shiho saotome
Note: Kimiyoi {Kimizuki x Yoichi} | R – Giallo
Parole: 6906
Avvertimenti: AU! | Adult!Characters
Addicted
{You may become my drug.}
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Il centro di disintossicazione
della città era sempre pieno. Yoichi si sorprendeva ogni volta
nel constatare quanti giovani come lui, a volte anche più
piccoli, finissero nel circolo pericoloso della droga.
Aveva iniziato a lavorare lì dopo che sua sorella era stata
uccisa dal fidanzato, dipendente dalla cocaina. Aveva deciso di reagire
al dolore e perdonare, preferendo aiutare le persone affinché
nulla di simile si ripetesse.
All'inizio, tuttavia, era stata più una decisione dettata dalla
rabbia. Nel disperato tentativo di soffocare il dolore si era gettato
nell'unico lavoro che potesse farlo sentire in qualche modo utile, che
potesse fargli rimediare alla sua ciecità.
«Se avessi saputo - si diceva sempre il castano, quando rimaneva
da solo con se stesso - avrei potuto aiutarla». I sintomi erano
così ovvi, il suo comportamento così facilmente
interpretabile, se solo avesse saputo. Che altra soluzione, allora, se
non apprendere ogni singolo indice di dipendenza, ogni possibile
conseguenza, ogni sostanza fra le più utilizzate?
Con il tempo, però, il dolore era lentamente scemato, lasciando
il posto soltanto alla consapevolezza. Aveva accettato la sua morte,
benché esternamente paresse averlo fatto fin fal primo giorno,
riuscendo a percepire la seconda dimensione della propria professione.
Quella del salvatore.
Fino ad allora Yoichi non ci aveva mai davvero pensato. Ai suoi occhi
condizionati quei drogati sembravano solo degli ingordi, come degli
affammati che pur sazi mai si accontentano, e continuano a ingurgitare.
Non riusciva a concepire per quale motivo una persona dovesse fumare un
certo afrodisiaco, o iniettarsi un eccitante. Non riuscivano a
controllarsi, ad accontentarsi di altri tipi di esperienze? Una bella
frignata poteva essere più utile di una siringa per sfogarsi,
nella sua mente.
Eppure la risposta era arrivata piuttosto in fretta, non appena era
riuscito ad aprire gli occhi. Quella gente non era incontinente. Quella
gente era sola. E soffriva. Forse anche molto più di quanto non
avesse sofferto lui.
Di caso in caso, aveva incontrato tanti personaggi differenti. Eppure
il fattore comune, la variabile che si ripeteva, persistente, era
proprio quella della solitudine. Non importava che tu fossi un
cinquantenne in piena crisi di mezza età o una sedicenne presa
dall'euforia del gruppo. C'era sempre il disperato bisogno di mettere a
tacere una sofferenza che non si riusciva, non si poteva condividere
con nessuno.
Yoichi per questo aveva sempre avuto la sorella. Rendersi conto che non
per tutti era possibile piangere e ridere con qualcuno gli aveva fatto
male, lo aveva fatto piombare nel mondo reale degli adulti molto di
più di quanto l'omicidio di sua sorella non avesse già
fatto.
E aveva incominciato a comportarsi con un fratello, un amico, un figlio
per tutte le persone che glielo lasciavano fare. Anche se la loro
scorza era dura e segnata come una vecchia armatura.
Shiho Kimizuki era arrivato lì in condizioni piuttosto
disastrose. Tenuto fermo da quattro agenti con la faccia affaticata e
un po' irritata di chi è costretto a fare qualcosa che gli costa
fatica, scalciava e si dimenava come un matto, tentando perfino di
mordere chi lo teneva fermo. Con scarsi risultati, vista l'imprecisione
che mostrava nei movimenti.
Di primo impatto il direttore del centro lo aveva scostato,
ordinandogli fermamente di farsi da parte. Quell'uomo era un adulto
alto e forte, e si prendeva sempre carico dei soggetti violenti. In
più, la sua tendenza principale era proprio quella di proteggere
Yoichi, che oltre ad essere gracile fisicamente era anche un novellino
facilmente impressionabile.
Il castano lo aveva ascoltato solo in parte. Aveva lasciato che le
acque si calmassero, seguendo solo da lontano la lotta violenta che si
stava consumando prima nell'atrio e poi nei corridoi, e che
suscitò l'attenzione di molti, infermieri e pazienti. Gli era
quasi sembrata una scena di un film quando quel ragazzo dai capelli
rosa aveva piantato i piedi contro gli stipiti della porta, urlando
oscenità contro chi, da dietro, tentava di speratamente di farlo
entrare. Un film comico, però, vista la strategia piuttosto
creativa proprio di un paziente, che sfidando i suoi denti e i suoi
pugni tirati a caso era andato a pizzicarlo su una coscia, facendogli
mollare la presa e obbligandolo ad essere gettato in camera.
«Ci sono già passato, con me ha funzionato.» - Aveva
spiegato tranquillo, comodamente infilato nella sua felpa scura -
«Davanti alla paura siamo proprio tutti uguali.»
Quelle parole, si ricordava, lo avevano colpito molto. Non era il primo
paziente che gli menzionava quel sentimento, la paura, eppure ogni
volta era come la prima. «Paura- gli aveva raccontato una ragazza
la prima volta, con il capo poggiato mestamente sul cuscino - di
perdere l'unica cosa che può farti stare bene, mettendo a tacere
il dolore. Cosa rimane, senza di essa, se non lacrime e male al cuore
che nessuno può alleviare?»
La notte, si ricordava ancora, era stata turbolenta. Il paziente era
riuscito ad aprire per ben due volte le cinghie che gli tenevano i
polsi, finendo però per lacerarli pericolosamente. In evidente
crisi di astinenza da possibili sostanze si era agitato ad ogni
intervento, alternando brividi e scoppi di rabbia a momenti in cui si
lasciava cadere sul letto come se fosse morto, fissando il soffitto e
singhiozzando. Aveva assistito a poche scene, tuttavia, perchè
era stato mandato a casa di prepotenza dal proprio capo, che si
apprestava, come al solito, ad agire sui casi più intrattabili.
