last of all
Note: Seishiro x Sayuri | R - Arancione
Parole: 1765
Avvertimenti: Non-con | Contenuti Forti
Last of all.
{Schooled by a bitch.}
__
Ichinose Guren. Quante
volte aveva sentito quel nome? Probabilmente fin da quando era solo un
bambino, già istruito all'odio e alla violenza.
All'inizio gli era
sembrata una parola come un'altra. Un nome perso in un fiume di essi,
trascurabile e irrilevante. Le cose, però, erano cambiate
piuttosto rapidamente.
La prima volta in cui
quel nome lo aveva infastidito era stato quando anche suo padre l'aveva
pronunciato. Con la sua mente di bambino, Seishiro non aveva registrato
le informazioni essenziali che Tenri e un collaboratore si stavano
scambiando, riguardo alla sua posizione sociale, ai suoi parenti, ai
problemi che stava causando. Aveva soltanto colto l'interesse eccessivo
di suo padre per una persona che non era lui e che andava a discapito
delle rade attenzioni che il genitore gli rivolgeva.
Come non odiare chi
allontanava ulteriormente da lui un già assente padre,
completamente estraneo all'affettività di cui aveva bisogno?
Con il tempo, aveva
imparato meglio chi fosse e cosa volesse. Era apparentemente il figlio
bastardo di Sakae Ichinose e di una donna misteriosamente scomparsa. Un
rifiuto, dunque, proprio come gli avevano insegnato essere tutti quelli
della sua stirpe, visto anche ciò che stava provando a fare.
Innamorarsi di sua sorella maggiore, Mahiru, futuro leader della
famiglia? Assurdo, era soltanto un mero desiderio di scalata sociale.
Presto sarebbe stato estinto, come si fa con un fiammifero che sta
bruciando troppo e sta per scottare la mano del suo possessore.
☩
Gli Ichinose non erano
ben visti nella famiglia Hiragi, men che meno lo erano le famiglie a
loro subordinati. Eppure, quando Seishiro l'aveva vista, l'unica cosa
che aveva potuto fare era innamorarsene.
Si chiamava Sayuri. Aveva
i capelli color grano tanto lunghi da poterci affogare dentro, e gli
occhi di un sabbia dolcissimo. Ricordava che la prima cosa che le
avesse visto fare era ridere e arrossire, e ancora adesso non si era
scordato quel momento.
Nella famiglia Hiragi,
però, non c'era spazio per nulla di simile all'amore. E quel
sentimento tanto cantato dai poeti, il dolce nettare di vita e matrice
fondamentale del mondo, nel suo cuore intossicato era finito per
diventar petrolio. Un veleno che pompava ad ogni battito in ogni
centimetro del suo corpo. Trasformandolo nella cosa più simile
ad un corteggiatore che riuscisse ad essere.
E che si traduceva nell'essere il suo aguzzino.
Ichinose era un figlio di puttana, e non solo per le voci che circolavano sulla madre scomparsa.
Aveva scoperto poco dopo,
ascoltando una conversazione fra lei e la sua amica Shigure da lontano
che era proprio lui, il bastardo, ad averle rubato il cuore, ed era
proprio lui il ragazzo il cui pensiero la faceva sorridere come il
primo giorno.
Ogni parola che le
sentiva pronunciare, ogni pregio che le sue labbra decantavano di lui
era un dardo di fiele che gli veniva scagliato addosso. La maggior
parte delle ferite era al petto.
Si era sentito male, si era sentito superato. Proprio come ogni singolo istante della sua vita.
Superato a scuola.
Superato dagli impegni che allontanavano suo padre.
Superato dai fratelli.
Superato da lei.
Seishiro, quel giorno stesso, aveva deciso che sarebbe finita.
☩
Aveva iniziato ad
infastidirla. Se non avrebbe mai potuto ottenere le attenzioni
che voleva da lei, allora se le sarebbe prese.
Gli Hiragi non erano mai
secondi. Men che meno a figli bastardi di famiglie del cazzo, che
valevano meno della cicca che aveva in bocca. Solo il loro destino era
affine: essere schiacciati ripetutamente, per poi essere buttati nella
spazzatura.
Ricordava ancora quanto
gli era sembrata spaventata, il primo giorno in cui le aveva afferrato
il braccio. Il suo polso era piccolo, la pelle morbida come se vi
avesse messo della crema. Sarebbe stato piacevole, farsi accarezzare da
una sua mano?
«S-seishiro-sama, mi lasci, per favore...»
