IL
PREZZO DELL'ONORE
Il
giovane sembrava addormentato. Aveva un'espressione tranquilla, che
comunicava serenità e compostezza.
Sullo
zigomo destro aveva un piccolo taglio, scarlatto sul pallore del
viso, unica testimonianza di quello che era accaduto.
Giaceva
sulla pira incoronato d'ulivo e vestito di un semplice manto rosso.
C'erano
alcuni uomini intorno, perlopiù atleti provenienti da
Sparta, che
osservavano la scena in dignitoso silenzio. Tra essi uno spiccava per
altezza e prestanza. Non manifestava un contegno diverso da quello
degli altri, tuttavia i compagni lo trattavano con quella particolare
forma di deferenza che si riserva a chi ha appena subito un grave
lutto.
Fu a
lui che il sacerdote consegnò solennemente la fiaccola
accesa.
“Democrito,
vieni a vedere!” esclamò Polinice, “Ci
sono gli incontri di
pancrazio!”
“Arrivo!”
I
due
ragazzi si sottrassero abilmente alla sorveglianza del loro
comandante di Compagnia e
scivolarono non visti nella palestra
principale.
Lì
si
confusero con la piccola folla che vi era riunita e silenziosi come
gatti si acquattarono in un angolo.
Sebbene
dovere di ogni Spartiate fosse quello di intervenire non appena
s'imbatteva in un giovane che mostrasse un comportamento disdicevole,
nessuno sembrò fare caso a loro.
L'interesse
generale era infatti rivolto al centro della sala, dove Andromaco si
stava preparando ad affrontare un avversario.
Nella
dura disciplina del pancrazio, Andromaco era l'indiscusso campione.
Più alto e più possente della maggior parte degli
Spartiati, univa
una forza poderosa ad agilità e competenze tecniche fuori
dal
comune. Seguire i suoi combattimenti era un piacere cui pochi
avrebbero rinunciato.
Egli
avanzò già cosparso d'olio per la lotta, i
muscoli lucidi che
guizzavano come quelli di una fiera. Nonostante le usanze di Sparta
portava i capelli molto corti, giacché se fossero stati
lunghi
avrebbero rappresentato una facile presa per l'avversario.
Democrito
lo fissò affascinato. Non era la prima volta che lo vedeva,
naturalmente, anzi aveva spesso eluso la sorveglianza dei superiori
per assistere ai suoi incontri, ma tutte le volte l'emozione era la
stessa.
Tutti
gli Spartiati praticavano il pancrazio, una volta raggiunta
l'età
giusta, ma solo un ristretto numero di essi risultava possedere le
caratteristiche di forza, resistenza e agilità che
consentivano di
praticare quella dura disciplina al livello che consentiva l'accesso
ai Giochi Olimpici.
Democrito,
che era fra i più abili della sua Compagnia sia nel pale che
nell'orthopale,
desiderava più di ogni altra cosa essere
ammesso nell'esclusivo gruppo.
“Andromaco
ha già un amante?” chiese al compagno.
Questi
lo fissò stupito. “Perché me lo
chiedi?”
“Forse
potrei...” A Sparta era usanza che fosse il fanciullo a
chiedere al
giovane adulto di poter diventare suo amante.
“Non
ci pensare nemmeno!” lo interruppe l'altro categorico.
“Con
giovani virtuosi e degni come Ipparco o Carilao ancora liberi,
avresti tu la
pretesa di diventare l'amante di Andromaco?”
L'altro
fece per replicare, ma il primo continuò:
“Toglitelo dalla testa!
Una simile presunzione getterebbe la vergogna su tutta la Compagnia,
saremmo derisi a causa della tua sfacciataggine, le ragazze
comporrebbero canti di scherno su di noi!”
Forse
Democrito avrebbe voluto rispondere, ma in quel momento si
udì una
voce irata alle loro spalle: “Eccovi qui, maledetti
fannulloni!”
I
due
si girarono all'unisono. A grandi passi si stava avvicinando
Alcandro, il comandante della loro Compagnia, e a giudicare dalla sua
espressione sembrava anche decisamente contrariato. “Cosa
credevate
di fare voi due?” li apostrofò severo.
“Volevo
vedere il combattimento di Andromaco,” rispose Democrito, con
la
sincerità che si conveniva ad uno Spartiate.
“Tu
non vedrai un bel niente, ti insegno io ad abbandonare il campo senza
il permesso! Panoplia completa e dieci giri di campo, forza!”
Poi,
rivolto all'altro ragazzo: “E anche tu! E stasera ne
riparliamo!”
Per
quanto dura, la punizione non servì a tenere Democrito
lontano dal
campo dove si allenavano i pancratisti. Vi andava anzi ogni volta che
riusciva a eludere la sorveglianza, badando a tenersi ben nascosto
quando assisteva agli incontri.
Sarebbe
morto di vergogna, infatti, se Andromaco l'avesse sorpreso.
Cos'avrebbe potuto dirgli per giustificare quell'ignominioso
comportamento? Sto nascosto come un Ilota perché voglio
spiarti?
Bell'esempio di Spartiate.
Forse
Polinice aveva ragione quando diceva che il campione di pancrazio non
l'avrebbe nemmeno guardato, e anzi l'avrebbe deriso se mai avesse
avuto l'ardire di presentarsi a lui chiedendo di diventare suo
amante.
Il
ragazzo sospirò. Sul campo Andromaco stava accettando la
resa
dell'ennesimo avversario. Ansimava appena, e un rivolo di sangue gli
disegnava la muscolatura poderosa del braccio, scorrendo lucido e
scarlatto sulla polvere che gli si era appiccicata addosso durante la
lotta. Lo sguardo era acceso e fiero.
Come
avrebbe desiderato essere colui che aveva l'onore di passare lo
strigile su quel
corpo perfetto! Era certo che neppure il
divino Apollo avesse membra così forti e armoniose.
E
sapeva per certo che la bellezza fisica rispecchiava in lui quella
morale. Non vi era Spartiate più virtuoso e coraggioso di
lui,
nessuno possedeva la sua arguzia negli scherzi e la sua fermezza nel
pericolo.
D'un
tratto alzò gli occhi e si accorse che Andromaco si stava
muovendo
proprio nella sua direzione. Non l'aveva notato, ovviamente, o forse
lui appariva ai suoi occhi come uno degli innumerevoli ragazzi che ad
ogni incontro lo guardavano affascinati, tuttavia si
allontanò
silenziosamente prima che il lottatore posasse lo sguardo su di lui.
Per
quanto uno Spartiate fosse educato al coraggio fin dalla più
tenera
età, il ragazzo non aveva avuto cuore di attendere il suo
arrivo. Se
avesse fatto brutta impressione avrebbe gettato il disonore su se
stesso e su tutta la sua Compagnia, avrebbe svergognato il suo
comandante e si sarebbe in breve attirato le giuste ire di tutti.
L'unico
modo per venire a capo del problema, rifletté Democrito, che
comunque non aveva ancora abbandonato l'idea di diventare amante di
Andromaco, era quello di migliorare se stesso.
Portare
la virtù al massimo grado, divenire il migliore e quindi il
più
desiderabile.
Il
lottatore, infatti, contrariamente alle previsioni di Polinice non
aveva scelto né Ipparco né Carilao e quindi era
ancora in attesa di
qualcuno che fosse degno di diventare suo amante.
“Che
cosa deve avere un ragazzo che aspiri a lui?” chiedeva
Democrito
disperato, rivolgendosi all'amico, “Quali doti deve
possedere, se
neppure i migliori e più degni fra i giovani sono stati
accettati?”