Non aveva dormito, Yoichi, una volta entrato nel proprio appartamento.
Continuava a rimuginare su ciò che aveva visto, provando ad
anticipare gli esiti degli esami. Cocaina? Pregava di no, non era
ancora trattabile in maniera efficace. Eroina, forse? I sintomi
c'erano, ma non erano unici e limitati ad essa. E se invece fosse stato
altro ...?
Il sonno aveva interrotto bruscamente i suoi pensieri, facendoli
scivolare via dalla sua mente come la pioggia fa con la polvere su un
auto. Soltanto, però, per riproporglieli alla mattina, quando il
suo turno ancora doveva cominciare.
Non aveva nemmeno fatto colazione quel giorno, cosa per lui molto
inusuale. Si era soltanto infilato in fretta e furia dei vestiti
presentabili e si era catapultato nella clinica, fendendo il già
intenso traffico cittadino, nonostante l'ora ancora giovane.
Erano riusciti a sedarlo. Questa informazione gli arrivò proprio
da uno dei suoi pazienti, cui era andato a fare visita prima di recarsi
dal nuovo arrivato. Non era riuscito a trattenersi oltre ed era andato
subito a cercarlo, dopo che il suo paziente gli aveva comunicato il
numero della stanza.
Fu completamente diverso.
Il ragazzo era addormentato, in una posizione decisamente scomoda a
causa delle cinghie di costrizione che aveva addosso. Gli occhiali
scuri che aveva addosso la sera prima, con una lente rotta, erano stato
appoggiati al piccolo comodino bianco latte. Il guanciale, appena
sporco di rosso qua e là, era ancora umido di lacrime. E sudore.
Per quanto potesse sembrare spiacevole la vista del suo viso rigato dai
segni del pianto, con qualche livido e qualche taglio, a lui parve
solo... molto giovane. Al massimo avrà avuto una ventina d'anni.
Già conoscendo le dosi massicce di tranquillante cui i pazienti
come lui venivano sottoposti, agì senza paura di svegliarlo.
Con un asciugamano pulito e appena inumidito dall'acqua calda si era
messo a pulirgli il viso, rimuovendo le tracce della brutta serata che
aveva passato dalla sua pelle. Mugolò appena, nel sonno, un paio
di volte. E sebbene fosse certo che erano rade le possibilità
che lo sentisse, ogni volta gli sussurrava di scusarlo, se aveva fatto
troppo forte.
«Abbiamo i risultati dei suoi esami. Quello stronzetto coi capelli da punk è fortunato.»
Il direttore era sempre un po' burbero, nelle parole, anche se non erano mai usate in maniera offensiva.
Yoichi osservò fiducioso il plico di fogli che l'uomo aveva in
mano, attendendo che finisse di rigirarli per quella che doveva essere
la quarta volta. Erano passate diverse ora da quando aveva visitato
Shiho, quella mattina, ed era ... molto ansioso per la sua condizione.
«Eroina. Gli va di culo. L'unica complicazione al suo caso era il
mix schifoso che aveva fatto con dell'alcool, ma è trattabile.
Non ha danni cerebrali o altro schifo causato da sostanze diverse.
È soltanto un colabrodo indecente.»
Non potè fare a meno di sospirare, il castano, appoggiandosi con
le spalle al muro con una mano premuta sul petto. Ce l'avrebbe fatta.
Sarebbe riuscito a guarire, se voleva. Avrebbero potuto aiutarlo.
«Ah, Yoichi...»
Il castano alzò gli occhi su di lui, sorpreso, non aspettandosi quel cambio di tono e registro così improvviso.
«Pare che le tue carezze gli siano piaciute. Ha chiesto di te, a modo suo.»
E quelle parole, in cuor suo, non poterono che riempirlo di gioia. Sotto però a uno strato di rossore non indifferente.
Kimizuki si era rivelato essere più complicato del previsto.
L'eroina era un tipo di sostanza trattabile con i farmici e che
presentava poche ricadute nei pazienti che ne avevano fatto uso, ma nel
periodo di astinenza i dipendenti diventavano particolarmente
aggressivi a causa del forte dolore fisico che li coglieva.
Le cinghie erano sparite a partire già dal secondo giorno in
clinica. I problemi da lui causati, però, erano all'ordine della
giornata. Non era raro, infatti, che Kimizuki scattasse di colpo,
afferrando per il collo qualcuno, o che tentasse di gettarsi verso
l'uscita urlando come un pazzo.
Yoichi si era opposto con fermezza a qualsiasi provvedimento drastico,
come per esempio un trasferimento o la ripresa delle cinture.
«Fa così perchè gli fa male. Isolarlo non
servirà a placare il suo dolore, ne tantomeno lo aiuterà
a capire che noi vogliamo aiutarlo.»
Era quello, a dire il vero, il problema maggiore. Il ragazzo dai
capelli rosa, infatti, era a loro ostile, e qualsiasi indicazione gli
venisse data veniva puntualmente violata. C'era un orario per i pasti?
C'era da star certi che non si sarebbe presentato, soltanto per poi
ritrovarlo in camera a braccia incrociate, in attesa che qualcuno
andasse a parlargli soltanto per attaccar briga.
Inizialmente gli aveva fatto un po' paura, questo suo comportamento
così aggressivo. Lo stesso direttore aveva scartato la primaria
richiesta del paziente di ricevere ancora Yoichi come infermiere,
affiancandogli qualcuno di fisicamente e psicologicamente più
forte, in grado di metterlo a tacere o di ridurlo alla calma anche con
la forza. Non picchiavano nessuno, lì al centro di recupero, ma
il direttore aveva garantito che a volte un pugno o uno schiaffo sono
tutto ciò di cui una persona ha bisogno per sbollire.
E Yoichi si era fidato. Per quanto non riuscisse più ad aspettare. Voleva vederlo.
Dopo averci perso il sonno per qualche giorno alla fine si era deciso.
