1.
A Vale.
Per i tanti pomeriggi
passati a tessere storie insieme.
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— Summa Supplicia
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I. Al George Inn
1875. Inghilterra
Anna Hawkins aveva sempre vissuto in punta di piedi sul limitare di
mondi diversi; mondi verso i quali non le era concesso reclamare piena
appartenenza. Li guardava come si guarda un paesaggio attraverso
il vetro di una finestra chiusa: benché potesse osservare
tutto, nitidamente, ne restava separata. E osservando Brewer Street, da
una stanza al secondo piano dello George Inn, la consapevolezza di
essere un’estranea tra estranei era forte come mai.
Maidstone
era dolorosamente diversa dalle cittadine della Nova Scotia: non
c’erano ariose strade sterrate, né case di legno
bianco, né una natura aspra come il profumo delle foreste di
abeti. Qui gli edifici, dai tetti scuri e aguzzi, se ne stavano stretti
l’uno
all’altro, come soldati impauriti. Alcuni erano di mattoni
rossastri, altri di un malsano giallio, altri
ancora parevano anneriti dalla fuliggine. Colonne di fume eteree e
pallide, come fantasmi, si levavano dai comiglioli, dissipandosi in un
cielo grigio. Di tanto in tanto, una carrozza, o un
calesse, passava lungo la via: il ferro degli zoccoli cozzava contro il
selciato, sembrava il martellare di un fabbro. Lontano, un
orologio batteva l'ultimo di cinque colpi.
Anna studiava il via vai di fauna umana: la gente entrava e
usciva dai negozi; fermi sul marciapiede, tre uomini fumavano sigari,
grossi come salsicce, e un drappo di nebbia serpeggiava tra di loro;
più in
là, una coppia di signore se ne andava a passeggio
sottobraccio. Sfoggiavano vite
strettissime, sederi sporgenti e cappellini di paglia ornati di nastri
e
piume. Una bimbetta le avvicinò: portava una gonna piena di
toppe, un cencioso scialle sul capo e
una cesta di arance tra le braccia. Anna comprese, dai gesti, che
la bambina stava cercando di vendere la frutta, ma le ricche donne le
rivolsero
soltanto uno sguardo e una parola, come chi
getta briciole ai passeri, e perseguirono fino a scomparire dietro
l’angolo con Wheeler Street.
L’attenzione di Anna rimase sulla bambina ― le ispirava
una tristezza amara, che andava sommandosi alla propria
inquietudine ― e quando la piccola si sottrasse alla sua vista,
imboccando
un vicolo,
Anna sospirò, piantò le mani sui fianchi e prese
a
camminare avanti e indietro. Le assi scricchiolavano sotto i suoi
stivaletti dalle punte scolorite e lei si sentiva sorvegliata dal
cipiglio solenne, vagamente nauseato, dell'ultima Hannover. Il ritratto
della regina era l’unico quadro nella stanza; che era
piccola, ammobiliata con sobrietà, riscaldata dalla stufa
nell'angolo. Una vecchia borsa da viaggio e un baule stavano ai
piedi di un letto intatto. Un cappottino rammendato e uno scialle di
lana grezza
erano appesi alla sedia; guanti senza dita e un rigido borsellino
erano sul tavolo, dove una lampada ad olio, spenta, fungeva da umile
centrotavola.
Anna udì un cigolio di ruote. Si riaccostò alla
finestra. Una carrozza si era appena fermata davanti alla pensione. Ne
scesero due
uomini: indossavano lunghi pastrani e le falde dei capelli nascondevano
i visi. Entrarono al George Inn, ma la
carrozza non ripartì e Anna sentì riaccendersi le
speranze. Prese un respirò e sedette sulla sponda del letto,
con le dita
intrecciate e la mani affossate tra le pieghe della gonna. Attese. E
attese.
E nessuno venne a bussare.
Chiunque fossero i due uomini, non erano lì per lei.
Così come non lo erano state le tre carrozze che aveva visto
fermarsi alla locanda nelle ultime due ore. Quanto ancora avrebbe
dovuto pazientare? Possibile che si fossero dimenticati di lei?