L'altro
scuoteva la testa incapace di fornirgli una risposta adeguata.
In
attesa di scoprirlo, il giovane Spartiate coltivava le virtù
che
sommamente venivano stimate presso il suo popolo: mostrava coraggio
nei combattimenti, resistenza alla fatica, austerità e
obbedienza ai
precetti dei più anziani.
Poiché
inoltre supponeva che Andromaco apprezzasse particolarmente i buoni
lottatori, non vi era giorno in cui non disputasse incontri, cercando
appositamente avversari più forti o più esperti,
che gli
permettessero di progredire e diventare sempre più abile.
Nella
sua affannosa ricerca di sempre nuove sfide, un giorno Democrito si
trovò a combattere contro un ragazzo proveniente da un'altra
Compagnia. Il giovane, di nome Ifito, era soprannominato Il Toro
a causa della sua poderosa corporatura e aveva battuto ogni
avversario che l'avesse sfidato. Tutti erano sicuri che sarebbe stato
scelto per entrare a far parte del pancratisti.
Democrito
lo affrontò con decisione, certo che la notizia di quella
contesa
l'avrebbe reso più degno di ricevere ciò che
sopra ogni altra cosa
bramava, ovvero la considerazione di Andromaco.
Dopo
essersi studiati per qualche secondo, i due si scagliarono l'uno
contro l'altro. Essendo più agile, Democrito
tentò subito di
afferrare l'avversario con un meson
echein per
sollevarlo e
rovesciarlo al suolo, ma l'altro non era un principiante e se ne
accorse in tempo. La presa non riuscì.
Per
un
po' tentarono vanamente di afferrarsi polsi, braccia o gambe,
spingendosi nel contempo con tutta la loro forza, poi crollarono a
terra, dal momento che Ifito era riuscito finalmente a far perdere
l'equilibrio a Democrito, ma quello, più agile, l'aveva
avvinghiato
e trascinato con sé nella caduta.
La
lotta ricominciò straordinariamente violenta. Nessuno dei
due voleva
cedere, e nell'approvazione di quanti stavano assistendo, i colpi si
susseguivano sempre più poderosi e feroci.
Ad
un
tratto Democrito pur nella concitazione della lotta ebbe un tuffo al
cuore: tra gli spettatori c'era Andromaco!
La
cosa
gli fece raddoppiare gli sforzi. Sarebbe morto, pur di non mostrargli
uno spettacolo vergognoso e indegno di lui.
Ifito
aveva a sua volta notato il celebre pancratista e per nulla al mondo
si sarebbe lasciato battere, lui che era tuttora un campione invitto,
proprio dinnanzi agli occhi di Andromaco.
“Come
ti senti?”
La
voce
sembrava debole e lontana.
Democrito
si mosse con fatica, cercando pesantemente di sollevarsi su un
gomito. Si accorse che era sdraiato a terra e che sopra la sua testa
si agitavano le fronde scure di un lauro.
“Non
muoverti,” gli ingiunse con fermezza la voce. Il ragazzo
aprì gli
occhi e si accorse che essa apparteneva nientemeno che ad Andromaco.
Pieno
di vergogna, si abbandonò prostrato sull'erba. “Mi
dispiace,”
mormorò con voce debole.
“Di
cosa?”
“Di
non aver vinto. Di aver dato di me questo spettacolo...” non
riuscì
a terminare la frase.
“Nessuno
di voi due ha vinto,” gli giunse la risposta,
“siete svenuti
entrambi. Ifito è sdraiato a qualche cubito da te, se ti
volti puoi
vederlo.” Gli girò dolcemente la testa nella
giusta direzione.
“Mi
dispiace,” ripeté Democrito.
“Avresti
combattuto fino alla morte,” constatò Andromaco.
“Sì.”
“Il
tuo avversario era molto più forte di te.”
“Volevo
migliorare nella lotta.”
Volevo
fare bella impressione davanti ai tuoi occhi.
Tentò
ancora una volta di alzarsi e di nuovo Andromaco glielo
impedì.
“Riposati,” gli ordinò.
“Ma
il mio comandante...”
“È
stato lui a dire che devi restare immobile. Hai preso un brutto
colpo.”
Se
persino Alcandro, noto per la sua severità, non aveva voluto
che si
rialzasse, evidentemente doveva essere conciato davvero male.
Rimasero
in silenzio per un po', Democrito sdraiato e Andromaco seduto al suo
fianco con aria pensosa.
Infine
il giovane uomo chiese: “Chi è il tuo
amante?”
L'altro
sentì il cuore saltare un battito. Deglutì a
vuoto e cercando di
non far tremare la voce balbettò: “Io... non ho un
amante.”
“Peccato.
Se tu l'avessi avuto, egli sarebbe stato molto fiero di come ti sei
comportato oggi. Avrebbe parlato di te con orgoglio agli anziani e
tutti si sarebbero congratulati con lui.”
A
Democrito parve di percepire una vaga nota di rimpianto nella sua
voce, ma naturalmente non osò proferire parola.
“Ora
ti lascio riposare,” disse Andromaco. “Quando ti
sarai
ristabilito, voglio che tu venga alla palestra del pancrazio per
sostenere una prova.”
Prima
che Democrito potesse riaversi dallo stupore e rispondere qualcosa,
l'altro se n'era già andato.
Il
ragazzo rimase a giacere sotto le fronde. Quasi benediceva l'ordine
di Alcandro che lo obbligava a non muoversi, perché
ciò gli avrebbe
dato modo di riflettere su quanto era appena accaduto.
Andromaco
gli aveva chiesto di entrare a far parte del gruppo di pancratisti.
Non
era
una cosa certa ovviamente, tutto dipendeva dall'esito della prova, ma
era comunque un onore che mai avrebbe sperato di ricevere.
Andromaco
gli aveva chiesto chi era il suo amante. Possibile che fosse
interessato a lui?
Si
obbligò a rifiutare con fermezza quel pensiero. La
presunzione e
l'orgoglio portano solo alla rovina.
Chi
è
troppo pieno di sé, ammonivano gli anziani, si gonfia come
una rana,
che strepita e fa chiasso ma alla fine contiene solo aria.
La
modestia, invece, e la giusta umiltà nei confronti dei
più saggi
sarebbero state utili compagne, che l'avrebbero reso sobrio,
riservato e pronto ad accettare gli insegnamenti di chi aveva
più
esperienza.
Dei
passi leggeri lo distrassero dai suoi pensieri.
Polinice
si sedette accanto a lui. “Come stai?”
s'informò fissandolo
attento.
“Un
po' meglio ora.”
“Dovevi
vedere le facce di quelli della Compagnia di Ifito! Certi musi
lunghi...” Gli sollevò cautamente la testa e gli
avvicinò alle
labbra una tazza d'acqua. “Tieni, bevi.” gli disse.
Democrito
era assetato e non si fece pregare.
“Come
sta Ifito?” chiese quando il recipiente fu vuoto.
“Già
in piedi, non preoccuparti.”
“Appena
riesco a stare in piedi anch'io senza che mi giri la testa
andrò a
stringerli la mano, ha combattuto bene.”
“Mi
pare giusto.”
Tra
i
due calò il silenzio. Polinice si sedette più
comodo appoggiando da
una parte la semplice tazza di terracotta.
“Cosa
ti ha detto Andromaco?” chiese poi con aria indifferente.
“Mi
ha concesso un grande onore: mi ha chiesto di andare nella palestra
del pancrazio per sostenere una prova. Se la supererò
potrò
allenarmi con lui.”