Era un giornata in cui aveva il turno di notte, quindi la clinica era
relativamente vuota.
Gli infermieri erano una quindicina, distribuiti equamente sui tre
piani dell'edificio. Ognugno aveva un raggio di corridoio da tener
d'occhio e da cui recarsi in caso di richiesta d'aiuto.
Yoichi non aveva quello di Kimizuki. Per fortuna, però, la
ragazza coi capelli lilla incaricata della parte di struttura in cui
era tenuto aveva capito, senza fare troppe domande, perchè
volesse vederlo. E aveva proposto lei stessa un cambio, lasciandogli
via libera.
Il castano, infatti, non riusciva a darsi tregua. Aveva sentito varie
voci, sia dai giornali che dal personale che lo aveva in carica, che ci
fosse molto più di quello che dava vedere. Una storia più
grande, e più tragica di quanto non sembrasse dall'esterno.
Era questo senso di fratellanza, di empatia, che lo spingeva a
ricercarlo. Oltre al ricordo delle sue guance, umide di lacrime. Non
era solo la dipendenza che lo aveva portato a quel crollo psicologico,
lo sapeva. Molte, troppe volte si scambiavano dei sintomi di assunzioni
di stupefacenti con delle vere e proprie richieste di aiuto
. Lui non voleva essere uno di quegli infermieri.
Bussò piano alla porta della sua stanza. Una, due, tre volte.
Non ottenendo risposta decise di entrare lo stesso, pur chiedendo
permesso. Magari stava dormendo...
Invece no. Come vide un estraneo mettere piede dentro Kimizuki parve
scattare in piedi. I suoi occhi erano pieni di lacrime, così
come il suo viso, ma tutto quello che comunicarono in quel momento fu
un cambio repentino dal dolore alla rabbia.
L'unica cosa che potè fare, Yoichi, fu appiattirsi contro al muro. Impaurito.
I tossicodipendenti potevano essere pericolosi. Quegli aggressivi
ancora di più. Il suo capo glielo ripeteva sempre, quando gli
spiegava perchè questo e quell'altro paziente gli erano stati
tolti. Già una volta era stato pestato senza troppa cortesia,
non voleva che si ripetesse. Eppure non se l'era presa, il castano, non
aveva mai colpevolizzato quell'uomo. E in quel momento non avrebbe
colpevolizzato nemmeno lui, se l'avesse colpito.
«Sono ... venuto a vedere come stavi.» - Sussurrò
soltanto, con un filo di voce, osservandolo calmarsi appena nel vedere
di chi si trattava.
Era diverso da quando lo aveva visto per davvero, quella mattina.
Eppure soffriva ancora, di un dolore del tutto diverso. I lividi erano
diventati rossi e gialli, dello stesso colore della sua pelle. La pelle
di chi soffre continuamente di nausea e mal di stomaco. Gli occhi ora
erano normali, così come le pupille, eppure ... rossi e umidi
come quelli di un bambino. Gli parve tanto più fragile rispetto
al ragazzo che aveva combattuto, quasi una settimana prima, per non
farsi rinchiudere in quello che lui vedeva come un incubo.
«Vattene fuori di qui.»
La sua voce fu ferma, chiara. Era un buon indice, per un occhio medico
come il suo: significava che le dosi di Metadone, usate come
antidolorifici per rendere più sopportabile l'astinenza, stavano
funzionando bene. Il tono, però, non era decisamente amichevole.
Un misto di sofferenza e rabbia. La prima che voleva tenersi dentro, la
seconda che era in procinto di sfogare.
«Va bene. Se però volessi qualcuno con cui pianger...»
«Io non voglio nessuno.»
Lapidario. Gelido. Com'era normale che fosse. Le persone lì
erano animali feriti, spaventati da tutto e da tutti. Non contava
quanto sembrassi amichevole o affabile, nessuno voleva condividere la
propria debolezza. Anche per questo, infatti, molti avevano finito col
diventare veri e propri tossici.
«...Tanto non mi resta nessuno comunque di cui parlare.»
Quelle parole gli accesero una lampadina. Spalancò appena gli
occhi verde oliva, fissando il modo in cui lui invece chinò lo
sguardo, lasciandosi ricadere mollemente seduto sul letto.
Dunque era questo, il problema. Anche lui, come Yoichi, aveva perso qualcuno di importante. Forse l'unica importante.
Sapeva come ci si sentiva. Lui per primo aveva provato quel senso di
inadeguatezza e vuoto nel perdere la sorella. Il senso di nausea che lo
coglieva ogni qualvolta si guardava allo specchio e rivedeva il suo
sorriso, la sensazion ... di crollare da un momento all'altro, di
andare in frantumi e non riuscire più a ricomporre i pezzi.
Per questo motivo, forse un po' titubante, avanzò una proposta
diversa dal solito. Qualcosa che, a suo tempo, lo aveva fatto sentire
meglio. Anche se, in quel frangente, lo avrebbe fatto giocare col fuoco.
«...Senti, a te non va di stare da solo e neanche a me. Ti va di fare ... dei biscotti?»
Le attività ricreative erano molto importanti in centri come il
suo. Ce n'erano di tutti i colori. Le attività fisiche erano
solo una piccola parte. C'era anche un grosso comparto dedicato alle
cose manuali e artistiche. Come, per esempio, la cucina.
Yoichi non era un granchè, ma per un po' se n'era occupato
assieme ad un cuoco di colore che seguiva lui e i pazienti in cura che
aderivano all'attività. Sapeva che poteva fare bene. In primo
luogo dalla propria esperienza personale.
Gli occhi vinaccio si alzarono quasi increduli, nei suoi. La sua mente,
con ogni probabilità, stava registrando a fatica quella proposta
così assurda. Perchè, infondo, una persona a caso doveva
andare a domandargli di fare dei biscotti?
Inaspettatamente, però, il ragazzo annuì, anche se gli parve che un'ombra fosse calata sul suo viso.
«...Non tanto, però. Non mi piace cucinare.»