Anna si alzò. Prese il borsello e liberò la
cinghia
che lo teneva chiuso. Ne cavò fuori una pistola, piccola
come
la sua mano: una lucida derringer con la canna argentata e
l’impugnatura color avorio. Prima la guardò,
inclinando
il capo, come si guarda un gingillo diventato troppo familiare per
suscitare interesse; poi, la mise da parte ed estrasse un plico
di
fogli tenuti assieme da uno spago. Erano lettere e telegrammi;
nell’indirizzo del mittente comparivano le
parole Bon Fleur
Place. Era stata Anna a cominciare la corrispondenza. Sarebbe
stata in grado di recitare a memoria il contenuto di ogni singola
lettera, tante volte le aveva lette e rilette,
prima e durante il viaggio in mare.
Mia
cara zia Woodhams
aveva scritto lei, mesi addietro,
sono vostra nipote
Anna.
Non ci siamo mai scritte, ma so che mio padre vi mise al corrente della
mia nascita, più di venti anni fa. Io devo scrivervi, col
lutto nel cuore, per comunicarvi che il mio caro padre ci ha lasciato.
Riposa già da tre giorni accanto alla tomba di mia madre.
Sono a conoscenza della rottura dei rapporti tra voi e mio padre, ma
negli ultimi giorni, prima della sua morte, egli mi confidò
il proprio rammarico per essersi allontanato da voi, sua sorella
maggiore. Spero di fare cosa gradita allo spirito di mio padre, se
scrivo con la speranza di un ravvicinamento. Non ho nessuna pretesa e
non vi presento nessun obbligo.
Vi chiedo soltanto
una
parola gentile.
Vostra nipote,
A. Hawkins
Dall'Inghilterra era giunta una risposta che era andata ben oltre le
tiepide speranze di Anna.
Nipote
adoratissima,
la notizia della
morte
di Jonathan ci ha addolorato tutti.
Prima che anche
per me
giunga la più triste delle ore, permettimi di fare ammenda.
Un viaggio
è una richiesta non da poco, per una donna giovane e sola,
ma quale gioia sarebbe averti qui in Inghilterra. Vorrei avere la
possibilità di prendermi cura di te, come di una figlia, e
mostrarti l'affetto che per troppi anni è stato negato a
Jonathan, per motivi che adesso mi si rivelano in tutta la loro
egoistica vanità.
Con affetto,
V. Woodhams
Un telegramma dopo
l’altro, erano stati presi accordi, stabilite date e fatte
promesse.
Anna mise via le carte, e con loro il borsello, decisa a scendere al
pian terreno.
Nella calda saletta, dalle pareti rivestite di pannelli di legno,
ronzavano solo ospiti uomini: fumavano sprofondati nelle
poltroncine rosse; bevevano vino, sorseggiavano
tè; e ciarlavano tutti assieme, in un gran brusio. In
quel
nuovo Paese, la gente, pur parlando la sua stessa lingua, lo faceva con
un accento che a tratti rendeva ad
Anna difficile capire cosa si dicessero. Ma mentre si spostava
per la
sala, lei non
badò a nessuno, né si prese il disturbo di
controllare che qualcuno stesse badando a lei. Rivolse la parola
soltanto a
un cameriere, per chiedergli se sapeva dove abitasse il signor Walter
Woodhams di Bon Fleur Place.
«Woodhams? Il Woodhams del birrificio su Buckland
Road?»
Anna disse di sì.
«Fuori città. A quasi quattro miglia da East
Farleigh. Dovete andare laggiù, signorina?»
«Dovrei, sì...» tagliò corto
Anna.
Ringraziò il cameriere e tornò sui suoi passi.
La stanchezza le suggerì la scelta più opportuna:
presto il sole
sarebbe tramontato e lei poteva permettersi di trascorrere una notte al
caldo. Se quella sera nessuno fosse venuto a chiedere di lei, avrebbe
trovato l’indomani mattina il modo di raggiungere Bon Fleur
Place.
