Tutta colpa di un cane.
La giornata è stata
lunga e pesante.
Mi sono alzata alle sette di questa mattina e sono
riuscita a lasciare la scuola solo alle cinque.
Mi chiamo Chiara e ho da poco compiuto ventotto anni,
vivo da Sheffield da qualche mese e sono assistente di una
professoressa di
italiano al locale college.
Quello che faccio è commentare le notizie che vengono dal
Bel Paese – di cui non mi importa nulla, avendo chiuso con la
politica qualche
anno – le nostre tradizioni e li aiuto con la pronuncia e la
difficile grammatica
italiana.
Oggi ho insegnato alla bellezza di cinque classi e sono
stanca morta e sento gli artigli della nostalgia squarciarmi il petto,
una cosa
che mai avrei creduto possibile. Sin da piccola sognavo di andarmene
dall’Italia e girare il mondo, ora che sta accadendo vorrei
essere nella mia
cameretta italiana.
Per me è difficile vivere qui, mi alzo troppo presto e
non trovo del cibo che mi piaccia e mi mancano i miei genitori, vorrei
dire che
mi mancano i miei amici, ma sarebbe una bugia.
In Italia non ho lasciato nessuno e non ci sono messaggi
di incoraggiamento, richieste di portare quello o questo quando torni.
Niente di niente.
Visto che ho un carattere complicato faccio anche fatica
a fare amicizia con i colleghi, per ora ho solo un rapporto cordiale
con loro e
metà del mio soggiorno qui è passata.
Passata in serata solitarie a correggere i compiti o a
guardare la tv, se non ci fosse Jack, il mio gatto, non saprei cosa
fare. Non
che lui sia più felice di me, sradicato
dall’Italia fatica ad adattarsi come me
e ho sempre paura di non trovarlo un giorno.
Fortunatamente sembra aver sviluppato un attaccamento
morboso alla casa e non esce nemmeno sul tetto, non va a guardare
Sheffield
dall’alto e si gode l’appartamento in periferia in
cui abitiamo.
Quando sono di questo umore mi rifugio in un piccolo
parco del quartiere dove abito e guardo la natura, degli esseri umani e
delle
loro storie malate non mi interessa più nulla da molto tempo.
Ora sto fumando una sigaretta guardando le anatre dello
stagno che litigano per un pezzo di pane e rabbrividisco nel vento
freddo di
fine gennaio. Qui fa più freddo che in Italia e io non
l’ho messo in conto.
Me ne sto per andare quando un cane di piccola taglia
nero con delle zone marroni sul muso e le zampe di quel colore mi si
avvicina
scodinzolando.
Annusa i miei piedi e poi alza il muso verso di me, io lo
accarezzo incuriosita.
“Ehi, ciao, bello!”
Mi guardo intorno, aspettandomi di veder arrivare il padrone o la
padrona di
questo piccoletto.
Non arriva nessuno e io mi alzo in piedi, guardando la
bestiola che ricambia il mio sguardo con quella che sembra essere
felicità, ho
sempre avuto più feeling con i gatti.
Butto il mozzicone spento nel cestino più vicino e noto
che il cane mi segue.
“Ehi, non ce l’hai un padrone?”
Lui si limita a scodinzolare e a continuare a seguirmi, fermandosi ogni
tanto
per fare pipì e mandandomi in panico. Oddio, che faccio?
La mia etica mi impedisce di abbandonare un animale, ma
non so che fare. Lo guardo ancora un po’, poi decido: lo
porto a casa mia.
Domani, il mio giorno libero, lo porto da un veterinario
per vedere se ha un chip o un tatuaggio che mi aiuti a identificare il
padrone,
se non ce l’avesse metterò un annuncio sul
giornale locale per vedere se
qualcuno risponde.
Vicino a casa mia c’è un piccolo supermercato,
prendo in
braccio il cane senza nome ed entro, tutti mi guardano e io sorrido
imbarazzata: non mi piace che la gente mi guardi.
Mi dirigo al reparto animali e prendo qualche scatoletta
di cibo per cani e poi lo pago ed esco di corsa, sempre correndo mi
faccio i
cinque piani del mio condominio in periferia con la bestia in braccio.
Quando apro la porta Jack si struscia contro le mie gambe
e rivolge un’occhiata diffidente al nuovo arrivato, io lo
metto a terra e
quello inizia ad annusare ovunque soprattutto il didietro del mio gatto
che
risponde soffiando offeso.