Riuscire a convincere un collega della segreteria intento a far niente
a prendersi cura della propria parte di corridoio era stata un'impresa.
Il suddetto lo aveva guardato più volte come a dirgli "senti
bello, se non vuoi fare il tuo lavoro, licenziati", ma alla fine aveva
accettato, scollando il suo fondoschiena dalla poltronetta imbottita
per tenere d'occhio la sua parte di piano.
Con quella benedizione del cielo era riuscito a far scollare una
seconda persona da una seconda cosa imbottita, obbligando il sedere di
Kimizuki ad alzarsi dal suo piumone morbido per recarsi nella cucina
del centro, a quell'ora chiusa.
Entrarono senza fare troppo rumore, accendendola con i potenti tubi di
neon che correvano sul soffitto. Era un po' artificiale, quella luce da
sala operatoria, ma era il meglio che si potesse ottenere.
Shiho, intanto, non aveva detto una parola. Camminava con le mani in
tasca, tirandosi giù le maniche fino ai polsi ogni qualvolta
esse accennavano a sollevarsi appena. Probabilmente tentava di
nascondere i segni delle siringhe.
«Bene bene, direi che prima scegliamo cosa fare~»
Con un piccolo sorriso rilassato gli poggiò di fronte un libro
di cucina con la copertina mezza spiegazzata, poco prima di prendere ad
infilarsi un grembiulino rosa come i suoi capelli.
«Che biscotti ti piacerebbe fare? Se vengono bene, poi, possiamo
farli mangiare anche agli altri, ne saranno felici!»
Lo vide esitare di nuovo, i muscoli che si irrigidirono di fronte al
libro di cucina. Ebbe quasi paura, per un momento, che stesse per avere
uno scatto d'ira. Non era raro, nei pazienti ancora in astinenza,
un'esplosione di rabbia. Invece il ragazzo agì. Allungò
piano la mano con l'indice teso, pur bloccando la manica della
maglietta con le altre quattro dita della mano, poggiando piano il dito
su dei biscottini al cioccolato con pezzettini di noci.
«Questi. Voglio fare questi.»
Shiho, aveva scoperto di lì a poco, era sorprendentemente bravo
in cucina. Aveva detto che non gli piacesse, cucinare, eppure il modo
in cui modellava la pasta non era solo frettoloso, era sistematico.
Fece un po' di fatica, a stargli dietro, ma si divertì anche,
sfidandolo in una sorta di gara di cui fu lui il vincitore senza troppa
fatica. Anche perchè lui, Yoichi, era veramente goffo e spesso e
volentieri perdeva il ritmo o faceva qualche pasticcio.
Il modo in cui stava preparando tutto, però, era quasi rabbioso.
Non si dava tregua nemmeno un istante per leggere le istruzioni. Era
come se fosse un automa, che seguiva alla lettera soltanto ciò
che gli era stato comandato di fare. Questo non poteva non passare
inosservato agli occhi del castano, che temeva sempre di più che
qualcosa non andasse.
Non era semplice stizza di fare qualcosa che in realtà non si
vuol compiere, ne era fretta competitiva per il giochetto stupido da
lui lanciato. Era come se ... stesse cercando di scappare da qualcosa,
e l'unico modo per farlo fosse terminare i biscotti nel minor tempo
possibile.
I biscotti vennero infornati di lì a poco. La cottura non
impiegò molto tempo, e di lì a un quarto d'ora più
tardi potè già tirarli fuori, fumanti e con un odore
buonissimo.
«Ah, Kimizuki-kun, sembrano davvero buonissimi. Che ne dici, li assagg...»
La frase però si interroppe bruscamente non appena lo vide.
Aveva gli occhi puntati sul vassoio che aveva per le mani. Spalancati,
quasi, eppure ... in qualche modo vuoti. Era appoggiato al muro come ad
un appiglio e le braccia erano strette attorno al corpo, con tanta
forza da far tremare appena i muscoli.
Non era una crisi di astinenza. Non si manifestava così,
perchè il respiro era calmo e non dava segni di sudorazione o
attività anormale delle pupille.
Quello era qualcosa di diverso. Qualcosa che, con ogni probabilità, aveva a che fare con la sua testa.
«...Kimizuki-kun?»
Lo chiamò con più attenzione, mentre appoggiava piano il
vassoio caldo sul banco di lavoro e gli si avvicinava lentamente. I
suoi buoni propositi, però, andarono al diavolo quando lo vide
crollare a terra come se fosse fatto di carte.
Gli si gettò praticamente sopra, proprio mentre lui si rompeva
nel primo singhiozzo. E lo sorresse, Yoichi, tenendolo piano per le
spalle. Anche quando le lacrime divennero più copiose,
più impossibili da fermare, anche quando Shiho gli gettò
le braccia attorno alla vita, affondando il viso nella sua spalla.
«A lei... A lei i biscotti piacevano così tanto...»
Quella serata non era stata un fallimento. Nonostante il crollo
psicologico avuto da Kimizuki, essa aveva insegnato molto a entrambi.
Erano rimasti a lungo seduti contro al muro, stretti assieme l'uno
all'altro sotto al ronzio quasi fastidioso delle luci a neon bianche
della cucina. Yoichi l'aveva tenuto contro al proprio petto esile,
paradossalmente, mentre lui, decisamente più grande, si
rannicchiava fra le sue braccia come un bambino e piangeva, piangeva
tutte le lacrime che non era mai riuscito a tirare fuori.
Era proprio fra di esse, con le carezze del castano fra i capelli
rosati, che era riuscito a dirgli del suo passato. Che era riuscito a
confessargli del perchè fosse arrivato lì, e di come si
sentisse. Di tutta la paura che provava.
«Ho iniziato a drogarmi quando
è morta mia sorella. Aveva il cancro, sai? È una brutta
malattia. È partito in un polmone. Poi nelle ossa. Alla fine nel
cervello. Tutti i soldi spesi, tutte le strutture in cui l'ho portata
... non sono serviti a niente. Mi è morta fra le braccia il
giorno del mio compleanno, sorrideva.»