Inutile, aveva soltanto
stretto di più. E coi suoi compagni in lontananza, lei da sola e
fragile rispetto alla sua comporatura indubbiamente superiore, lui si
era sentito per la prima volta potente.
Potente e in grado di fare qualsiasi cosa avesse voluto.
«Non ti ho mai dato il permesso di chiamarmi per nome, puttana.»
Lo schiaffo non era stato
premeditato. Si infranse sulle sue gote morbide e giovani come una
sassata che colpisce il vetro, mandandola in frantumi. La testa di
Sayuri si era voltata di scatto, accompagnata nel gesto da un gemito di
dolore mischiato a un urlo, mentre la pelle diventava rossa.
Non avrebbe mai voluto
picchiarla. Ma se l'unico modo che lui aveva avuto per attirare
l'attenzione di suo padre era stato quello di farsi picchiare,
perchè non doveva succedere anche al contrario? Superfluo,
inoltre, era aggiungere che fosse uno sfogo. Era come se tutta la
rabbia che aveva dentro, repressa fin dal primo istante in cui era
venuto alla luce, volesse esplodere adesso.
E quello era solo un assaggio.
Quel giorno le era andata
bene. L'aveva gettata soltanto per terra con uno strattone,
afferrandola per quei capelli che tanto gli piacevano. Le lacrime che
le avevano bagnato il viso erano state tanto improvvise da fargli pena
e fargli provare il desiderio di consolarla e stringerla, dentro al
cuore. La sua mente, però, corrotta dal potere e dalla violenza,
l'aveva registrata soltanto come amabilmente patetica.
Il desiderio di fondo
però, quello di poterla abbracciare, non era passato. Soltanto
che si stava traducendo in un volere nettamente meno dolce.
☩
Era un sabato pomeriggio.
Lei stava tornando a casa lungo una strada di periferia poco
trafficata, apparentemente contenta nel suo camminare.
Lui le stava dietro, silenzioso, mangiando però a mano a mano la terra che li separava.
I suoi ricordi iniziavano
a diventar confusi nel momento esatto in cui la sua mano aveva spinto
la sua spalla a girarsi, affondando poi di colpo fra i capelli a
tirarla dove volesse, secondo il proprio desiderio.
Ricordava che il vicolo
in cui l'aveva condotta era angusto, umido e puzzava di urina. Sapeva
che l'avevano fatto innervosire, i suoi strilli e le sue preghiere, e
che l'aveva picchiata una, due, tante volte. Quando la sua voce aveva
smesso di combattere ed era rimasto soltanto un corpo tremante e
dolorante, aveva incominciato a spogliarla.
Non aveva continuato
lì. L'aveva portata, aiutato dalla sera e da un taxi prontamente
pagato per comprare il silenzio del guidatore, in uno di quegli
appartamenti squallidi da poveracci, quelli che hanno a malapena il
letto e un tavolo, e che nei sobborghi più malfamati vengono
affittati per una notte al fine di bucarsi, sfondarsi di marijuana e
alcohol e fare sesso extraconiugale.
Il letto aveva cigolato,
quando l'aveva gettata su di esso, così come la sua voce mentre
lo pregava ancora una volta di fermarsi.
Ma perchè
continuava a chiederglielo? Perchè non l'accettava e basta?
Erano ripugnanti i suoi baci, il suo viso, le sue mani? Le era sgradito
l'unico tocco che sapeva regalarle, l'unico modo che avesse per accarezzarla?
L'aveva spogliata
incurante, lottando senza difficoltà contro alle sue mani,
disperatamente violente all'inizio, poi sempre più riluttanti e
rassegnate, fino a che rimasero soltanto ai lati del capo, abbandonate
al fianco di esso mentre singhiozzava.
Era bello, il suo corpo,
il suo seno, le sue gambe e ciò che aveva fra di esse. Era stato
bello il suo viso quando gliel'aveva detto ed era arrossito, quando le
sue labbra aveva sussultato assieme al corpo alla sua mano che era
scivolata proprio lì, a sfiorarla per la prima volta nel vero
senso della parola.
Si era quasi vergognato,
della propria inespertezza, della curiosità eccitata con cui
fissava ogni reazione, ignorando le sue richieste di smetterla o,
perlomeno, di non guardarla.
Era anche, perfino, un po' arrossito, quando era finalmente affondato in lei e l'aveva fatta sua.
Quando si era svegliato,
un paio d'ore dopo, era nel bel mezzo della notte. Le lenzuola, madide
di sudore e sporche di sangue e dei loro umori erano stropicciate sotto
al suo corpo, eppure non ebbe davvero voglia di sollevarsi da esse.
