Ricordi

di Wladimir
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Ricordi
 
 

 
Sono stato sempre legato al mio nonno, al mio eroe. E’ solo, non vuole andare in una casa di riposo e i miei genitori rispettono la sua volontà. Mia madre tutti i giorni va ad accudirlo, gli prepara i pasti e pulisce la casa. Io ed Alex ci andiamo una volta alla settimana e lo aiutiamo a fare il bagno. Mio nonno mi fa ridere è molto vergognoso e quindi lo fa con quei boxer larghi antichi, che poi si vede tutto. Ma noi non gli diciamo nulla, altrimenti ci rimane male.

E’ troppo buono il nonno. È un angelo. Mi ha sempre voluto bene. Penso di essere il suo nipote preferito, mi ha sempre coccolato e viziato.
“Nonno, nonno mio, mentre ti aiutiamo raccontaci una storia”.

Lui è felice quando mostriamo interesse per le sue cose, si sente importante, ancora utile. Ci sorride ed inizia, e noi tutto orecchi ad ascoltare le sue avventure. Sono sempre molto belle ed emozionanti.
 

 
 
Era il 20 Aprile del 1945. La primavera stava esplodendo in tutta la sua pienezza: i prati, i campi della pianura emiliana erano un tripudio di verde smaglianti e invitavano a uscire per respirare aria nuova e pulita. Ma poche erano le persone che osavano uscire in quei giorni: la guerra era al suo culmine e negli animi di tutti c’era paura e sgomento.

All’improvviso la notizia: i tedeschi lasciavano la zona, cercando scampo nella fuga. Smantellavano anche l’ospedale militare che avevano allestito nelle scuole elementari.

Alla nostra abitazione giungevano i rumori delle colonne di automezzi che lasciavano il paese sulla via del nord.

Verso mezzogiorno, iniziarono i fermenti: vedemmo uscire parecchie persone in direzione dell’ospedale. Ci fermammo. Era gente che vi andava a cercare le suppelletteli rimaste: materassi, brande, panni e coperte che i tedeschi avevano razziato, senza tanti complimenti, quando avevano occupato l’edificio scolastico.

Mia madre avanzò lidea di riprendersi i suoi materassi: era stanca di dormire sui pagliericci di foglie di granoturco. Detto fatto, si fece prestare un carretto e mi disse:

“Tu, Lorenzo, verrai con me e mi aiuterai a caricarli!”.

Io avevo nove anni, ero nella beata età della fantasia e l’idea di vedere l’ospedale  e chissà quali altre cose mi attrasse. Accompagnai mia madre. Intorno, le siepi di biancospino erano fiorite ed emanavano un profumo amaro. La natura era come ferma. Sembrava in aspettativa di eventi nuovi, protigiosi.

Arrivammo all’ospedale: era vuoto ormai. C’era odore di disinfettante. Le corsie erano di nuovo aule, grigie, vaste, anonime.

Nel cortile, mia madre ritrovò i suoi materassi, li caricammo e riprendemmo la via di ritorno. Eravamo circa a metà del nostro percorso, quando un rombo, prima sordo e lontano, poi sempre più distinto e vicino ci fece volgere gli occhi verso il cielo ed affrettare il passo. Era un aereo e il suo rombo si faceva sempre più incombente. Ormai ci sopvrastava, non serviva più correre. Con la forza della disperazione mia madre ebbe un unico impulso: spinse il carretto nel fossato, proprio sotto la siepe del biancospino. Intanto che il carico si rovesciava, trascinandomi per mano, mia madre finì con me sotto i materassi, rimasti miracolosamente sospesi sulla siepe.

L’aereo era ormai su di noi a bassa quota. Iniziò così una scarica. Sentivamo, dal nostro rifugio, il sibilo dei proiettili che si conficcaavano  su quel morbido tetto. Mia madre mi stringeva a sé. Non una parola, non un grido, solo una stretta forte, forte, come per proteggermi. Sembrò un’eternità. Furono pochi attimi. Poi passò. Nel silenzio, ritornato di nuovo assoluto, uscimmo dal nostro nascondoglio: eravamo salvi. Intorno un acre odore di bruciato si mescolava all’intenso profumo dei biancospini”.
 
 

 
Eravamo tutti e tre commossi. Abbracciai di slancio mio nonno, anche se ancora bagnato.
“Nonno sei vivo per miracolo”.

“Si tesoro mio, a quest’ora io e te non ci saremmo stati, ci pensi?”

“Nonno ma te le facevi se seghe?”

“Sporcaccione, brutto furfante … se ti prendo”.

Era diventato rosso. Quanto gli voglio bene.

“Nonno sei il mio eroe”.

“Se ti prendo non me lo dici più”.

E scoppiammo tutti e tre a ridere.





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