“È
davvero una cosa bellissima! Valeva la pena di farsi massacrare per
sentire parole del genere.”
“Per
Eracle, è vero.”
Ci
fu
un altro silenzio, rotto solo dello stormire delle fronde sulle loro
teste e dai comandi di un istruttore in lontananza.
Infine
Polinice disse: “Mi sono sbagliato. Io credo che tu piaccia
ad
Andromaco. Forse potresti davvero chiedergli se ti accetta come
amante.”
“Oh,
no! Stai scherzando?” rispose Democrito allarmato,
“Lo vorrei
tanto, ma muoio di vergogna al solo pensiero!”
“Perché?”
“Con
tutti i giovani degni e onesti che ci sono...”
“E
che lui non guarda nemmeno,” lo interruppe l'amico.
L'altro
stava per replicare quando a grandi passi si avvicinò
Alcandro
armato di tutto punto. Lo scrutò brevemente per controllare
che si
fosse ristabilito e disse: “Forza, in piedi. Credi che il
nemico
aspetti che tu ti sia riposato per attaccarti?”
“No,
non lo credo.”
“Allora
alzati. Non vorrai disonorare la tua Compagnia con un atteggiamento
troppo molle.”
Democrito
entrò nella palestra dove si praticava il pancrazio facendo
del suo
meglio per non mostrare imbarazzo, perché non voleva che gli
atleti
presenti lo giudicassero debole a causa di una condotta troppo
timida.
Vide
subito Andromaco impegnato in un combattimento. Lottava contro un
avversario robusto quanto lui e i due non si risparmiavano i colpi.
“Che
c'è, ti fa paura?” lo canzonò uno dei
presenti, notando che
fissava l'incontro con gli occhi sgranati.
Un
altro si avvicinò e soggiunse: “Il pancrazio non
è per gente
delicata.”
“Comunque
rassicurati,” disse un terzo ridendo, “perlomeno
cavare gli occhi
all'avversario è proibito.”
“Sempre
che l'arbitro se ne accorga in tempo!” Questo era di nuovo il
primo.
Democrito
accennò a sua volta ad un sorriso. Tra i numerosissimi
doveri di uno
Spartiate c'era anche quello di accettare lo scherzo e possibilmente
replicare alle battute con arguzia.
Sapeva
inoltre che quei motti di spirito servivano anche per metterlo alla
prova. Se si fosse dimostrato insicuro, se si fosse risentito o
spaventato, la sua carriera come pancratista sarebbe finita prima di
cominciare.
“Quand'anche
l'arbitro non se ne accorgesse, sarebbe una negligenza che
può
commettere non più di due volte per ogni atleta,”
rispose.
“Per
Zeus, ben detto!” risero gli altri.
“Ben
detto!” ripeté Andromaco avvicinandosi. Aveva
appena terminato
l'incontro e aveva ancora addosso la polvere dell'arena. Rivolto a
Democrito chiese: “Sei venuto a sostenere la prova?”
“Sì,”
rispose il ragazzo, facendo del suo meglio per mostrare un contegno
fermo e risoluto.
L'altro
annuì grave. “Melesia!”
chiamò.
Si
fece
avanti un giovane lottatore dall'espressione ardita, di poco
più
piccolo di Andromaco.
“Fatemi
vedere un combattimento,” ordinò quest'ultimo
asciutto.
Non
si
era accertato che Democrito conoscesse almeno i rudimenti del
pancrazio. Se anche li ignorava avrebbe sempre potuto apprenderli,
mentre nessuno avrebbe mai potuto infondergli il coraggio e la
determinazione necessari a quella dura disciplina se non li
possedeva.
Fu
una
sconfitta ignominiosa. Democrito cercava di misurasi col suo
avversario meglio che poteva, ma i colpi – calci, pugni,
gomitate,
ginocchiate e botte di qualsiasi altra parte del corpo potesse essere
usata per infliggere dolore – gli piovevano addosso da tutte
le
parti, inferti senza riguardi e con la deliberata volontà di
fare
più male possibile.
Eppure
Melesia non appariva in preda al furore o mosso dall'odio. La sua
espressione era tranquilla anzi, quasi distaccata. Si muoveva senza
alcuna precipitazione, ponderando e valutando ogni tecnica.
Democrito
cadde in ginocchio per l'ennesima volta. Si sostenne esausto
poggiando una mano al suolo. Ansimava, grondava di sudore e il sangue
che gli colava da un sopracciglio ferito l'aveva quasi accecato.
Tutto il corpo gli doleva in modo terribile.
Melesia
aspettò quel tanto che gli avrebbe consentito di chiedere
quartiere
se ne avesse avuta l'intenzione, poi colpì di nuovo, senza
nemmeno
attendere che si fosse rialzato in piedi.
Democrito
crollò a terra rotolando nella sabbia.
L'altro
si voltò allora verso Andromaco, che però rimase
impassibile. Le
braccia conserte, il volto impenetrabile, egli teneva gli occhi fissi
sul ragazzo ormai esausto e intontito dalle percosse.
Melesia
colpì di nuovo con un calcio e Democrito tentò in
un sussulto di
rabbia di afferrargli una caviglia.
La
cosa
non gli riuscì, ma il gesto impressionò
positivamente Andromaco,
che approvò con un sobrio cenno del capo.
Quando
si fu persuaso che Democrito non era più in grado di reagire
ma si
sarebbe fatto uccidere pur di non arrendersi, Andromaco
richiamò
Melesia.
Si
avvicinò poi al ragazzo che stava cercando faticosamente di
alzarsi
e gli porse una mano. Lo aiutò a mettersi seduto con la
schiena
contro una parete, poi gli diede da bere.
“Perdonami,”
ansimò Democrito non appena fu nuovamente in grado di
parlare,
“immagino che ti avrò deluso.”
Colmo
di vergogna evitava di guardare Andromaco.
“Al
contrario. Sono molto soddisfatto di te.”
“Ma
ho perso, non ho superato la prova.”
“Sapevo
già che avresti perso, Melesia è troppo forte per
te, ma volevo
vedere come avresti
perso. Il vero carattere di un uomo si
vede nella sconfitta, non nella vittoria.”
Cominciò
così l'allenamento di Democrito. Quotidianamente si
esercitava nei
pugni e nei calci contro sacchi costituiti da pelli di animale di
volta in volta riempite di semi di fico, cereali o sabbia; apprendeva
le diverse tecniche di combattimento e contemporaneamente irrobustiva
il corpo, se mai ce ne fosse stato bisogno, con corse, ginnastica e
una speciale dieta a base di carne.
Era
Andromaco in persona che curava la sua preparazione. Non lo dava a
vedere, naturalmente, per evitare che il ragazzo divenisse superbo,
ma era decisamente soddisfatto di lui. Egli infatti apprendeva con
rapidità e non si risparmiava nei combattimenti. Tutto
quello che
gli mancava in quanto a prestanza fisica – nonostante i
lunghi mesi
di allenamento era rimasto relativamente snello e leggero per essere
un pancratista – era compensato da agilità,
rapidità d'azione e
colpo d'occhio.
Anche
gli altri atleti erano soddisfatti di lui. Democrito cominciava
già
a vincere qualche incontro contro i meno forti e Melesia in persona
ormai doveva faticare per metterlo a terra.
Se
prima lo chiamavano scherzosamente Agnello per la
mitezza dei
suoi colpi, col passare del tempo il suo soprannome si era mutato in
Serpente per la
velocità letale dei suoi attacchi.