Anna era appena uscita dalla saletta, quando una donna, che
sparecchiando il tavolo
vicino aveva origliato la conversazione, si accostò al
cameriere.
«Davvero cercava i
Woodhams?»
«Sì. Strano, vero?»
«Dev'essere la domestica nuova. Ho sentito che cercavano
qualcuno che andasse a servizio da loro. Ma quella deve venire da
parecchio lontano. Hai sentito che accento? E che pelle scura. Sembra
una zingara.»
«Per forza deve venire da lontano» disse il
cameriere. «Anche l'altra
è venuta da fuori. Dopo quello che è successo dai
Woodhams, dove la trovano, qui in città, una disposta a
lavorare da loro?»
Mentre il cameriere parlava, dietro di lui, un uomo seduto a
un tavolo solitario, chiuse con lesta delicatezza il libricino sul
quale aveva tenuto lo
sguardo fino a quel momento. Raccolse guanti e capello e
lasciò la sala.
All’ingresso, deserto, Anna era a metà
della scala, quando udì una voce maschile.
«Miss!»
Anna non era abituata all’appellativo di miss: non
pensò che il richiamo fosse rivolto a lei; e salì
altri tre gradini.
«Miss Hawkins!»
Anna si fermò, voltandosi.
Un giovane uomo, ai piedi della scala, chinò il capo a
mo’ di saluto. Le sorrideva: un sorriso fievole, che
sembrava costargli fatica. Aveva il volto pallido, asciutto, sbarbato e
vestiva di scuro; la cravatta di seta blu era magistralmente annodata
attorno al rigido colletto bianco della camicia. Guanti e cappello
erano serrati tra le lunghe dita nervose, contro la gamba destra.
Nella mancina, stringeva un libretto. «Perdonatemi.
Questo
modo di rivolgervi la parola è sfrontato: ne sono
consapevole»
disse lo sconosciuto, in tono pacato. «Ma ho
accidentalmente udito la vostra conversazione con il cameriere. Dunque,
voi siete la nipote di Walter Woodhams? Siete la figlia di Jonathan
Hawkins?»
Anna poggiò una mano sulla balaustra, aggrottando le nere ed
erte sopracciglia.
«E voi chi siete?»
L’accenno di sorriso, sulle labbra sottili dello sconosciuto,
acquistò una sfumatura di scusa. «Il mio nome
è William Hall. Sono un amico del signor Woodhams. Mi ha
informato lui, personalmente, del vostro arrivo. Ma mi è
parso di capire
che siete bloccata, qui, al George Inn? Conosco
abbastanza vostro zio da azzardarmi a pensare che abbia ― come posso
dire? ―
perso di vista il calendario.»
Anna notò che William Hall non parlava come gli altri:
infondeva precisione, eleganza quasi, in ogni parola; le
accarezzava, come fossero ninnoli preziosi. Lei teneva ancora la mano
sulla balaustra. Esitava. Non era una
sprovveduta.
Nutriva nei confronti degli uomini, in particolare gli uomini bianchi,
scarsa fiducia e pochissima considerazione. D’altra parte,
aveva sempre potuto constatare che gli uomini erano in grado di
mantenere
un'altissima considerazione di loro stessi senza l’aiuto di
nessuno.
Il cruccio sulla fronte dovette tradire la sua diffidenza,
perché William disse: «Desidero soltanto rendermi
utile, miss Hawkins. Sarei
lieto di mettere una delle carrozze della mia famiglia a vostra
disposizione. Tuttavia, non posso offrirmi di accompagnarvi. Un impegno
irrimandabile mi trattiene qui. Inoltre, voi capite, non
sarebbe appropriato condividere una carroz―»
«Quanto parlate» lo interruppe Anna.
«Accetto la carrozza. Grazie.» Girò i
tacchi e sparì su per le scale.