Ok, devo sedare la lite.
“Bello, non hai fame?”
Non capisce l’italiano, ma quando gli mostro la
scatoletta rivolge la sua attenzione a me e smette di tormentare il
povero
Jack.
Gli do da mangiare e lo lascio in cucina, io mi faccio
una lunga doccia, poi arrangio una cena e accendo il computer prima di
correggere i compiti dei miei allievi.
Vado su Tumblr e poi su Twitter dove mi colpisce un tweet
di Oli Sykes: è disperato per aver perso Oskar, il suo cane,
di cui posta un
immagine.
Io la guardo e poi guardo il cane che ho trovato io e mi
dico che quei due cani o sono lo stesso o sono sosia, vuoi vedere che
ho
trovato il cane del cantante di una delle mie band preferite?
Mi gratto il mento, accendo una sigaretta e mi decido a
scrivergli un messaggio:
“Ciao, sono Chiara.
Vivo a Sheffield e penso di aver trovato Oskar.”
Probabilmente in questo momento starà ricevendo migliaia di
messaggi e non è
nemmeno detto che guardi il mio quindi mi metto a correggere i compiti.
Due ore dopo – quando ho il cervello in pappa – mi
arriva
una risposta.
“Puoi provarlo o sei solo una fan in cerca di
notorietà?”
Il mio cuore rischia di uscire dalla cassa toracica e devo fare un paio
di
volte i miei esercizi di respirazione prima di rispondergli.
“Posso provarlo. Adesso ti mando una foto.”
Prendo un giornale e lo appoggio vicino alla bandiera italiana che
decora un
angolo di muro, poi prendo quello che ormai sono certa essere Oskar e
lo
depongo vicino al giornale di cui ho messo in vista la data.
Più che un’ insegnante mi sento una terrorista
dell’ISIS
che sta trattando il rilascio di prigionieri!
Faccio una foto a Oskar e la mando a Oli, pochi minuti dopo il
cellulare vibra.
“Dove abiti?”
Io gli scrivo il mio indirizzo e mi siedo, per poi alzarmi subito dopo
e
correre sul balcone a fumare una sigaretta, sotto lo sguardo irritato
di Jack.
Probabilmente Oli Sykes verrà qui, non ci posso credere!
Sto avendo dei pensieri da ragazzina cretina, poi guardo con
orrore le mie ciabatte da turista tedesca in vacanza e mi rendo conto
che
indosso un paio di pantaloni neri sformati e un pile arancione anas.
Finisco la sigaretta e filo in camera, estraggo un paio
di jeans sdruciti e pieni di tagli, una maglia nera e una camicia a
quadri
rossa e nera, controllo di non puzzare e mi cambio.
Metto un paio di scarpe da tennis e mi siedo in sala
davanti ai compiti ad aspettare, dovrei correggerli, ma il mio cervello
non ce
la fa a concentrarsi sulla grammatica italiana e le sue regole quando
sa chi
dovrà vedere tra poco.
Che ansia!
Inizio a tamburellare la penna rossa sul tavolo, Jack se ne va in
camera da
letto con una smorfia di disapprovazione dipinta sul suo volto felino.
“Eddai, cerca di capirmi!
E se non vuoi capire, vedi il lato positivo! Il cane non
dovrà rimanere con noi
questa notte!”
Sì, parlo con il gatto e non me ne vergogno, è
sempre meglio che parlare da
sola, credo.
In questo momento non sono sicura nemmeno del mio nome!
Un’ora più tardi qualcuno bussa con forza alla mia
porta.
Strano che non abbiano suonato!
Poi mi ricordo che la vecchietta che abita al secondo
piano probabilmente ha l’Alzheimer e si dimentica sempre di
chiudere il
portone. Mi fa un po’ pena, la rimproverano sempre a tutte le
riunioni condominiali,
lei si scusa umiliata, ma poi continua a dimenticarsene.
Io apro la porta e vengo travolta da una pertica che si
lancia sul cane e cadrei per terra se due braccia muscolose e tatuate
non mi
sorreggessero.
Senza fiato, alzo i miei occhi azzurro-verde e mi scontro
con quelli blu di Lee Malia, che mi rimette gentilmente in piedi.
“Scusa, è che ci tiene davvero tanto al suo cane,
nemmeno
fosse suo figlio.
Io sono Lee Malia, comunque.”