“Credo
che imparerà bene,” osservò Andromaco.
Stava seguendo un incontro
tra Democrito e Crisippo, un massiccio atleta celebre per il pugno
poderoso, che però in quel frangente faticava a colpire il
troppo
rapido avversario.
“Cosa
non si farebbe per strappare un cenno d'approvazione a colui che si
ama,” replicò Melesia al suo fianco, senza
staccare gli occhi dai
due.
“Che
intendi dire?”
“Lo
sai.”
Andromaco
non rispose. Si diresse invece a grandi passi verso i contendenti,
che frattanto erano passati alla lotta a terra, e rivolto a Democrito
esclamò: “Stringi quella presa! Pensi forse di
essere appartato
col tuo amante? Hai per caso intenzione di abbracciare
Crisippo? Lo devi strangolare, perché se non lo fai
sarà lui a
strangolare te!”
Gli
sferrò una scudisciata sul dorso. Melesia notò
l'insolito vigore
del colpo.
“La
correzione è fondamentale,” brontolò
Andromaco tornando accanto
all'amico. “Se certi difetti non vengono eliminati per tempo,
dopo
diventa difficile toglierli.”
“Io
non ho detto niente.”
“Perché,
cosa avresti dovuto dire?”
“Niente,
niente. Però da che ti conosco non ti sei mai giustificato
una sola
volta per aver dato una sferzata a un allievo.”
“Non
mi stavo giustificando...” cominciò Andromaco
irritato, ma lo
sguardo ironico di Melesia lo convinse a lasciar perdere.
Trascorse
qualche istante di silenzio, rotto solo dal lieve tramestio dei
lottatori nell'arena, poi, come parlando a se stesso, Andromaco
disse: “Deve essere lui a chiedermelo, è la
regola.”
Polinice
sorrise allegro. “Finalmente ti si rivede, Democrito! Ormai
passi
tutto il tuo tempo nella palestra del pancrazio. Alcandro è
triste,
senza di te non sa più chi ingiuriare!”
“Può
sempre ingiuriare te, non gli mancherebbero certo i motivi!”
“Ma
senti questo! Non è che il pancrazio ti ha dato alla testa e
credi
di essere diventato finalmente un guerriero?”
I
due
amici si abbracciarono ridendo.
In
effetti Polinice aveva ragione. Da quando era entrato a far parte del
gruppo dei pancratisti, Democrito trascorreva in palestra tutto il
tempo che le esercitazioni militari gli lasciavano libero, per cui
ormai era raro vederlo in giro senza fare niente come un tempo
accadeva.
“E
come va con Andromaco?”
Alla
domanda seguì un lungo silenzio.
“Ma
come, vuoi dire che non gliel'hai ancora chiesto?”
“No,
io... non me la sento.”
“Non
te la senti?” Polinice era incredulo. “Ma se
proprio tu smaniavi
all’idea di diventare suo amante! Cosa aspetti, che arrivi
qualcuno
che abbia più coraggio di te e si faccia avanti portandotelo
via?”
Con
espressione cupa, Democrito rispose: “Morirei di vergogna,
penserebbero che gli chiedo di diventare suo amante perché
spero che
mi favorisca nella palestra di pancrazio.”
“Per
i Dioscuri, questa è la cosa più stupida che
abbia mai sentito. Non
credo proprio che Andromaco ti favorirebbe se tu diventassi suo
amante, perché saprebbe benissimo che così
facendo ti renderebbe
molle e fiacco. Sarebbe dieci volte più severo, anzi, ma per
il tuo
bene. Per aiutarti a diventare migliore.”
“Non
lo so,” disse l'altro meditabondo, ma non si riferiva alle
parole
dell'amico. La sua era piuttosto una considerazione legata a pensieri
che da tempo lo tormentavano.
Non
riusciva ad immaginare un uomo migliore di Andromaco. Egli sapeva
essere al tempo stesso gentile e inflessibile, austero e generoso, e
con l’esempio virtuoso, più che con il mero
esercizio
dell’autorità, otteneva dai suoi uomini disciplina
e dedizione al
massimo grado. In tutta Sparta inoltre non c’era nessuno che
nel
combattere fosse coraggioso o abile quanto lui.
Era
stimato e rispettato senza riserve persino dagli anziani, che pure
normalmente avevano qualcosa da ridire su ognuno degli Spartiati.
Paradossalmente,
invece di acquisire familiarità con lui, più lo
frequentava più
provava soggezione nei suoi confronti. Se quando lo spiava di
nascosto aveva anche preso in considerazione
l’eventualità di
diventare suo amante, ora la stessa cosa gli pareva un orribile atto
di presunzione.
“Per
me gli piaci,” ripeté per l'ennesima volta
Polinice, “sarebbe
contento se tu glielo chiedessi.”
Immerso
nei suoi pensieri, Democrito non disse nulla.
Andromaco
sedeva con i suoi compagni intorno alla mensa. Si erano già
concessi
il frugale pasto che spettava a tutti gli Spartiati e ora
conversavano godendosi una coppa di vino.
“Ebbene,
come procedono gli allenamenti?”
s’informò Deucalione, che
sedeva alla sua destra “Pensi che manderemo molti lottatori
ai
Giochi Olimpici? Nearco è assai soddisfatto dei suoi
corridori, e si
dice che questa volta non ci sarà gara a cui la
città non manderà
almeno un atleta.”
“Se
questo sarà il volere di Zeus,” rispose
l’altro sobriamente dopo
una pausa meditativa. “Comunque, per rispondere alla tua
domanda,”
riprese poi, notando che l’argomento aveva risvegliato
l’interesse
di tutti i commensali, “anch’io sono soddisfatto
degli atleti che
si allenano nel pancrazio.”
“Come
si comporta il figlio di Agatarco?” intervenne un altro.
“Intendi
Democrito?”
“Non
altri. Come sta andando?”
Andromaco
represse l’impulso di chiedere bruscamente al suo
interlocutore
perché fosse così interessato al ragazzo.
“Bene,” rispose
laconico.
“Solo
bene? Si dice che lo chiamino Serpente per la
rapidità letale
con cui attacca!”
Ridendo,
Deucalione spiegò: “Non farci caso, sembra che il
giovane Serpente
sia veloce in tutto tranne che nel dichiarare il suo amore!”
“Un
vero peccato, è un ragazzo così bello e
coraggioso…”
“Ma
non si fa avanti.”
“Insomma,
basta!” sbottò Andromaco, scatenando nei compagni
un accesso di
ilarità.
La
palestra era ormai quasi deserta. Stava calando la sera e la maggior
parte degli atleti aveva già abbandonato il luogo per
recarsi alle
mense comuni.
In
concentrata solitudine, Andromaco si stava allenando. Non contento
dei sacchi presenti, a suo parere troppo molli e cedevoli, ne aveva
fatto fare uno speciale pieno di sabbia grossa di fiume,
così duro e
pesante che se lo colpivano gli atleti con le mani non ancora
indurite si trovavano le nocche sanguinanti.
Non
mancava molto ai Giochi Olimpici. L'araldo che li annunciava in tutte
le città dell'Ellade non era ancora giunto a Sparta, ma
presto gli
anziani avrebbero proclamato il nome di coloro ai quali sarebbe
toccato l’onore di prendervi parte.
Sferrò
un pugno poderoso. La fitta di dolore gli arrivò fino alla
spalla,
ma il sacco si spostò bruscamente, con un gemito delle corde
che lo
sostenevano.
Col
secondo pugno lo intercettò nell’oscillazione di
ritorno e di
nuovo lo spostò.