In camera, non ebbe
ripensamenti: era pressoché impossibile che quel tale, quel
William Hall,
mentisse; in che altro modo avrebbe potuto conoscere il nome di suo
padre? Lei era giunta a Maidstone quella mattina stessa. Nessuno la
conosceva. Doveva essere stato necessariamente lo zio Woodhams a
parlare di lei a William Hall. Al che, si sentì in dovere di
mostrarsi un poco più garbata con quest’ultimo e,
in capo
a
cinque minuti, fu di nuovo al pian terreno, ad allungare il
collo in cerca dell'uomo.
Lo ritrovò subito: lui aveva occupato una poltrona vicino
alla finestra. Se ne stava con le lunghe
gambe accavallate, un gomito sul bracciolo e una mano davanti alla
bocca, immerso in
quella che sembrava una greve e malinconica contemplazione della
strada:
l’andirivieni per Brewer Street si era fatto rado.
Anna gli sedette difronte, senza inviti e senza permessi,
tant'è che William non
fu il solo a voltarsi con un velo di stupore nello
sguardo. Ma fatta sparire la sorpresa dagli occhi cerulei,
recuperò alla svelta un sorriso e disse di aver mandato a
chiamare Benton, il
cocchiere. Sarebbe stato lì in pochi minuti.
Anna rispose di non avere fretta.
E cadde il silenzio, mentre attorno a loro il chiacchiericcio non
conosceva pause.
«Vi ha raccontato altro mio zio - di me?»
tentò di scoprire Anna.
«Solo che siete sua nipote acquisita. Nata e cresciuta nelle
vecchie colonie.»
Di nuovo, silenzio.
Poi, fu William a riprendere: «Posso chiedervi come
è
stato il viaggio?»
«Lungo e scomodo.»
«Mi auguro che l’Inghilterra sappia ripagarvi della
fatica.»
Anna scrollò le spalle.
«Posso farvi un’altra domanda, signorina
Hawkins?»
«Se la smettete di chiedere il permesso,
sì.»
«Avete viaggiato sempre da sola?»
Anna sbuffò. «Che idea! Certo che no!
Cosa credete? Che io sia capace di condurre da
sola un piroscafo da una parte all’altra
dell’oceano? Ero in compagnia di un equipaggio e due
centinaia di passeggeri.» Non le riuscì di
decifrare il sorriso di William: aveva
colto l'ironia? O si credeva sbeffeggiato? Per
scongiurare un terzo silenzio, subito continuò:
«Cosa siete voi?»
«Al momento, in parti eguali incuriosito e
perplesso.»
«Intendo: qual è la vostra professione? Di che vi
occupate?»
William si volse verso la finestra, umettando le labbra.
«Di tenere viva l’illusione di essere un uomo di
penna.»
«Ah, scrittore. Ho incontrato uno scrittore. Una
volta.»
«E come lo avete trovato?»
«Morto.»
«Prego?»
«Era un funerale ― più che un
incontro.»
«Oh.» William si schiarì la gola.
«E che cosa accadde al poveretto?»
«Niente che si possa ricondurre a me» disse Anna,
spicciola.
William corrugò la fronte spaziosa e innalzò un
sopracciglio. Schiuse la bocca e, dopo una fugace occhiata oltre
finestra, annunciò: «Benton è
arrivato.»
Difatti, c'era un cab davanti all’ingresso della pensione: il
cocchiere stava scendendo dalla cassetta, collocata in
alto, sul retro della signorile vetturina.
Anna tornò in camera per indossare cappotto e scialle;
infilò i guanti e agganciò il borsello alla vita.
Quando fu di nuovo
nell'atrio d'ingresso, William Hall la stava aspettando, con la tuba di
velluto
calcata sui lucidi riccioli neri e le mani dietro la
schiena. Anna si accorse che era piuttosto magro, e molto alto; lei
arrivava a malapena al suo petto.
William la scortò fino al
calesse.
«Portate i miei saluti a vostro zio. E a vostra zia. Sono
certo che il vostro arrivo non la troverà
indifferente.» Nel sorriso di congedo dell'uomo, Anna scorse
un
che di diverso: una
piega di intima ilarità, vaga e sfuggevole, che per un
motivo che non seppe spiegarsi le suscitò un vago, quanto
improvviso, nervosismo.