Mi tende una mano che io stringo come in trance.
“Io sono Chiara, piacere.”
Dico con un filo di voce.
Sono incredula davanti a tanta fortuna!
Avere due rockstar in casa ti
destabilizza giusto un po’.
Solo dopo cinque minuti in cui sono stata vagamente
consapevole che Oli Sykes stava coccolando Oskar chiamandolo con i nomi
più
improbabili mi risveglio dal mio coma.
“Volete qualcosa da bere?”
Chiedo.
“Una birra per me, tu, Lee?”
“Una anche per me.”
Vado in cucina e torno con due lattina di birra e una di the freddo per
me.
Oskar è in grembo a Oli, Jack ci spia guardingo dalla
porta della camera a letto con felina disapprovazione, ma poi si muove
e salta
in braccio a Lee.
“Oh, scusami! Di solito non lo fa mai.
Jackie, scendi!”
“A me non dà fastidio! Ciao, Jackie!
Ma che bel gatto che sei.”
Beviamo in silenzio per un attimo.
“Cosa avresti fatto se non avessi messo
quell’annuncio su
twitter?”
“L’avrei portato dal veterinario per capire se
avesse o meno un chip o un
tatuaggio identificativo. Domani l’avresti riavuto
comunque.”
Oli sorride e accarezza il cane, che scodinzola e guarda con amore il
suo
padrone. Che strano cane!
Finiamo la birra e Oli mi guarda.
“Vuoi qualcosa?”
“No, no!”
Alzo le mani.
“Mi ha fatto piacere aiutare un animale! Solo, se non ti
dispiace, vorrei avere una foto e un autografo.”
“Va bene.”
Ci facciamo le foto insieme, ovviamente anche con Lee, e
poi mi firmano due fogli, Oli
poi ne
prende un terzo e ci scrive qualcosa.
“Vai alla Drop Dead e mostra questo alla commessa, potrai
prendere la cosa che più ti piace senza pagarla.”
“Ma non devi!”
“Ma voglio, ti sono debitore.
Adesso vado che devo rassicurare Hannah, ti lascio Lee,
riportamelo a casa.”
“Non sono un cane! Mi riporto da solo!!”
Esclama irritato.
“Coglione, siamo venuti con la mia macchina! Se io me ne
vado non puoi tornare a casa!”
“Magari lei ha una macchina.”
“No, mi dispiace.”
Intervengo.
“Chiamerò un taxi.”
“Va bene. Basta che domani torni!”
Oli se ne va accompagnato da uno sbuffo del ragazzo più
basso e così sono
rimasta sola con Lee Malia che prende in braccio il mio gatto e guarda
i miei
compiti.
“Sei un’insegnante?”
“Assistente di una professoressa di italiano, faccio la
madrelingua al college di Sheffield.”
Mi guarda, scannerizzando la mia figura non proprio
magra, i pochi tatuaggi e i miei capelli mezzi verdi, io arrossisco e
incrocio
le braccia sul petto.
“Io ti conosco!”
Io alzo un sopracciglio.
“Cioè, non ti conosco direttamente, ma mia cugina
mi ha
detto che ha una madrelingua di italiano tosta. Una con i capelli mezzi
verdi e
che ascolta la mia band.”
“Non sapevo di essere famosa.”
Balbetto senza aggiungere che non sapevo di avere l’onore di
insegnare a una
Malia.
“Già.”
“Da cosa l’ha capito?”
“Dal ciondolo con il simbolo di
“Sempiternal” e poi dice che quando arrivi
ascolti l’mp3 e se ti si passa vicino si capisce che ascolti
noi.”
“Oh.”
Rimango un attimo in silenzio e lui si avvicina.
“Non ti va di approfittare di me?”
Io rischio di svenire e mi ritrovo di nuovo tra le sue braccia,
dovrebbe essere
seccato, ma sorride.
“Una fans che non salta addosso! Che bello!”
Vorrei dirgli qualcosa, ma non faccio in tempo perché lui mi
bacia e io
rispondo, poi mi stacco di forza e comincio a camminare avanti e
indietro.
“Oh, no! Non ci casco.
Lo so come va! Tu mi baci, mi porti a letto e domani chi
si è visto si è visto.
Un’altra tipa da mettere sulla lista di quello che si
è
fatto.
Perché diavolo mi hai baciato?”
Urlo come un’ossessa facendolo arrossire.