Si era girato, invece.
Sayuri gli dava la schiena, in quel momento, stretta sul bordo del
letto più che potesse, con le gambe tirate contro al petto e il
viso affondato in esse. Aveva lungo le cosce i segni di ciò che
avevano fatto, sulla schiena e sul collo lividi e succhiotti facevano
la loro comparsa, deturpando il dolcissimo oro della sua carnagione.
Piano, un po' insicuro,
aveva allungato le dita verso di lei, passando i polpastrelli lungo la
sua colonna vertebrale e lungo un fianco. Pur nel sonno, aveva sentito
i suoi muscoli irrigidirsi.
«Perchè
Ichinose? - aveva chiesto lui, assecondando i suoi pensieri con un filo
di voce - Perchè non io? Non sei felice, con me?»
Non si aspettava davvero
che gli arrivasse una riposta. Forse perchè le sue erano le
domande insensate di una mente malata, forse perchè,
soprattutto, lei stava dormendo.
Invece la sua voce ruppe
la notte, squarciandola a metà. E la velocità con cui si
espanse nell'aria fu direttamente proporzionale alla ferita che gli
spalancò nel petto.
«No. Non lo sono.»
☩
I risvolti della
situazione Seishiro non li ricordava più tutti. Sapeva che alla
mattina lei si era rivestita di ciò che rimaneva di essi e se
n'era andata, pur sapendo che era ancora sveglio nel letto, con gli
occhi piantati nel soffitto. Aveva sentito il rumore dei suoi
singhiozzi al cellulare, poi una macchina era arrivata e se li era
portati via. Ringraziava il cielo che non fosse salito nessuno a
picchiarlo a sangue, perchè non avrebbe davvero avuto la forza
di reagire.
Immobile nel suo letto,
quello stesso catasto di lenzuola luride e avviluppate, i suoi occhi
rame erano fissati contro al soffitto, i capelli neri abbandonati lungo
al cuscino in maniera disordinata.
Era rimasto così a
lungo, prima che qualcuno si ricordasse della sua esistenza, prima che
il cellulare vibrasse e la voce di Kureto gli partisse nelle orecchie.
Nessuno fece riferimento alla sua scorribanda.
Alla sera, invece che una punizione, da suo padre ricevette un complimento.
«Le puttane degli Ichinose non meritano altro.»
Quando Seishiro si era chiuso in camera, dopo quell'orribile giornata di niente, era rimasto solo con se stesso.
Chewbacca era
addomentanto sul tappeto ai piedi del letto e lui si era fissato, nudo,
dentro al grosso specchio che aveva su una parete.
Quella ragazza tanto
fragile, tanto patetica e debole, l'inutile sgualdrina degli Ichinose,
gli aveva insegnato una lezione molto più grande di tutte le
cinghiate, le botte, gli schiaffi e i calci.
Una lezione che faceva molto più male di qualsiasi ferita, ma che non avrebbe mai lasciato una cicatrice visibili.
Una leziona data da una puttana.
Seishiro non era solo il secondo.
Seishiro era l'ultimo fra tutti.
{Post Scriptum:
Che dire ai miei
lettori riguardo a questa storia? È diversa da ciò
che scrivo di solito, e senza dubbio le tematiche sono molto forti,
molto più di quanto io non abbia mai scritto.
Il personaggio di
Seishiro è indubbiamente stronzo. Di questo penso ce ne siamo
accorti tutti. Oltre a questo, però, Seishiro è anche
codardo. Sappiamo che ubbidisce ciecamente agli ordini di suo padre e a
differenza di Kureto, che ha la forza di carattere per ribellarsi
astutamente, l'Hiragi più giovane di sottomette, totalmente
plasmato sotto l'ideale di Tenri.
Questo suo atteggiamento
nei confronti di un padre senza dubbio dispotico mi ha molto colpito. E
se da una parte mi ha affascinata la crudele macchinazione di Kureto
alle spalle del padre, dall'altra mi sono sentita interessata a cosa
pensasse davvero Seishiro, nella propria testa.
L'idea che ho elaborato
è piuttosto sintetizzata nella fanfiction da me scritta. Quella
di una persona estremamente sola e che ha a disposizione soltanto la
violenza per essere sopra agli altri.
Sayuri è stata
scelta per un motivo preciso: Nella Light Novel c'è un punto in
cui Seishiro la picchia e fa per spogliarla, venendo poi fermato. Ho
voluto un po' giocare sulla traccia di questo fatto, forgiandolo in
maniera differente e più grammatica per poter dar voce ai
pensieri del ragazzo.
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