Aveva fatto una pausa, Shiho, non riuscendo più a parlare fra i singhiozzi. Poi aveva ripreso, un po' a fatica.
«I nostri genitori sono morti.
Me l'hanno lasciata per un pelo, solo perchè ero già
maggiorenne quando è successo. Con lei ho perso tutto. Non solo
a livello economico, per tutto ciò che ho venduto per avere i
soldi per salvarle la vita. Ho perso l'unica persona che mi volesse
davvero bene, l'unico ricordo che avevo di quando eravamo felici.
Cos'altro potevo fare, per non morire nel dolore?
Sono andato in un club perchè
volevo bere. Bere tantissimo, al punto da vomitare l'anima, al punto da
dimenticarmi chi fossi e chi ero stato. Poi però, dopo qualche
bicchiere, mi hanno chiesto di provare qualcosa di meglio. La bustina
marrone che mi hanno passato era così leggera. Leggera come io
volevo essere. Non ci ho pensato due volte, mi sono fatto iniettare
quella roba.»
Seppur molto toccato dal suo
racconto, al punto da aver già versato qualche lacrima, a
livello medico sperò che la siringa fosse pulita. Per non
riuschiare di contrarre malattie pericolose...
«Quella volta fu la prima. La
sensazione che mi dava era speciale, e dopo averla presa dormivo
tantissimo. Non sentivo più niente, capisci? Non sentivo
più il dolore al petto, né mi bruciavano gli occhi mentre
piangevo. Ero da solo in un limbo dove però non soffrivo, dove
potevo crogiolarmi al sicuro, lontano da dolore. Fino a che non
è incominciata la dipendenza.
È un incubo. Eppure era anche
un sogno. L'unica cosa di cui mi importava era procurarmi un'altra
dose. Ho iniziato a spendere sempre di più per averne a
quantità sempre più massicce. Puoi immaginare la mia
rabbia quando le dosi normali iniziavano a non farmi più niente.
Perchè, perchè il mio corpo voleva diventare immune
dall'unica medicina che avevo? Perchè non voleva lasciarsi
andare a quell'inerzia che mi permetteva di vivere senza rompermi?
Quando mi hanno portato qui ... non
ricordo molto. So solo che ero in astinenza, e stavo cercando di
accoltellare uno spacciatore che mi faceva un prezzo troppo alto per i
soldi che avevo in tasca. Ero arrabbiato e lo sono tutt'ora,
perchè io...»
Il tono si stava inasprendo, con quelle ultime parole. Era vera e propria rabbia, ma verso se stesso.
«..Perchè io volevo
soltanto stare bene, volevo soltanto ... poter non pensare alla mia
sorellina morta, e invece tutti continuavano a cercare di farmi
soffrire. Cosa vuole la gente, perchè non mi lascia drogate e
basta?! A me non importa di morire, non mi interessa! Io voglio
soltanto ... riuscire a non soffrire più...»
Si era fermato, mano a mano che la
voce andava calando, soffocata dalle lacrime che si erano fatte
silenziose. Era rimasto a guardarlo, Yoichi, mentre lo sentiva
accasciarsi sul proprio corpo, finendo con la testa nel suo grembo. E
solo dopo un po', quando aveva trovato la forza di parlare nonostante
il magone, aveva risposto.
«Pensi che tua sorella avrebbe voluto vederti così?»
Quelle parole furono dure. Non in
senso negativo, però. Kimizuki alzò di colpo gli occhi su
di lui, spalancati e umidi al punto da sembrare due cristalli immersi
nell'acqua. Ricambiò quello sguardo così incredulo,
andando ad asciugarsi con una risatina gli occhi prima di prendere un
lembo del proprio grembiule ed alzarlo ad asciugare i suoi.
«Anche io ho perso mia sorella,
sai? E se c'è una cosa di cui sono certo è che lei non
avrebbe mai, mai voluto vedermi cedere al rancore e alla disperazione.
È stata uccisa da un drogato, uno come te. - lo disse in tono
quasi affettuoso, quel "come te". Non fu certo un insulto - Eppure
guardami. Sono qui ad abbracciarti senza problemi.»
Si arrestò un momento, tirando
appena sul col naso mentre una piccolissima goccia lasciava i suoi
occhi, fendendo veloce la guancia per poi atterrare sulla maglietta
scura del ragazzo, in un punto che Kimizuki andò a guardare.
Prima di prestargli di nuovo attenzione.
«Ho sofferto e pianto tanto. Ma
mi sono lasciato aiutare. Fallo anche tu, Kimizuki-kun. Tutti sono qui
per aiutarti. Io sono qui per aiutarti.»
Concluse il suo discorso guardandolo
negli occhi con un piccolo, dolcissimo sorriso. E sembrò di
nuovo tornare un ragazzino, un quindicenne troppo piccolo per la sua
età con ancora la fanciullezza nei tratti. Fanciullezza che mai
lo aveva davvero lasciato.
Ci fu silenzio, per un po'. Ci fu
solo il rumore di alcuni passi nel corridoio, il profumo di detersivo e
biscotti che si mischiava, nelle loro narici. Poi, lentamente, incerta,
la voce di Shiho ruppe il silenzio.
«...Allora aiutami, Yoichi.»
__
Erano passate quasi tre settimane da quella sera. Il punto critico
nella terapia di Kimizuki era stato superato, con l'astinenza che a
poco a poco era scesa, dopo aver raggiunto il suo piccolo. La mancanza
di eroina era così: violenta all'inizio, ma sempre meno
martellante con il passare del tempo. Nel giro di quindici giorni il
ragazzo sarebbe stato già pronto per lasciare la struttura. La
terapia farmaceutica e ricreativa lì aveva dato dei buoni
frutti, quindi i dottori avevano già pensato alla seconda fase
del corso di recupero. Consisteva nel passare cinque giorni a settimana
in clinica e due a casa, da soli, con i dosaggi di farmaci da gestirsi
autonomamente. Era una sorta di prova di fiducia che si dava ai
pazienti che reagivano bene al primo periodo, per cercare di
normalizzare il processo fino a renderli di nuovo indipendenti.