Un ragazzo che arrossisce, ma da quando?
Mai visto in vita mia.
“Non so, sei carina. Appena hai aperto la porta avrei
voluto farlo, ma c’era Oli e lui l’ha capito e si
è tolto dai piedi lasciandoci
soli.
Poi mi devo far perdonare perché se quel cane ti
è finito
tra i piedi è colpa mia che me lo sono lasciato
scappare.”
“Non ha senso. L’ultima frase non ha un cazzo di
senso!”
“Sì, hai ragione.
Oli dice che sono in astinenza perché mi faccio troppe
pare sulle tipe che mi piacciono e poi qualcuno arriva e se le prende
prima di
me.”
“Quindi, io sarei uno snack per saziare la tua fame di sesso?
Pensavo fossi migliore, me lo sarei aspettato da Oliver,
ma non da te.”
“No, non è così!
Senti, domani ti accompagno alla Drop Dead e ci facciamo
un giro e magari smetterai di scambiarmi per un maniaco.”
Io arrossisco.
“Non penso che tu sia un maniaco!
Però va bene, vediamoci domani alle tre davanti alla Drop
Dead. Tu fumi?”
“Non fumo erba!”
Mi ammonisce severo.
“Ma che? No, sigarette!”
Ma che razza di commedia dell’assurdo sta diventando
questo incontro?
Io non ce la faccio più, infilo un sacco di errori dietro
l’altro.
Domani non vado alla Drop Dead, appena Lee se ne va mi
butto dal balcone e domani mattina la vecchietta del secondo piano
avrà un
infarto trovandosi il mio cadavere sul balcone tra i gerani.
“Vabeh, meglio che ci vediamo domani.”
Esalo, ormai convinta di aver fatto le peggiori figuracce della mia
vita.
“Scusa, per l’equivoco! Non volevo metterti a
disagio!
Una sigaretta mi va, intanto che Oli non
c’è.”
Usciamo nel mio terrazzino e io mi accendo una Camel nervosa, passando
poi il
pacchetto a Lee.
“Posto carino.”
“Non mi posso lamentare, è periferia, ma non
degradata e gli altri inquilini
non sono così male.
Mi ci trovo bene, ma anche se mi ci trovassi male alla
fine dell’anno scolastico torno a casetta, in
Italia.”
“E non provi a rimanere?”
“Magari ritorno tra qualche mese, non è che
insegnare mi piaccia tantissimo, ma
ho deciso di viverla come un’esperienza utile.”
“Capisco.”
“Vivi in un bel posto in Italia?”
“A qualche chilometro da una città molto bella, la
arte storica è su un colle.
Si chiama Bergamo.”
“Almeno so dove venirti a trovare.”
Mi va di traverso il fumo.
“Che ho detto di male?
Sono una rockstar stressata e dicono che l’Italia sia
davvero bella e calda, verrei a rilassarmi.
La Toscana mi è piaciuta tanto.”
Ci sta davvero provando con me, non ci posso credere.
Forse il balcone-suicidio può aspettare.
Finita la sigaretta se ne va e io mi butto sul letto e
scoppio in un pianto isterico che fa spaventare il povero Jack.
Ho respinto uno dei miei sogni proibiti, devo essere
fuori di testa.
Quando mi ricapita un’occasione del genere?
La mattina dopo mi alzo e cerco di
metabolizzare gli
eventi.
Ho ritrovato il cane di Oli Sykes, lui e Lee Malia sono
venuti da me, mi hanno fatto gli autografi e abbiamo fatto le foto di
rito, Lee
ci ha provato con me e io ho dato di matto.
Mi porto le mani davanti al volto grugnendo e
insultandomi mentalmente per la mia stupidità, potevo avere
una prima volta con
una rockstar e invece ho reagito come una mezza matta. Di sicuro oggi
non
verrà, ma almeno potrò comprarmi qualcosa della
Drop Dead.
Non è granché come consolazione, ma è
meglio di niente.
Mi alzo e mi trascino a farmi una doccia, poi faccio
colazione e finisco di correggere i compiti che ho lasciato indietro
ieri sera
ansiosa come non mai.
Si farà o non si farà vedere?
Una volta terminato di correggere mi accorgo che è ora di
pranzo, non ho voglia di cucinare quindi andrò a un Mac
Donald. Mi cambio ed
indosso una mini di pizzo, una maglia nera e una felpa a fantasia di
teschi,
come tocco di ulteriore eccentricità metto un paio di calze
a righe nere e
bianche. Calzati gli anfibi e recuperati la borsa e il cappotto esco.
