenza.
Avrebbe dovuto rispondergli, ma non ne
trovò la
forza. Temeva che, se avesse aperto bocca, la voce l'avrebbe tradita.
Per questo restò in silenzio ancora qualche secondo, nella
speranza che qualcosa la salvasse da quella situazione orribile.
Avrebbe tanto desiderato sprofondare sotto terra e morire soffocata.
Roberta e Flavia scelsero proprio quel
momento per
tornare. Per la prima volta dopo quel fatidico giorno, Jessica fu
felice di vederle.
Non trattenne un sorriso, che tuttavia si
smorzò
non appena notò le loro espressioni. Flavia aveva gli occhi
rossi e lucidi, se ancora non era scoppiata in un pianto, presto
l'avrebbe fatto. Roberta era truce, aveva le sopracciglia abbassate e
lo sguardo preoccupato. Jessica non ricordava di averla mai vista in
quello stato.
“Jess, dobbiamo dirti una
cosa,” disse Roberta.
“Ehi, ciao!”, le
salutò Alessandro.
La figlia del macellaio lo
guardò appena, ma non
gli diede retta. “È
importante.”
Jessica ebbe appena il
tempo di salutare Alessandro agitando una mano, che Roberta le
afferrò l'altra e la trascinò lungo il corridoio.
Flavia le seguiva, in silenzio, il respiro spezzato.
Le tre ragazze entrarono
in una classe piccola e abbandonata, dove la polvere era la sovrana
dei banchi, ammassati gli uni sugli altri. La cattedra era addossata
al muro, inutilizzata, e presentava alcune ragnatele. I bidelli
pulivano una volta all'anno le stanze ancora in uso, perciò
Jessica non fu sorpresa dello stato penoso in cui versava quella
classe.
Roberta le lasciò
finalmente andare la mano. Le si parò davanti, con il suo
metro e settantasette di altezza. Non cercò i suoi occhi,
aveva il capo chino.
Erano in arrivo brutte
notizie, molto brutte. Jessica si tormentò il labbro
inferiore
con gli incisivi.
“Cos'è
successo?”, chiese, quando ne trovò la forza.
“È Asia il
problema...”, rispose Roberta. Parlava con una lentezza
insolita da
parte sua. “Abbiamo sentito dei professori che ne
parlavano...”
“No, non dirmi che ha
spifferato tutto! Quella troia, adesso gliela faccio vedere
io...”
“N-no...”, la
interruppe. Jessica corrugò la fronte. “Lei...
è
morta,” terminò Roberta.
“Co...?”
“L'hanno ritrovata morta
sul letto,” spiegò Roberta.
“Si è suicidata!
Si è uccisa, ed è tutta colpa nostra!”,
urlò
Flavia. La figlia del macellaio le fece cenno di abbassare la voce,
ma l'altra si limitò a scuotere la testa.
Jessica non riusciva a
crederci. Quello era un incubo divenuto realtà. Era a
conoscenza, da sempre, della depressione di Asia, per un certo
periodo era stato un argomento di moda a scuola. Sapeva che
visitivava uno strizzacervelli, che le aveva prescritto delle
medicine. Sapeva anche che lei aveva smesso di prenderle, da quando
aveva cominciato a uscire di nascosto con il professore di
ginnastica.
Nonostante tutto, Jessica
non avrebbe mai immaginato che avrebbe mai trovato il coraggio di
arrivare a tanto.
“Non è
vero,”
replicò Roberta. “Non è colpa nostra se
era una
debole e depressa.”
“Depressa?”,
sbottò
Flavia, paonazza in volto. “Noi le abbiamo rovinato la vita!
Se non
ha trovato più le forze di andare avanti, è solo
colpa
nostra, porca puttana!”
Asia era sempre stata
sull'orlo del suicidio, ma non era mai riuscita a perdere
completamente la speranza. Per questo aveva sempre fallito. Ma loro
tre avevano distrutto anche quel piccolo filo di speranza che le
restava...
Jessica digrignò i
denti, li strinse tanto forte che le parve di sentirli incrinarsi.
“Ha lasciato detto perché l'ha fatto?”
La vita di Asia faceva
schifo ancor prima del loro intervento. Non era detto che fosse per
forza colpa loro. E, anche se lo fosse stata, nessuno avrebbe mai
dovuto scoprirlo. Avrebbero passato dei guai seri, e la loro
reputazione sarebbe venuta a mancare.
“Ma perché, serve
che te lo dica qualcuno?”, Flavia riusciva appena a tenere
basso il
tono di voce. Sembrava sull'orlo di una crisi isterica.
“Siamo
state noi a ucciderla!”
Jessica scosse la testa. A
quanto sembrava, il disco di Flavia si era incastrato. “Io
non ho
ucciso proprio nessuno. E neanche voi.” Lo disse
più a se
stessa che alle altre. Non ci credette neanche una sola parte di lei,
ma farsi prendere dal panico non l'avrebbe aiutata in alcun modo.