Shiho, però, aveva rifiutato. Aveva detto di non sentirsi ancora
pronto e i medici avevano rispettato la sua scelta, apprezzando la
sincerità di quel ragazzo che, finalmente, si era messo in
un'ottica costruttiva. Yoichi, in parte, sospettava che quel volere
fosse anche per la paura di ciò che avrebbe trovato. Una casa
vuota piena di ricordi. Qualcosa che non era pronto a fronteggiare.
Era andato a visitarlo ogni giorno, da quella notte. Lottando un po'
con il direttore era riuscito a farselo assegnare, facendogli capire
che poteva gestirlo, che il suo caso gli stava a cuore. La carta
vincente era stata alzare la voce e scattare in piedi davanti a un
ennesimo rifiuto. A detta del direttore, "la sua verva l'aveva
particolarmente colpito. Doveva essere davvero importante". In secondo
luogo, però, quell'uomo aveva insinuato che "lo stronzetto punk
non fosse poi così brutto da guardare". Lo aveva fatto arrossire
come poche altre volte in vita sua.
Shiho aveva iniziato a mostrargli dei lati differenti di sè. Non
era più aggressivo, anche se era senza dubbio introverso, e si
era anche dimostrato non solo sensibile, ma anche timido. Quando Yoichi
gli aveva fatto i complimenti per come stava senza occhiali, per
esempio, era diventato tutto rosso e si era infilato le mani nelle
tasce come se dovesse scavare una fossa.
«Uhmm, grazie.» - aveva boffonchiato, a labbra strette, guardando di lato. L'aveva trovato adorabile.
Un'altra prova importante della fiducia che cresceva nei suoi confronti
Yoichi l'ebbe da un gesto apparentemente abituale. Un giorno, quando
erano nel cortile assieme, a bere un succo sotto a un albero, Kimizuki
aveva deliberatamente slacciato la propria felpa, andando a togliersela
e restando in maniche corte. Ad una persona poco abituata nel settore
sarebbe parsa soltanto la decisione di chi aveva caldo. Ai suoi, di
occhi, invece, fu una permissione. Shiho lo stava lasciando avvicinare.
Stava lasciando scoperta la parte più martoriata dalle proprie
decisioni del suo corpo, quella che voleva nascondere più di
tutte, davanti a lui.
Era stato felicissimo, il castano, quella volta. E gli si era riempito
il cuore di gioia, quando il più alto si era tirato la sua mano
nella propria. Senza guardarlo.
«Yoichi? Yoichi, sei sveglio?»
Si era svegliato un po' confusamente, tirandosi su di colpo con gli
occhi ancora assonnati e i capelli tutti arruffati. Aveva sentito Shiho
ridere, al suo fianco, ed aveva istintivamente sorriso, anche se doveva
ancora realizzare del tutto dove si trovasse.
«No, non lo eri. Ti sei addormentato mentre guardavamo la partita.»
Ah, sì, quello lo ricordava. Si erano sdraiati assieme sul letto
di Kimizuki a guardare una partita di pallavolo femminile. Al ragazzo
dai capelli rosa piaceva, quindi aveva insistito per guardarla assieme
a lui, però ... la giornata lavorativa che aveva avuto era stata
pesante ed era crollato prima dell'inizio del secondo set.
Notò soltanto in quel momento il braccio che aveva stretto
attorno alla vita, fra il suo corpo e i morbidi cuscini. Shiho parve
fare lo stesso, a giudicare da come arrossì e si riavviò
gli occhiali sul naso, andando a seguire intensamente l'intervallo fra
le due squadre. Non potè fare a meno di sorridere, Yoichi,
stringendosi appena di più a lui, sentendosi ... felice, quando
lo sentì trattenere il respiro.
C'erano delle regole, sul posto di lavoro. Finiti i turni si andava a
casa, e se si restava non bisognava lamentarsi di non essere pagati.
Era scelta libera. L'uniforme doveva sempre essere pulita, così
come il corpo, per dare il buon esempio. Se si era malati non ci si
affiancava a pazienti fisicamente instabili per non aggravare le
condizioni.
Non ci si innamorava dei soggetti in cura. Quella non era una vera e
propria regola sul contratto di lavoro, ma era una sorta di promessa
che i vari infermieri si facevano, e che i più anziani
tramandavano ai novellini. «È molto più facile,
così.» - Dicevano.
Eppure Yoichi proprio non riusciva a sentirsi in colpa. Né
poteva interpretare in maniera differente quello che iniziava a sentire
nel petto, caldo e dolce come ... dello sciroppo d'acero.
Era straordinariamente facile addormentarsi con il profumo di Shiho
contro al naso, naturalmente semplice sorridere non appena lo vedeva.
Anche quando si chiudeva in se stesso e non parlava per molte ore,
Kimizuki gli lasciava sempre aperto uno spiraglio. Lo lasciava
avvicinare, si lasciava accarezzare i capelli, si addormentava cullato
dalle sue barzelle orribili o dalle sue ninnanne. E lui, lui ... non
aveva potuto fare a meno di legarsi a quel ragazzo che gli era parso
così scontroso, la prima volta, così violento e
implacabile, che si era però rivelato essere soltanto fatto di
una porcellana fragilissima pronta a rompersi al minimo passo falso.
Non voleva dirglielo, ancora, però. Forse perchè sentiva
che non ce n'era bisogno, forse perchè il loro rapporto per il
momento era ... sufficiente. In realtà non sapeva come avrebbe
potuto reagire ad una rivelazione. Poteva chiudersi ancora di
più, spaventato dalla forza del sentimento, dalla sua importava.
Poteva arrivare anche ad allontanarlo, se si sentiva violato negli
spazi.
Forse anche per quello, nonostante il petto scaldato di fiducia, Yoichi
stette in silenzio. E si concesse soltanto di accarezzargli piano un
polso, mentre tornava a guardare con lui la partita.
«La prego, direttore, è importante! Solo per questa sera!»