Mi reco in centro nella zona vicino a negozio ed entro
nel primo Mac Donald dove mangio un menù sostanzioso, alla
faccia di tutti. Il
negozio apre alle tre, quindi ne approfitto per fare un giro per
ammirare le
vetrine dei costosi negozi del centro immaginando di avere i soldi e il
fisico
per indossarli.
Alle tre precise sono davanti alla sede della Drop Dead
con una sigaretta in bocca, distratta e in preda all’ansia,
tanto che non vedo
subito chi c’è vicino alla porta.
“Chiara!”
Mi chiama un voce storpiando il mio nome come fanno gli
inglesi.
Alzo gli occhi e i miei occhi azzurro-verde si scontrano di nuovo
con quelli blue di Lee Malia e io lo guardo sorpresa, così
sorpresa che non
vedo un tombino e inciampo, finendo per terra lunga e distesa.
Lui si precipita verso di me e mi aiuta a rimettermi in
piedi e nota che mi sono sbucciata un ginocchio e rotta il mio paio di
calze
preferite.
“Che figura di merda.”
Mormoro in italiano.
“Cosa?”
“No, niente.
Come mai sei venuto qui?”
“Avevamo un appuntamento, te lo sei scordato?”
“No, ma pensavo che dopo ieri sera non saresti
venuto.”
Zoppicando entro in negozio accompagnata da lui, la
commessa mi guarda curiosa, io le porgo il biglietto scritto da Oli,
lei lo
studia per un po’ poi sorride.
“Può comprare gratis un capo, signorina.”
“Bene.”
Sto per andare verso la zona felpe femminili quando Lee mi ferma.
“Annie, dammi il kit del pronto soccorso.”
Io sospiro.
“Non ce n’è bisogno, Lee. È
solo una sbucciatura.”
“Che va medicata.”
Risponde testardo lui.
“Va bene.”
Mi arrendo subito io e sorprendo me stessa, di solito per convincermi a
fare
qualcosa ci vuole molto più tempo. Annie porta la cassetta e
Lee la prende in
mano, con aria professionale prende il cotone e il disinfettante.
“Ho la mano delicata, non ti farò male. Ho fatto
un po’
di predica soccorrendo Oli Sykes in questi dodici anni di
vita.”
Il suo tono è rassicurante e in effetti il suo tocco
è molto leggero mentre
passa il cotone sopra la ferita dopo aver tagliato le calze per
facilitarsi il
lavoro. Poi ci mette del betadine e mi benda.
“Ora puoi scegliere la tua felpa e un vestito.”
“Perché?”
“Il vestito è un mio regalo. Quel giorno ero io il
responsabile di Oskar e me
lo sono fatto scappare, se tu non l’avessi ritrovato Oli mi
avrebbe ucciso. Un
regalo te lo meriti, fine della storia.”
Mi aiuta ad alzarmi e mi accompagna verso la zona felpe,
ne guardo molte e penso che le vorrei tutte o quasi. Alla fine decido
di
prendere una felpa nera con un teschio, due paia di ali, la scritta del
marchio
e dei decori rossi.
Me la provo, Lee mi aspetta fuori dal camerino e alza
entrambi i pollici in segno di approvazione.
“Ti sta bene, in linea con la linea dark che hai.”
“Grazie, penso prenderò questa.”
Vado verso la cassa, ma lui mi ferma ancora.
“E il vestito?”
“Non posso accettare.”
“Dai, qual è il vero problema?”
“Nessun vestito mi sta davvero bene con questo
corpo.”
Lui alza gli occhi al cielo.
“Guarda me, sono grassottello e con le orecchie a
sventola eppure non mi faccio condizionare e poi non si rifiuta un
regalo.
Vieni.”
Mi trascina verso la zona vestiti, io lo seguo imprecando
perché mi fa male il
ginocchio, lui se ne accorge e rallenta il passo.
Sbuffando inizio a passare in rassegna il reparto e la
mia scelta cade su un vestito estivo che mi piace un sacco, anche se
forse è
presto per pensare all’estate. È piuttosto corto,
a maniche corte e stretto in
vita. Sono i colori a conquistarmi. Il colletto è fucsia con
disegni ovali che
ricordano i semi di un’anguria e i vestito è a
fantasia di righe verdi e
bianche che convergono verso il centro.