“Mi stai prendendo per
il culo?”
“So che ha lasciato un
biglietto,” intervenne Roberta. Almeno lei aveva un'aria
più
lucida e pacata. Jessica si aggrappò a quella freddezza, ne
aveva bisogno, non voleva precipitare nel baratro della disperazione.
“Ma non credo abbia detto niente su di noi.”
“Bene,”
sibilò
Jessica fra i denti. “Deve restare un segreto,
altrimenti...”
“Altrimenti cosa? Come
potrebbe andare peggio di così? Non... non
riuscirò più
nemmeno a guardarmi allo specchio...” Flavia si era presa la
testa
fra le mani e la agitava con troppa energia. I capelli neri tinti
balzavano di qua e di là, accompagnati dai lamenti della
ragazza.
“Non l'abbiamo uccisa
noi!”, urlò Jessica. Il secondo dopo, si
portò una
mano davanti alla bocca. Ormai era troppo tardi, poteva solo sperare
che non stesse passando nessuno in corridoio. Aveva perso la calma.
Se non si sbrigava a ritrovarla avrebbe fatto la stessa fine di
Flavia.
“Sì, invece! Ma
non te ne rendi nemmeno conto? Hai rovinato tre vite e ne hai spenta
una, solo perché vuoi farti quello stronzo di
Alessandro!”
“No... io... come facevo
a sapere che sarebbe successo?”
“Porca puttana, Jess!
Abbiamo fatto una cosa orribile! Siamo dei mostri!”
“Non è vero,
smettila di dire stronzate,” s'intromise Roberta. Aveva
assunto un
tono glaciale. Se provava ancora delle emozioni, le aveva nascoste
dietro una barricata indistruttibile. Jessica desiderò
essere
come lei, desiderò riuscire a ricacciare indietro quella
sensazione terribile che le attanagliava lo stomaco. “Come
fai a
sapere che è colpa nostra? Era depressa già da
prima,
probabilmente sarebbe successo comunque.”
Asia aveva provato a
mettere fine alle proprie sofferenze già un mucchio di
volte,
prima di quel giorno. Ogni volta la madre l'aveva trovata, e lei si
era risvegliata in ospedale, con le voci di tutti gli abitanti del
paese che spettegolavano del suo tentato suicidio. Anche quando
tornava a scuola, si ritrovava gli occhi dei ragazzi e perfino dei
professori puntati addosso per giorni, finché la notizia non
veniva eclissata da qualche altro pettegolezzo.
Tuttavia, era da più
di sei mesi che non accadeva più niente del genere, e
Jessica
aveva finito per dimenticarsene.
“Siete due teste di
cazzo,” continuò Flavia. “Non so se fate
solo finta di non
capire, ma non mi interessa. Non voglio avere mai più niente
a
che fare con voi. Vaffanculo.” Con queste parole,
aprì la
porta e uscì dalla classe senza neanche guardare le sue
vecchie amiche in faccia.
“Aspetta, non azzardarti
a dirlo a nessuno!”, le urlò dietro Roberta, ma
non ottenne
alcuna risposta.
Jessica guardò
Flavia allontanarsi lungo il corridoio, fissò le sue spalle
curve, la sua schiena arcuata. Fino a un giorno prima, camminava
sempre a testa dritta. Una sola notizia e la sua intera vita era
cambiata per sempre.
Con la coda dell'occhio,
Jessica notò la punta di una scarpa, una converse
nera
con le borchie. La persona a cui appartenevano se ne stava attaccata
contro la parete. Aveva appena origliato la loro conversazione...
Come se si fosse resa
conto di essere stata individuata, la persona sconosciuta si
allontanò.
“Non darle retta.”
Roberta le aveva afferrato un braccio per tirarla verso di
sé.
Le due si guardarono negli occhi. In quelli dell'altra, Jessica non
scorse alcuna esitazione, alcun dubbio. Ancora una volta,
invidiò
quella sua sicurezza. “Forse è vero che abbiamo
esagerato,
ma non credevamo che sarebbe mai arrivata a tanto. Non è
colpa
nostra.”
Quelle parole avrebbero
dovuto rassicurarla. Invece, Jessica non avrebbe saputo dire se fosse
a causa di Roberta o se fosse stata la consapevolezza che qualcuno le
avesse sentite, ma ebbero l'effetto contrario. Lo stomaco,
già
in subbuglio da prima, le mandò una fitta lancinante. Il
dolore fu simile a quello che lei aveva sempre immaginato derivasse
da un calcio che ti prende in pieno.
Represse a stento un
grido, ma non riuscì a trattenere una smorfia. Si premette
la
mano contro lo stomaco, mentre un sapore di bile le annacquava il
palato. La sentì risalire, premere per uscire.