Se
si
fosse trattato di un uomo, a quel punto sarebbe stato come minimo
piegato in due ad annaspare in cerca di aria.
Colpì
di nuovo, ancora e ancora, in un silenzio concentrato e cupo.
Non
poteva rischiare di essere escluso dalla lista dei prescelti. Come
avrebbe potuto guardare in faccia Democrito se mai gli fosse capitata
una vergogna del genere?
“Ah,
ma sei qui. Ti ho cercato dappertutto!”
Andromaco
si voltò bruscamente, alle sue spalle era comparso
Democrito. Era
talmente concentrato nei suoi pensieri che non l’aveva
sentito
arrivare.
“Scusami,
non volevo disturbarti,” mormorò il ragazzo
cogliendo uno sguardo
torvo, reso ancora più cupo dalla penombra che ormai aveva
invaso la
sala.
“Fa
niente,” rispose Andromaco, “tanto ormai avevo
quasi finito.”
Si massaggiò le nocche arrossate.
I
suoi
muscoli poderosi erano lucidi di sudore.
“Ho
saputo che hai battuto Melesia,” buttò
lì dopo una pausa.
“Ho
avuto fortuna.”
“La
fortuna non c’entra niente,” fu
l’asciutta replica, “sei
stato abile.”
Democrito
non rispose. Era vero che aveva battuto Melesia. Ormai era diventato
così forte, agile e veloce che la maggior parte dei
pancratisti
faceva fatica a misurarsi con lui.
Andromaco
lo fissò negli occhi. “Combatti con me,”
disse.
“Qui,
adesso?” chiese il ragazzo turbato.
“Qui.
Adesso.” Senza aggiungere altro si diresse verso
l’arena.
Democrito
lo raggiunse in silenzio. Nei lunghi mesi di allenamento non aveva
mai combattuto contro Andromaco.
Si
era
misurato con Melesia, Crisippo, Cleandro, Emone e tutti gli altri,
per parecchio tempo le aveva prese e poi, com’era nella
natura
delle cose, aveva cominciato anche a darle, ma sempre Andromaco era
stato una presenza attenta e severa alle sue spalle, che lo valutava
e lo correggeva.
Trovarselo
ora di fronte come avversario gli suscitava due ordini sentimenti
contrastanti, entrambi spaventosamente intensi: onore e gioia da una
parte, timore di sfigurare e di attirare su di sé la
vergogna
dall’altra.
In
un
silenzio solenne raggiunsero l’arena e si misero in guardia.
Un
secondo di immobilità sospesa e si lanciarono con forza
terribile
l’uno contro l’altro.
La
lotta si accese subito furiosa e procedette con alterne vicende: i
pugni di Andromaco erano ovviamente più potenti, ma grazie
all’agilità di Democrito non sempre andavano a
segno. Il ragazzo,
per contro, era molto abile negli sgambetti e nelle leve articolari e
più volte l’altro si trovò a dover fare
affidamento solo sulla
sua eccezionale forza fisica per districarsi da qualche presa
particolarmente infida.
Entrambi
combattevano con foga, al massimo delle loro capacità. Mai
al mondo
infatti avrebbero voluto disonorare l’avversario
facilitandogli di
proposito la vittoria.
Alla
fine com’era prevedibile prevalsero la forza e la maggiore
esperienza di Andromaco.
Preso
dall’ebbrezza del combattimento, Democrito gli si fece troppo
sotto
e per tentare una leva articolare abbassò la guardia.
L’altro
lo colpì dall’alto con un pugno a martello sulla
nuca.
Il
colpo fu brutale e sferrato senza riguardi. L’uomo ebbe
giusto
l’accortezza di accompagnare il ragazzo nella sua caduta al
suolo e
di non colpirlo una volta a terra, cosa che invece in
un’eventuale
gara olimpica si sarebbe senz’altro verificata.
Successivamente
si chinò accanto a lui. Constatato che non aveva danni
gravi, si
sedette tranquillamente in attesa che si riprendesse.
“Mi
hai fatto sudare,” gli confidò quando si accorse
che si stava
muovendo per mettersi seduto. “Sapevo che eri migliorato, ma
non
pensavo fossi diventato un avversario così
impegnativo.”
Ormai
nella palestra era quasi buio e Andromaco aveva l’impressione
di
parlare alle ombre che lo circondavano, più che a Democrito.
Gli
giunse la voce del ragazzo, un sussurro lieve che gli fece correre un
brivido di desiderio lungo la schiena: “Ho fatto del mio
meglio,
non volevo che tu fossi scontento di me.”
Di
nuovo silenzio. Frattanto la luna era sorta e la sua luce lattescente
si riversava in pallide macchie sulla sabbia calpestata
dell’arena.
Fianco
a fianco, i due sedevano immobili come statue.
Nonostante
l’apparente calma, Democrito era profondamente turbato. Il
cuore
gli batteva all’impazzata e le sue membra tese fremevano come
quelle di un animale selvatico che percepisce l’approssimarsi
del
cacciatore.
Deglutì
a fatica, scrutando nel buio fino a riconoscere accanto a sé
la
figura massiccia di Andromaco, appena disegnata dall’argentea
luminescenza contro cui si stagliava.
Ripensò
alle parole di Polinice. Solo loro due, al buio, dopo un
combattimento nel quale non si erano risparmiati per onorarsi l'un
l'altro. Quello era il momento ideale, non gli sarebbe capitata mai
più un'occasione così propizia.
Si
voltò verso Andromaco. Il suo cuore ora batteva talmente
forte da
dargli l'impressione di voler balzare fuori dal petto.
L'altro
si voltò quasi all'unisono, Democrito percepì che
nel buio lo stava
fissando. Gli sembrava quasi di sentire il suo sguardo come un tocco
bruciante sulla pelle.
“È
come nella lotta,” gli giunse la sua voce, “io
posso insegnarti
quello che ancora non sai, ma non posso infonderti il coraggio se non
lo possiedi.”
“Io
lo possiedo,” mormorò il ragazzo, con una voce
sommessa nella
quale si indovinava però una volontà incrollabile.
“Dimostramelo.”
Democrito
deglutì di nuovo. Era il momento della verità.
Ora era necessario
dar prova di compostezza, dignità e dominio sull'istinto.
Quelle
erano le caratteristiche che un vero Spartiate doveva manifestare in
tutte le occasioni, soprattutto se spaventose o terribili come quella
che a breve si sarebbe trovato ad affrontare.
Si
morse appena un labbro con fare nervoso, quindi cercando di mantenere
ferma la voce disse: “Io ti chiedo di accettarmi come amante,
se me
ne ritieni degno.”
A
quelle parole seguì un silenzio che a Democrito parve
lunghissimo.
Mi
manderà via, riderà di me,
pensò fugacemente quasi pentendosi
di aver parlato.
E
poi
sentì la presa forte di Andromaco sulle spalle, e si
sentì
rovesciare all’indietro, sulla sabbia dell’arena.
Il
sodalizio che si stabilì quella notte ricevette grande
consenso e
divenne in breve pietra di paragone per tutti gli altri.
Andromaco
s’era fatto padre, precettore e giudice a un tempo, vigilava
costantemente sulla condotta del ragazzo, stimolando con la dottrina
e con l’esempio le sue qualità morali.
Né sarebbe potuto esistere
un censore più inflessibile di ogni comportamento che non
fosse
improntato alla virtù e alla nobiltà
d’animo più integre e pure.