“Non vorrai prendere questo?
Oli era in fissa con le angurie in quel periodo.”
“Penso che prenderò questo.”
Me lo provo e mi piace un sacco, Lee sembra perplesso, ma non apre
bocca. Questa
volta ci dirigiamo alla cassa, la felpa è gratis e il
vestito lo paga lui.
Fuori mi accendo una sigaretta, lui invece si gratta la
testa.
“Volevo invitarti a fare un giro, ma con quel ginocchio
fai fatica, cosa ne dici di venire a casa mia?
Non ti stupro, promesso.”
Io do un paio di tiri alla mia sigaretta e alla fine
annuisco.
Non sono così scema da farmi scappare due volte lo stesso
treno, lui sorride e mi aspetta, poi saliamo sulla sua macchina.
Durante il viaggio mi parla di vari aneddoti che riguardano
la sua band, inclusi alcuni che mi danno un’idea precisa del
perché lui se la
sappia cavare così bene con il pronto soccorso. Oli sembra
una calamita per i
guai, un disastro ambulante.
Arrivati a casa sua scendo dalla macchina e lo seguo in
un grande atrio con un parquet di un caldo marrone.
Mi tolgo il cappotto e lo seguo.
Il soggiorno è elegante e caotico, i mobili sono costosi,
di un legno non troppo scuro, il divano è di un bel color
crema e il tappeto
rosso dà un tocco di vivacità
all’ambiente tappezzato dai premi vinti dalla
band.
Il problema è che ci sono chitarre e fogli sparsi
ovunque, io sorrido involontariamente.
“Scusa il casino…”
“È uguale a quello che c’è
nel mio appartamento.”
Lui ride e mi fa cenno di sedersi sul divano, poco dopo torna
con due birre, una la dà a me.
“Allora cosa mi racconti?”
“Non molto, non faccio una vita interessante.
Vado a scuola, insegno ai miei allievi, correggo i
compiti e poi basta.”
“Non hai amici qui?”
“Faccio fatica a fare amicizia.”
Dico scuotendo le spalle.
Parliamo ancora un po’, poi finiamo per ritrovarci
vicini, troppo vicini.
I miei ormoni sono a mille, i miei occhi sono calamitati
dal blu dei suoi, dai capelli di un castano chiaro, dalla leggera barba
e dalle
adorabili orecchie a sventola per non parlare dei tatuaggi.
In un attimo lo bacio a stampo, lascio che sia lui a
prendere l’iniziativa per qualcosa di più se lo
vuole e in effetti chiede
l’accesso alla mia bocca e presto le nostre lingue stanno
lottando per dominare
l’una sull’altra.
Le mie mani sono fra i suoi capelli, le sue sulle mie
guance e le accarezzano dolcemente. Quando ci stacchiamo mi guarda
confuso e io
annuisco, ci baciamo di nuovo e di nuovo, fino a che lui scende sulla
mascella
e sul collo, baciandolo, leccandolo, succhiandolo. Io gemo e mi inarco
per sentire meglio,
lascio anche che le sue mani mi slaccino la felpa e mi tolgano la
maglia.
Io non rimango inerte e gli tolgo anche io felpa e
maglietta e gli accarezzo il petto, è muscoloso e morbido
allo stesso tempo.
Non so come siamo finiti sdraiati con lui sopra di me che
preme il bacino contro il mio strappandomi un gemito.
“Non fare così o non saprò
fermarmi.”
“Forse non voglio che ti fermi.”
La frase sembra sbloccare qualcosa dentro di lui perché mi
prende in braccio,
io gli allaccio le gambe dietro la schiena e mi porta nella sua camera
da
letto. Mi depone sul letto e chiude la porta a chiave, poi si sdraia su
di me e
toglie il reggiseno, massaggia un seno e prende in bocca il capezzolo
dell’altro. Io quasi urlo per la piacevole sorpresa, inizio a
sentire caldo là
sotto.
Dio, non pensavo potesse essere così bello.
Io gli accarezzo freneticamente la schiena e il petto,
graffiandolo ogni tanto soprattutto quando la sua bocca avida scende
verso
l’ombelico.
Arrivato alle mutande mi guarda, in una muta richiesta di
permesso, io annuisco senza fiato e lui mi toglie la gonna e le calze e
mi
accarezza dolcemente da sopra le mutande.