Spinse via Roberta senza
troppa delicatezza. “Scusami, devo andare in
bagno...”
Il vomito galleggiava
nell'acqua del vater. Non era cibo, era una sostanza liquida e
giallognola. Jessica quella mattina non aveva avuto tempo di fare
colazione, eppure la cosa non le aveva impedito di rigettare.
Rimase a fissare quello
spettacolo disgustoso ancora per qualche istante. Si reggeva i
capelli dietro la nuca con una mano, per evitare che si sporcassero.
L'ultima cosa che le mancava, quel giorno, era andarsene in giro con
del vomito attaccato ai capelli. Respirò a fondo, sentendo
l'aria entrarle nei polmoni e gonfiarli fino al limite.
Aspettò
ancora per dei secondi interi, per assicurarsi che il suo stomaco si
fosse calmato, e finalmente lasciò andare i capelli. Le
ricaddero scomposti sul viso e sugli occhi, ma non si
preoccupò
nemmeno di spostarli.
Le parole di Flavia
continuavano a riecheggiarle nella testa. Avevano fatto qualcosa di
orribile. Avevano spento la vita di una ragazza innocente.
Scacciò quei
pensieri agitando la testa. Se possibile, ciò che le venne
in
mente dopo fu anche peggio.
Qualcuno aveva ascoltato
tutta la loro conversazione. Qualcuno che lei non avrebbe mai potuto
rintracciare.
Non aveva il tempo di
andare in giro per tutta la scuola a cercare una ragazza con quelle
stesse scarpe: l'intervallo era già terminato e, non appena
ne
avesse trovata la forza, sarebbe dovuta tornare in classe. Avrebbe
dovuto fingere di seguire la lezione, aggrapparsi alle nozioni
inutili che gli insegnanti avrebbero spiegato, per evitare di
impazzire.
Ma non poteva lasciare che
quel qualcuno se ne andasse in giro a raccontare quello che aveva
sentito.
Tirò l'acqua, ma
non guardò il vomito scivolare giù lungo lo
scarico.
Abbassò la tavoletta e ci si sedette sopra, le mani davanti
agli occhi. I singhiozzi arrivarono e fu impossibile ricacciarli
indietro.
Non avrebbe saputo dire da
quanto tempo fosse lì, quando trovò il coraggio
di
riaprire le palpebre e fissare la porta chiusa di fronte a
sé.
Le parve come se fossero trascorsi solo pochi minuti, ma per quanto
ne sapeva poteva trattarsi anche di ore intere.
Udì un rumore di
passi avvicinarsi. Trattenne il fiato.
Un paio di scarpe si fermò
proprio di fronte alla sua porta. Erano delle converse
nere
con le borchie.
Jessica si coprì la
bocca con una mano per evitare di cacciare uno strillo. Il corpo era
scosso dai tremiti, la gola all'improvviso le era diventata secca,
arida più della sabbia nel deserto. Inghiottì, ma
la
salivazione sembrava quasi essersi fermata del tutto.
La persona sconosciuta
bussò con vigore.
Jessica affondò i
denti nella lingua, indecisa se rispondere o far finta di niente.
“O... occupato,”
mormorò dopo un po'. Si era resa conto che l'altra persona
poteva vedere i suoi piedi da sotto la porta, proprio come Jessica
vedeva i suoi. Fingere di non esserci sarebbe stato inutile.
Passarono secondi interi,
eppure non giunse risposta.
Bussò di nuovo, più
forte.
Jessica chiuse gli occhi.
Prese un lembo di pelle del braccio fra il pollice e l'indice e lo
pizzicò, sperando di risvegliarsi nel proprio letto e
scoprire
che era tutto un terribile incubo. Asia era ancora viva, si disse,
nel mondo reale era viva e sarebbe tornata a scuola, prima o poi, con
il volto sfregiato, ad affrontare il suo destino.
Ma non si svegliò.
Bussarono ancora.
“Vattene via!”,
urlò
allora. Si era afferrata i capelli, tirandoli indietro. Non
notò
nemmeno il dolore che questo gesto le provocò,
così
come non si rese conto di aver cominciato a raschiarsi la pelle del
braccio con le unghie. “Cosa vuoi da me? Vattene!”
Il volto immerso nelle
lacrime, il cuore che le martellava nel petto così forte da
farle male, si gettò in avanti e aprì la porta.
Gli occhi si sbarrarono,
le labbra secche si dischiusero, formando una 'o'.
Lì di fronte a lei
non c'era nessuno.
Note dell'Autrice:
Ciao a tutti! Questo era il secondo capitolo, da qui in poi direi che comincerà la parte "soprannaturale"!
Ma non ho molto da dire, perciò vi ringrazio per aver letto e mi dileguo.