William chiuse lo sportello, fece un cenno al cocchiere e il calesse
partì.
Gli interni del cab erano scuri; più lindi e
più eleganti di qualsiasi diligenza sgangherata su
cui Anna avesse mai viaggiato prima. Presto, la ragazza
dimenticò il sorriso di
William Hall e riuscì a rilassarsi, al centro del sedile
imbottito;
attorno a lei, i vetri e le pareti vibravano appena. Era piacevole non
avere
più sotto al sedere i duri sedili di terza classe del treno
che l’aveva portata da Londra a Maidstone. Ed era piacevole
non
avere più come compagni di viaggio il russare di una
corpulenta vicina, il pianto stridulo di un neonato e il lezzo del
sudore altrui.
Il calesse procedeva veloce. Abbandonata la città, la
vettura si gettò tra le umide braccia della campagna. Le
ruote affondavano nel fango mentre, dagli strappi
tra le nuvole, una bella luna tonda iniziava a diffondere il proprio
chiarore sopra i placidi campi bruni, sopra le pettinate distese di
verde e sopra le acque del Medway. La strada seguiva il fiume ed era
abbastanza vicina da permettere ad Anna di scorgere, oltre la cortina
di alberi, la coda di un battello e il volo di qualche
gabbiano solitario.
Dalla parte opposta al fiume, verso sud, incontrarono presto le luci
del villaggio di East Farleigh. Passato il villaggio, giunse un bivio.
La strada saliva verso
un’altura, sulla cui sommità sorgeva una
grande casa bianca, in parte nascosta dalla vegetazione. Nessuna luce
brillava dietro le finestre.
Anna si sorprese quando il calesse
superò il bivio tirando dritto e la bella casa divenne un
puntino alle loro spalle.
Quasi dieci minuti di scalpiccii e sussulti più tardi, lungo
il bordo della strada, apparve l’inizio di un muretto; il
muro condusse a un cancello di ferro battuto, aperto. Un viale di
ghiaia, arginato da una pittoresca fila di piatti massi, serpeggiava
con dolcezza su per una pendenza, terminando ai piedi di tre gradoni
di pietra.
Benton tirò le redini e il calesse si fermò: Bon
Fleur Place era una villa a tre piani, grande, ma non imponente,
sebbene chiunque l’avesse costruita avesse chiaramente
tentato
d’impregnarla della solennità di un castello o di
un’abbazia. Le finestre erano incassate in cornici
sormontate da piatti archi; il portone si nascondeva
nell’ombra di un portico quadrato e intrecci di fiori
e foglie, scolpiti nella pietra, si contorcevano sui capitelli e sul
frontone. Ai lati dell’ingresso due torrette, dai tetti a
cono, coperti di tegole nere e piatte come le scaglie di un serpente,
si stagliavano orgogliose contro il livido
cielo della sera.
Benton aprì lo sportello del cab.
«Siete a casa, miss.»
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Note autrice.
Summa
Supplicia è il primo lavoro originale che
metto in rete, ma è necessaria una
puntualizzazione. I protagonisti di questo capitolo (Anna Hawkins e
William Hall) sono
un’evoluzione di personaggi creati per un gioco di ruolo,
ormai chiuso da tempo, di genere sovrannaturale/moderno. Sulla prima,
rivendico
la piena paternità; in quanto al secondo, è opera
di una compagna di giochi — Aliisza — che mi ha
autorizzata a
rielaborarlo in versione vittoriana.
Questa
storia, quindi, nasce dalla voglia di
calare dei personaggi a cui sono affezionata in un contesto nuovo e
diverso. La presenza di tropi del genere gotico e
horror è
voluta, ma spero di averli rimescolati abbastanza
da non presentarli come noiosi cliché.
Riguardo all'accuratezza storica, ho cercato di restare
fedele alla realtà del luogo e dell’epoca. Sugli
elementi esoterici, sia occidentali sia della cultura nativa
americana, invece, non c’è niente da prendere come
realistico.
Per
concludere, ringrazio chiunque vorrà soffermarsi su queste
pagine.
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