Come
aveva previsto Polinice, inoltre, Andromaco, già
inflessibile, era
diventato ancora più rigoroso e severo negli allenamenti.
Lungi
dall’essere compianto, Democrito era guardato con invidia dai
coetanei. Essi infatti lo vedevano migliorare di giorno in giorno,
come una pianta giovane e vigorosa che sotto le cure di un esperto
giardiniere fruttifica mostrando tutto il suo rigoglio.
Agli
altri uomini gli anziani citavano la condotta di Andromaco come
esempio.
I
due
erano felici. Il ragazzo spinto dal desiderio di apparire sempre
migliore agli occhi dell’amato, questi animato dal nobile
intento
di fare di lui il più degno degli Spartiati,
s’innalzavano sempre
di più, e al pari degli dei immortali avevano
l’impressione di
vedere tutto dall’alto, circonfusi d’una luce
d’inimmaginabile
nitore.
Giunse
infine l’araldo che annunciava i Giochi Olimpici.
Tutti
gli atleti che si erano duramente allenati in attesa del momento
fatidico furono colti da grande emozione. A breve infatti gli anziani
avrebbero deciso chi, fra tutti loro, avrebbe avuto l’onore
di
gareggiare in onore di Zeus.
Nella
palestra del pancrazio il clima era parimenti pervaso di gioiosa
aspettativa e i lottatori provavano la particolare ebbrezza che
coglie i giovani Spartiati nell’imminenza di una battaglia.
Gli
incontri divennero più frequenti e se possibile ancora
più duri.
Nessuno voleva rischiare di sfigurare paragonato agli altri e ognuno
sperava in cuor suo di essere il prescelto.
Abbandonando
l’arena dopo un combattimento particolarmente accanito,
Andromaco
rivolse un sorriso a Democrito. Il ragazzo era diventato davvero
bravo. Pur superandolo in altezza e prestanza, aveva fatto fatica a
batterlo.
“Sta
attento alle prese,” gli raccomandò,
“vedi bene che se un
avversario molto più forte di te riesce ad afferrarti tu fai
fatica
a liberarti.” Era così che aveva vinto
l’incontro.
“Sì,
certo.”
Si
sedettero lì vicino per riprendere fiato, proprio nel posto
dove
mesi prima si erano dichiarati il reciproco amore.
Andromaco
gli pose una mano sulla spalla. Aveva un carattere sobrio,
addirittura severo, e quello era un gesto d’affetto che
raramente
Democrito s’era visto rivolgere da lui al di fuori di
contesti
strettamente privati.
“Potremmo
andare alla fonte delle Driadi questa notte,” gli disse a
bassa
voce.
Si
trattava di una sorgente che scaturiva mormoreggiando da rocce
antiche e muscose. La radura in cui si trovava era ombreggiata da
querce secolari e ingentilita da piante d’ogni genere.
Era
il
luogo dove normalmente si incontravano quando volevano appartarsi
lontano da occhi indiscreti.
“Lo
vorrei tanto, Andromaco.”
“Anch’io.
Al calare delle tenebre abbandonerai la tua camerata e mi
raggiungerai là.”
“D'accordo,”
sussurrò il ragazzo.
“Bene.
Ora va a cercare Cleandro, è il più forte nelle
prese. E mandami
Melesia.”
La
notte Democrito fece quanto gli era stato ordinato.
Sebbene
tutti sapessero che lui e Andromaco erano amanti, era usanza che gli
incontri di un certo genere avessero sempre connotazioni di
segretezza, quindi persino Polinice fece finta di dormire quando vide
l’amico sgattaiolare fuori silenziosamente.
Il
ragazzo uscì senza farsi notare, e con la cautela appresa
nei lunghi
anni di addestramento si allontanò senza fare alcun rumore.
Andromaco
nel frattempo aveva già raggiunto la radura.
Il
luogo era deserto, gli unici suoni erano le voci degli animali
notturni che si chiamavano da una parte all'altra del bosco.
Lo
Spartiate li ascoltò attento, un'abitudine ormai radicata il
lui.
Spesso l'esito di un'imboscata o di un'azione notturna dipendeva da
quanta attenzione si poneva nel decifrare i segnali della natura.
Ciò
che stava sentendo, per esempio, gli parlava di pace, di
tranquillità. Non percepì suoni allarmati nemmeno
quando si udirono
i passi di Democrito in avvicinamento.
Il
ragazzo si muoveva cauto e pressoché silenzioso, solo un
orecchio
allenato come il suo era riuscito a cogliere l'impercettibile rumore
della sua camminata leggera, tuttavia si nascose in una macchia,
considerando che anche quell'incontro si sarebbe potuto trasformare
in un'occasione di apprendimento. Non ci si avvicina mai a
nulla, nemmeno al posto più familiare del mondo, senza
prendere le
necessarie precauzioni.
Lo
vide
arrivare da lontano. La luna era quasi piena e riversava su di lui
una luce fredda e austera, che lo faceva assomigliare a una perfetta
statua di marmo.
Avanzava
con un vago sorriso sulle labbra, il suo passo era leggero e il suo
atteggiamento quasi spensierato. Una cosa
davvero rara per uno
Spartiate, che anche nelle occasioni più dolci e piacevoli
aveva il
dovere di stare all'erta come se si trovasse in guerra.
Si
acquattò silenzioso. Quasi gli dispiaceva distruggere quella
tranquilla fiducia, ma lo riconfortò il pensiero che
così facendo
forse avrebbe salvato la vita in futuro al suo amato.
Quando
Democrito si fu avvicinato a sufficienza, con un subitaneo frusciare
di foglie gli balzò addosso e lo atterrò.
Il
ragazzo però ebbe una reazione imprevista: invece di
divincolarsi e
saltare su con l'agilità che lo contraddistingueva, si mosse
in modo
pesante e maldestro, lasciandosi sfuggire un gemito di dolore.
Andromaco
ne fu stupito. Da quando lo conosceva, non aveva mai sentito
Democrito emettere un lamento. “Che cos'hai?” gli
chiese, la voce
velata di una vaga apprensione.
“Scusami.
Devo essermi fatto male oggi combattendo contro Cleandro.”
“Dove?”
“Al
braccio sinistro.”
Subito
Andromaco glielo palpò con mani esperte. “Hai
fatto controllare da
Sinide che non sia rotto?”
“È
la prima cosa che ho fatto. Ha detto che l'osso è a
posto.”
“Siano
ringraziati gli dei. Devi fare degli impacchi e stare a riposo per
almeno sette giorni.”
Democrito
ebbe un sussulto. Sette giorni? Non poteva assolutamente perdere
sette giorni di allenamento, non nell'imminenza delle selezioni per i
Giochi Olimpici. In un sussurro preoccupato lo disse ad Andromaco.
“No,”
rispose l'altro categorico, “devi far risposare il braccio,
altrimenti è peggio.”
“Ma...”
“Non
discutere.”
Il
ragazzo sospirò senza dire nulla. Andromaco era
più grande di lui e
aveva più esperienza, era suo dovere obbedirgli.
Sospirò
appoggiandosi contro di lui.
“Sette
giorni,” ripeté l'altro, con tono al tempo stesso
ammonitore e
rassicurante.
Democrito
fu ligio alle prescrizioni per due giorni, ma al terzo il braccio gli
faceva decisamente meno male. O perlomeno lui se n'era
incrollabilmente convinto.
Non
posso perdere altri giorni di allenamento per un po' di dolore,
si era detto, ed era andato come sempre alla palestra. Se c'era una
cosa che nella sua vita di giovane Spartiate aveva imparato, del
resto, era proprio sopportare il dolore.