«Perchè non domani, Kimizuki? Così non obbligherai
nessuno a cambiare dei turni e avrai tempo per decidere cosa
metterti.»
«Non so se domani ne sarò ancora in grado, è questo il punto!»
Diversi colleghi erano appoggiati fuori dalla porta dell'ufficio del
direttore, a sghignazzare mentre seguivano, in incognito, il siparietto
all'interno. Quando Yoichi arrivò li osservò
confusamente, avvicinandosi con il musetto di un bambino perplesso
all'ufficio. Qualcuno di loro di dileguò. Tre di essi rimasero
invece contro alla porta, ampliando però il piccolo ghigno che
avevano sul viso. Li scostò senza troppi complimenti, entrando
nell'ufficio dopo aver gentilmente bussato.
Shiho era in piedi in mezzo alla stanza e aveva il viso di un rosso
acceso. Il tipico rosso causato dall'imbarazzo, non dalla rabbia. Il
direttore invece aveva le mani strette sotto al mento e il solito
sorrisetto un po' strafottente che lo rendeva tanto irresistibile agli
occhi delle donne. Quel giorno, però, quel sorriso aveva una
sfumatura diversa, una sfumatura maliziosa. Come di chi ha appena
insinuato qualcosa e giosce nell'accorgersi di aver fatto bingo.
«Perdonatemi se vi ho interrotto, io...»
«Yoichi, Yoichi. Il giovanotto punk qui presente insiste da quasi
mezz'ora perchè tu non faccia il turno di notte, stasera,
perchè vuole invitarti fuori a cena. Cosa devo dirgli? Dice che
non può aspettare domani.»
Il suo ghigno divenne ancora più ampio, mentre Kimizuki
diventava ancora più rosso. Lui, invece, riuscì solo a
spalancare gli occhi incredulo, alzando il viso a bocca aperta verso di
lui, alla ricerca di una conferma. Il suo sguardo, però, era
altrove, le labbra tirate per la vergogna.
«...È vero, Kimizuki-kun?»
Esitò a lungo, il ragazzo, prima di rispondere. Poi,
però, annuì piano, nonostante avesse lo sguardo piantato
a terra e gli occhiali che lo nascondevano appena. Li aveva cambiati di
recente.
«Sì. Vorrei ... vorrei uscire con te e portarti a mangiare fuori, questa sera.»
Inutile dire che il capo li sbattè fuori con un sorriso ora
molto più dolce sul viso, dopo aver dato loro, a suo modo, la
propria benedizione. Cambiandogli il turno lavorativo.
Shiho aveva una macchina, a differenza di Yoichi che ancora si muoveva
in bicicletta. Quel giorno era uscito per la prima vera volta dalla
clinica, più o meno nel pomeriggio, dicendo che doveva sistemare
un paio di cose prima della serata. Lo sarebbe venuto a prendere una
volta finito il suo turno, alle diciannove, davanti all'entrata del
centro di recupero.
Era rimasto sbalordito, il castano, nel vederlo scendere da un'auto
piuttosto datata eppure lucidissima, nella sua carrozzeria nera. Ancora
di più, era certo di aver spalancato la bocca nel vedere come si
era messo elegante apposta per la serata.
Il frac nero che aveva addosso seguiva bene la sua figura slanciata,
facendolo apparire ancora più alto. Si abbinava per colore al
papillon che andò subito ad allargarsi, quasi gli mancasse
l'aria. Il fazzoletto -si portava ancora!- e la camicia, invece, erano
di un rosa appena più spento dei suoi capelli.
Si vergognò un po', ad essere sincero, di quello che indossava
invece lui. Aveva su solo una camicia lasciata aperta di qualche
bottone e dei jeans, oltre che .. la giacca col cappuccio.
Si calmò quasi subito, però, quando lo vide sorridere
come se niente fosse, l'espressione rilassata e quasi ... rapita.
Davvero lo trovava carino anche così ... sciupato?
«...Andiamo?» - Gli sentì dire soltanto, dopo che
ebbe aperto la bocca e richiusa un istante. Forse voleva dirgli
qualcosa ma aveva pensato fosse meglio tacere.
Annuire con vigore fu l'unica cosa che poteva fare.
Il ristorante in cui Kimizuki l'aveva portato era un italiano del
quartiere per giovani, uno di quelli in cui il cibo è buono, con
grandi porzioni, e costa poco. Non era stato nulla di troppo sfarzoso
che sarebbe risultato eccessivo, e a Yoichi era piaciuta da morire la
sfida che era partita a metà serata di mangiare quanta
più pasta possibile con le mani.
Aveva ceduto dopo la seconda porzione, chiamandosi fuori dalla
competizione boccheggiante, ma soddisfatto. Il suo accompagnatore non
aveva potuto non ridere, nel vederlo come un piccolo barilotto riempito
troppo.
Erano fermi sull'auto, ora, nell'ampio parcheggio della clinica. Le
luci principali erano spente, ma il castano sapeva che dentro molta
gente era ancora sveglia.
«Ho passato una buonissima serata. Gli spaghetti erano strepitosi! Vorrò andarci ancora di sicuro~!»
«Anche a me è piaciuta tanto. Potresti portarmi tu da qualche parte, la prossima volta.»
Annuì contentissimo, il giovane infermiere, quasi scalpitando
sul sedile per la gioia. Dove avrebbe potuto portarlo? Al cinese che
aveva vicino casa? O al giapponese tradizionale che gli aveva fatto
conoscere il capo?
Nonostante tutta la propria gioia, però, dovette lasciarsi andare nuovamente sul sedile con un piccolo sospiro.
«Devo andare, adesso, Kimizuki-kun. Domattina sono a lavoro.»
«Ma sei in bicicletta. Lascia che ti porti io.»
«No, e poi chi mi porterebbe a lavoro domani?» - Rise
lievemente, di fronte alla sua proposta, trovandola comunque gentile,
nonostante la stesse declinando.
Aprì la portiera, quindi, anche se un po' a malincuore, sentendo
l'aria fresca della sera invadere l'abitacolo, mischiando il profumo
della città con quello della colonia maschile che aveva
indossato quella sera il ragazzo.