“Ti faccio un certo effetto.”
“Mi fai andare fuori di testa.”
Ansimo, lui sorride soddisfatto.
Mi toglie anche l’ultimo indumento e infila un dito
giusto per esplorare e mandarmi ulteriormente fuori di testa e poi due,
mentre
con il pollice tortura abilmente il mio clitoride.
Io ormai sto ansimando a voce altissima e stringo le
lenzuola fino a farmi venire le nocche bianche, travolta dalle ondate
di
piacere. Continua a muovere le dita sempre più forte,
toccando i miei punti più
sensibili fino a quando raggiungo l’orgasmo e imprigiono la
sua mano tra le mie
gambe.
Rimango sdraiata qualche secondo con la sensazione di
galleggiare, poi mi accorgo che Lee armeggia con la cintura dei
pantaloni. Io
gli do una mano e lui li calcia via, poi gli tolgo anche i boxer
liberando la
sua erezione pulsante.
Seguendo quello che è puro istinto prendo in mano il suo
pene e comincio a muoverla lungo tutta la lunghezza, lui appoggia una
mano
sulla mia corregge ritmo e posizione e poi sul suo volto iniziano a
scorgersi i
primi segni del piacere. Tolgo la mano e decido di prenderlo in bocca,
di
leccare e succhiare strappandogli gemiti acuti.
All’improvviso mi prende gentilmente per i capelli e mi
toglie, poi mi stende sul letto, si infila un preservativo ed entra
senza
indugio in me.
La prima spinta è forte e mi strappa un gemito di dolore,
lui solleva i suoi occhi blu, liquidi per il piacere sui miei.
“Tu sei vergine.”
Esclama sorpreso.
“Sì, mi dispiace.”
“Non fa niente.”
Mi accarezza dolcemente il volto e mi bacia la fronte, io lo stringo a
me.
Rimane un po’ fermo per permettermi di abituarmi alla sua
presenza, poi spinge ancora più piano e con spinte
più lunghe, baciandomi per
smorzare i gemiti.
Io gli graffio la schiena a ogni spinta, ma a lui sembra
non importare e il dolore è stato sostituito dal piacere.
Continua a spingere aumentando il ritmo e diventando
sempre più brutale mentre i peli delle sue gambe mi
solleticano le cosce.
Non so di preciso quanto duri, so solo che a un certo
punto sento un calore insopportabile al basso ventre e urlo il suo nome
mentre
raggiungo il culmine insieme a lui, che poi cade stremato su di me.
Ora respiriamo pesantemente, io gli accarezzo i capelli
sudati, lui un fianco.
“Peso, mi sposto.”
“Per favore, rimani.”
Lo supplico e lui mi accontenta, accoccolandosi meglio dopo essersi
tolto il
preservativo.
“E adesso cosa facciamo?”
Gli chiedo.
“Facciamo finta che non sia mai successo e addio per
sempre?”
“Veramente pensavo di invitarti a un vero appuntamento domani
sera.”
“Oh, Lee.”
Lo bacio ancora.
“Mi piaci tanto.”
“Anche tu.”
Mi risponde seppellendo la faccia nell’incavo del mio
collo e baciandolo lievemente.
“Malia! Ehi, Malia!
Urla una voce e la porta si spalanca rivelando un Oli
Sykes sorpreso, Lee non deve avere chiuso bene la porta.
“Oh, alla fine ce l’hai fatta a fare il primo passo.
E bravo il mio ragazzone!”
Io divento di fiamma, fortuna che il corpo di Lee mi copre.
“Ci servi alle prove. Ora.”
“Ma…”
“Te la coccoli domani, anzi portatela con te.”
Oli se ne va.
Io e Lee scoppiamo a ridere e poi ci facciamo una doccia
insieme.
Non so come andrà a finire questa storia, ma voglio
viverla fino in fondo.
Il destino mi ha concesso un’occasione rara e non voglio
sprecarla.
Bacio Lee prima di entrare in macchina.
“Penso quasi di amarti.”
“Anche io.”
Risponde baciandomi.
Poi lancia la macchina a velocità folle verso lo studio.
Mi piace la nuova piega che ha preso la mia vita.
Sì, dopotutto i miracoli possono accadere, basta solo
saper aspettare.
Sorrido e mi rilasso meglio sul sedile, mano nella mano
con lui.
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