Aveva
preparato varie argomentazioni per affrontare
l'inflessibilità del
suo amante, ma si accorse con un certo sollievo che egli non c'era.
Andò
allora da Melesia e gli disse che era pronto per combattere.
Questi
lo scrutò dubbioso e replicò: “Ma non
ti eri fatto male due
giorni fa? Cosa ne pensa Andromaco?”
Un
secondo di esitazione. “Ha detto che va bene. Sono
già guarito.”
“Quand'è
così...” rispose l'altro con un'alzata di spalle.
Il
ragazzo distolse lo sguardo a disagio. Aveva appena mentito. Melesia
non sembrava essersene accorto, la cosa tuttavia non mitigava per
nulla il suo senso di colpa.
Mentire
era un'azione riprovevole, gli dei avevano in spregio chi mentiva.
Si
allontanò velocemente alla ricerca di un avversario.
Alla
fine della giornata di incontri il braccio gli doleva così
tanto che
faceva fatica a muoverlo.
“Sei
pronto?”
Polinice
aveva già la panoplia completa.
“Arrivo”
rispose Democrito. Il braccio sinistro gli faceva un male atroce,
quasi non riusciva a muoverlo.
Quando
giunsero al campo, Alcandro divise la Compagnia in due gruppi.
“Ricordate
i versi di Tirteo?” chiese ai giovani schierati sui due lati
della
grande spianata adibita alle esercitazioni in ordine chiuso.
Essi
obbedienti recitarono:
“Chi
si tiene unito al proprio commilitone e avanza assieme alla propria
linea,
durante
gli scontri ha meno probabilità di morire e copre quelli che
gli
stanno dietro.”
“Molto
bene!” approvò Alcandro, “Oggi vedremo
la loro applicazione
pratica. Il gruppo di destra, panoplia completa. Il gruppo di
sinistra, giavellotto.”
Democrito
soffocò un'imprecazione. Sapeva cosa sarebbe successo, non
era la
prima volta: mezza Compagnia avanzava armata di tutto punto, con gli
scudi ben alzati, e l'altra metà lanciava i giavellotti
contro gli
opliti in marcia.
I
giavellotti erano veri, ma se la formazione era ben serrata –
e
raramente accadeva che non lo fosse – il pericolo di farsi
male era
molto basso, dal momento che elmo, schinieri e scudo proteggevano
quasi completamente coloro che avanzavano.
L'esercizio
serviva a far capire ai giovani l'importanza di mantenere la
formazione quando avanzavano in battaglia.
Essendo
nel gruppo di destra, avrebbe dovuto avanzare in formazione, ma come
avrebbe fatto a reggere il pesante scudo di bronzo, se quasi non
riusciva a muovere il braccio sinistro per il dolore?
Ma
non
aveva tempo per indugiare in vane riflessioni, gli altri si stavano
già preparando.
Reprimendo
un gemito, imbracciò lo scudo. Forse avrebbe potuto chiedere
al
suo
comandante di essere esentato, ma così facendo avrebbe dato
una vergognosa dimostrazione di debolezza. Preferì stringere
i
denti.
Le
due
formazioni cominciarono ad avvicinarsi. I primi giavellotti –
lanciati quando non era ancora il momento giusto, senza dubbio
Alcandro si era già annotato i nomi dei tiratori frettolosi
–
oscillavano conficcati nell'erba.
Democrito
avanzava a denti stretti tenendo il passo coi compagni.
Ringraziò di
avere l'elmo, perché lacrime di dolore gli stavano rigando
le
guance.
Giunse
sibilando una nuova salva di proietti.
Tutti
alzarono gli scudi. Democrito tentò di fare lo stesso, ma il
braccio
infine cedette e il pesante disco di bronzo cadde a terra con un
funesto rimbombo.
In
quello stesso istante Polinice, che marciava alla sua sinistra,
crollò a terra con la spalla trapassata.
Vedendo
cadere l'amico, istintivamente Democrito si chinò si di lui.
Così
facendo ruppe la formazione, coloro che si trovavano alle sue spalle
inciamparono sul suo corpo e non pochi rischiarono di essere a loro
volta trafitti dai giavellotti che nel frattempo stavano continuando
ad arrivare.
“Fermi
tutti!” ruggì Alcandro, incredulo e furioso di
fronte all'inaudito
spettacolo cui aveva appena assistito.
Mentre
un paio di ragazzi portavano via Polinice svenuto e sanguinante, il
comandante di Compagnia raggiunse a grandi passi Democrito.
Questi
si raddrizzò e si tolse con deferenza l'elmo.
“Per
tutti gli dei!” sbraitò Alcandro, “E tu
cosa saresti, un soldato
spartano o una balia della Tessaglia?”
Lo
colpì in pieno viso con la sferza.
Subito
dopo gli rovesciò addosso un torrente di ingiurie,
tacciandolo di
ogni nefandezza e accusandolo fra le altre cose di avere disonorato
con la sua condotta se stesso, suo padre e tutta la Compagnia.
Dritto
in piedi, il sangue che gli colava lungo la guancia, il ragazzo non
aprì bocca. Lasciar cadere lo scudo era forse la mancanza
più grave
che un oplita potesse commettere. Significava privare della
protezione il compagno di sinistra e quelli che si trovavano dietro,
significava distruggere la formazione.
Un
oplita non doveva mai lasciar
cadere lo scudo.
Giunse
infine, dopo la caterva di meritate invettive, la fatidica domanda:
“Chi è il tuo amante?”
Essendo
l'amante di un ragazzo colui che aveva il compito di occuparsi fra le
altre cose della sua crescita etica e morale, era facile che per
mancanze particolarmente gravi egli fosse ritenuto responsabile
quanto e a volte più del suo protetto.
L'accaduto
fu discusso con la massima serietà. La cosa non si limitava
infatti
ad un errore, seppure estremamente grave, commesso nel corso di
un'esercitazione.
C'era
ben di peggio: Democrito aveva disobbedito ad ordini espliciti e
aveva mentito. Così facendo aveva poi creato i presupposti
per
quello che era accaduto.
Era
una
cosa di gravità inaudita e gli anziani non mancarono di
farlo notare
ad Andromaco, chiamato a rispondere del comportamento del ragazzo.
Se
Democrito aveva agito in quel modo, dissero, la colpa era sua. Lui
evidentemente non era stato in grado di trasmettere al giovane valori
fondamentali come la lealtà e l'onore.
Fu
condannato a ricevere cento sferzate sull'altare di Artemide Ortia.
Era una punizione insolitamente severa, ma proprio laddove maggiore
è
la virtù, più odioso e degno del massimo rigore
appare il vizio
allorquando si manifesta.
Democrito
soffrì orribilmente. Per Polinice, in primo luogo, che anche
se non
era in pericolo di vita era comunque ferito e dolorante per colpa
sua, e naturalmente per Andromaco.
Avrebbe
dato chissà cosa per essere al posto di entrambi.
Il
dolore fisico sarebbe stato una catarsi quasi augurabile dopo quello
che era successo.
Per
un
po' non si era allenato. Era stato lontano dalla palestra del
pancrazio, certo che gli altri non volessero avere niente a che fare
con lui. Immaginava che se si fosse presentato l'avrebbero scacciato,
non giudicandolo degno di misurarsi con loro.
Poi
il
senso del dovere era prevalso ed egli era tornato, mesto e pieno di
vergogna, a cercare Melesia per riprendere gli incontri.