«Beh ... ora vado. Grazie, Kimizuki-kun. Dormi bene~!»
Gli rubò un piccolo bacio su una guancia, prima di decidersi
finalmente a mettere il piede fuori e rabbrividire lievemente,
frugandosi un po' goffamente nelle tasche alla ricerca della chiave per
slacciare la catena della bici. Quasi ebbe un infarto, però,
quando se lo ritrovò di nuovo davanti a passo di carica, quando
stava per accingersi a salire sul sellino.
«Kimizuki-k...»
Non fece in tempo a finire la frase. Venne attirato con decisione da
una mano del ragazzo sulla propria nuca, sentendo improvvisamente il
calore della sua bocca calda contro alla propria, i suoi occhiali che,
scivolati appena lungo il naso, gli accarezzarono una guancia.
Spalancò gli occhi, colto alla sprovvista, riuscendo a
ricambiare solo un istante prima che il ragazzo si staccasse, con il
viso in fiamme.
«...Shiho.» - Mormorò lui soltanto, prima di tornare
di corsa verso la macchina e partire, con essa, forse per fare un giro
prima di tornare a dormire in clinica. Un giro per scappare lontano dal
suo imbarazzo.
E nonostante quella fuga così improvvisa, quel bacio tanto
inaspettato ... Yoichi non potè fare a meno di saltellare nel
parcheggio per un istante, prima di partire sulla bicicletta come se
avesse le ali ai piedi, arrivando perfino a staccare le gambe dai
pedali mentre canticchiava sulla strada.
Avrebbe potuto spaccare il mondo a metà anche solo con la sua risata, tant'era gioioso.
La mattina seguente arrivò senza che avesse chiuso occhio.
Dormire era stato fuori discussione, dopo quello che era successo.
Invece Yoichi aveva continuato ad accarezzarsi piano le labbra, con il
corpo affondato fra le coperte e un paio di morbidi cuscini, in un cui
ogni tanto affondava il viso per lanciare urletti, proprio come una
ragazzina innamorata.
Shiho lo aveva contattato forse una mezz'oretta dopo il loro incontro,
mormorandogli che si era dimenticato di augurargli la buona notte. Non
avevano parlato di altro, se non di quel piccolo augurio reciproco,
eppure Yoichi si sentiva come se avesse fatto un giro sulla luna e
fosse tornato indietro nel giro di nemmeno un'ora.
Al lavoro ci arrivò praticamnte volando, ancora in perfetto
buon'umore per la serata splendida che aveva passato. Avrebbe quasi
quasi baciato il capo, se solo non fosse stato in ufficio con il suo
ambiguissimo migliore amico. Quei due, assieme, erano davvero strani.
Gli venne per un istante paura, quando affacciandosi alla camera di
Kimizuki non lo vide. Il collega del piano, tuttavia, precedette le sue
domande agitate, sorridendo comprensivo quando lo vide già
apprensivo che si guardava attorno.
«Si è alzato prestissimo stamattina. Ha detto che andava in cucina.»
E così c'era andato, dove gli aveva detto. Lentamente aveva
messo la testa dentro, dopo aver tentato, invano, di allungarsi sulle
punte dei piedi per guardare dall'oblò sulla porta per vedere
cosa stesse facendo.
La sua chioma rosa spuntava appena, essendo Kimizuki chinato al
momento. Sul tavolo, davanti a lui, c'era un vassoio veramente enorme
di biscotti di tanti gusti diversi. Quantità di sei o sette
infornate.
Entrò cercando di fare il minor silenzio possibile, parendo
sbalordito. E sorrise appena, quando gli occhi vinaccio del ragazzo si
alzarono sui propri quasi d'improvviso, arrossendo altrettanto
rapidamente.
«Ah, ecco...» - lo sentì prorompere, mentre si
grattava nervosamente la nuca. Le maniche erano fatte su e i segni
delle punture, notò Yoichi, erano spariti quasi del tutto. -
« ...Doveva essere una sorpresa. Per te, e per gli altri.»
Un po' curiosamente il più basso si avvicinò, con ancora il sorrisetto ebete di quando era entrato sul volto.
«...Il direttore ieri sera mi ha detto che ti piacciono anche i
biscotti. Al té verde. Questi ... è la prima volta che li
faccio.» - Indicò intanto una porzione di biscotti verdi
al lato del vassoio, con sopra cuoricini e fiorellini di glassa.
Superfluo dire che Yoichi gli saltò al collo quasi con le lacrime agli occhi, stringendolo con tutta la forza che aveva.
Ce l'aveva fatta. Insieme a lui, soltanto lui, Yoichi, Kimizuki era
finalmente riuscito ad aprirsi e a superare, poco a poco, il suo dolore.
Ed era tutto quello che il giovane Saotome avrebbe potuto chiedere.
Oltre che, ovviamente, assaggiare quei magnifici biscottini~!
{Post Scriptum:
Scrivere questa fanfiction è stata per me una sorta di sfida, a
causa della sua tematica particolarmente delicata. Ho molto a cuore il
processo di aiuto psicologico e strutturale delle persone dipendenti da
droghe, e parlare di questo tema è stato, per me, anche
comunicare un messaggio. Non drogatevi, non cadete in questi circoli
viziosi! L'amore delle persone fa molto meglio che non una pastiglietta
o una siringata!
Detto questo, passiamo a parlare della fanfiction. Ispirata da un
prompt carinissimo trovato tumblr, ho subito sentito il bisogno di
scrivere. Non immaginavo davvero che uscisse così lunga, ma ...
devo ammettere che sono soddisfatta.
Yoichi e Kimizuki sono una delle coppie che mi piace di più,
all'interno di Owari no Seraph. So per certo che scriverò altro,
perchè ho bisogno fisico di narrare delle mie OTP-
Che dire, dunque? Spero che la storia vi sia piaciuta e che abbiate trovato piacevole la lettura.
Alla prossima~
PS: Il capo misterioso è Guren. Sorry, babes-
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