Questi
lo accolse con atteggiamento non dissimile dal solito. Lo
invitò a
prepararsi e a scegliersi un avversario, quindi tornò a
dedicarsi
alle sue occupazioni.
Mentre
diligentemente si cospargeva d'olio, Democrito si accorse che
Andromaco si stava dirigendo verso di lui.
Ebbe
per un attimo l'impulso di girarsi e scappare, ma giudicando tale
proposito indegno d'uno Spartiate rimase ad attenderlo in silenzio.
Egli
si
avvicinò fermandosi a pochi passi da lui. “Ti
aspettavo,” disse.
“Non
volevo venire,” mormorò Democrito.
“Perché?”
Il
ragazzo chinò il capo. “Lo sai.”
“No.
Non lo so. Perché non volevi venire?”
Il
ragazzo deglutì. “Provavo vergogna.”
A
quelle parole seguì un lungo silenzio. Infine, Andromaco
disse: “La
vergogna è utile perché ci fa capire che abbiamo
commesso degli
errori e ci spinge a migliorarci. Se però tu a causa della
vergogna
fuggi e ti nascondi, come potrai migliorarti?”
Democrito
distolse lo sguardo. “Hai ragione,” disse in un
soffio, gli occhi
rivolti a terra.
“Hai
due scelte,” gli giunse allora la voce di Andromaco,
“o impari
dai tuoi errori e ti impegni a non ripeterli in futuro, o ti lasci
sopraffare da essi. Se decidi per la seconda opzione puoi anche
andartene adesso, non c'è posto per te qui.”
Il
ragazzo rialzò bruscamente la testa, colpito dalla durezza
inflessibile che percepiva nella voce di Andromaco.
“È
così. Per quanto io ti ami e voglia vederti diventare sempre
migliore, non ho nulla da dire a una persona che passa il tempo a
compiangersi. Pensi forse che in battaglia il nemico ti consenta di
indulgere in simili debolezze?”
“No,
non lo penso,” rispose il ragazzo dopo un silenzio greve.
“Ora
ti lascio solo,” concluse Andromaco, “se vuoi
combattere, finisci
di cospargerti d'olio e vieni di là. Se hai deciso di
fuggire,
conosci la via per tornare da dove sei venuto.”
Democrito
lo guardò allontanarsi. L'ampia schiena del suo amante
portava
ancora i segni dei colpi di frusta.
L'aveva
visto sopportare le sferzate con inflessibile nobiltà, di
certo
anche e soprattutto per dare un esempio a lui.
Sapeva
che se avesse deciso di rinunciare a combattere l'avrebbe
profondamente deluso.
Sarebbe
apparso ai suoi occhi come un individuo meschino, debole, concentrato
su se stesso, vile.
Non
avrebbe potuto vivere con la consapevolezza di aver dato
quell'immagine di sé a colui che sopra ogni altro amava e
ammirava.
Finì
di cospargersi d'olio.
Gli
dei
furono evidentemente compiaciuti della sua decisione, perché
quando
pochi giorni dopo un messo annunciò finalmente i nomi degli
atleti
che avrebbero preso parte ai Giochi Olimpici, egli apprese che per la
specialità del pancrazio erano stati scelti lui e Andromaco.
Accolse
la notizia con sentimenti contrastanti. Di certo il suo amante
meritava in pieno quell'onore, ma lui?
Aveva
commesso azioni riprovevoli, che peraltro non era stato nemmeno lui
ad espiare.
Per
quanto i rapporti tra loro fossero tornati come prima di quel
malaugurato incidente – o non fossero mai cambiati, come si
ostinava a ripetere Andromaco – Democrito sentiva che
qualcosa
s'era incrinato.
Ogni
ferita profonda del resto lascia una cicatrice.
Faceva
fatica ad essere spontaneo con lui, non riusciva a liberarsi
dell'idea di averlo deluso. Era tornato come ai primi tempi, quando
aveva ritegno anche a rivolgergli la parola.
Fu
Andromaco che lo avvicinò. Un giorno alla fine degli
allenamenti lo
chiamò a sé e gli fece cenno di seguirlo.
Uscirono
dalla palestra attraverso la porta che dava sulle piste per la corsa.
Il sole stava scomparendo dietro l'orizzonte in un cielo terso come
cristallo. L'aria tiepida della tarda primavera recava il profumo del
mirto e del lauro e i cipressi severi si stagliavano in lontananza
come lance appuntite.
Andromaco
lasciò vagare lo sguardo. Inspirò come per
assorbire la bellezza e
la serenità che promanavano da quella visione incantata,
quindi si
voltò verso Democrito con occhi che la luce dorata rendeva
chiarissimi e trasparenti. “Vieni con me alla fonte delle
driadi
stanotte,” gli disse piano. “Sarà
l'ultima volta che potremo
farlo, almeno fino a che non saranno conclusi i Giochi.”
Gli
sfiorò appena la guancia con le dita. Un gesto esitante,
insolitamente impacciato.
L'altro
levò lo sguardo su di lui. “Davvero vuoi che
andiamo alla fonte?”
gli chiese con voce sommessa.
Andromaco
annuì con un gesto che aveva quasi un'aura di
solennità.
I
due
si abbracciarono. Erano soli contro la parete inondata di sole,
nessuno a parte gli dei immortali avrebbe potuto vederli.
Avvinti
l'uno all'altro, nudi, la polvere chiara dell'arena ancora addosso,
essi si scambiarono un lungo bacio, dolce preludio a quello che
sarebbe seguito solo poche ore dopo.
Olimpia
lasciò i due stupefatti.
Faone,
un corridore che aveva disputato i Giochi già una volta, li
aveva
avvertiti che avrebbero visto molte cose nuove e strane, ma la
città
gremita di pellegrini, gli indovini, i vagabondi, i saltimbanchi, i
suonatori ambulanti, i venditori che esponevano merci mai viste e la
generale atmosfera festosa e colorata resero Andromaco e Democrito
ombrosi come cavalli selvaggi.
“Come
faremo a stare qui per un mese intero?” protestò
il più giovane,
fissando truce un uomo gli aveva appena rivolto un apprezzamento
volgare. La tradizione voleva che una volta proclamata la Tregua
Sacra gli atleti giungessero ad Olimpia e si allenassero come minimo
un mese nel ginnasio della città.
Andromaco
si guardò intorno con l'aria di una belva capitata in mezzo
a un
gruppo di cacciatori.
“Lasciali
perdere,” gli suggerì Faone.
Democrito
fissò nervoso l'amante, cercando di adattare il proprio
contegno al
suo. Aveva affrontato più volte compagini nemiche, ma era
stato
paradossalmente più semplice. In quelle occasioni perlomeno
aveva
saputo cosa fare e come comportarsi.
Lì
invece? Gente che vociava, che si metteva tra i piedi, che spingeva,
che lanciava apprezzamenti. Carretti, animali da soma che ragliavano.
Uomini, vecchi, bambini, donne senza vergogna, con abiti dai colori
sgargianti e la faccia pitturata. Tutti che facevano chiasso e si
muovevano come le api in un alveare.
Esattamente
il contrario della compostezza e dell'austerità che
regnavano a
Sparta.
Si
rifugiarono nel ginnasio frastornati e torvi, con la ferma intenzione
di non mettere più piede fuori di lì se non per
disputare i Giochi.
Quello
infatti era un posto che si avvicinava di più a
ciò che già
conoscevano: c'erano grandi palestre, piste per la corsa, terme e
anche un dormitorio. Il tutto era inserito nell'Altis, il
Recinto Sacro, un luogo appartato e tranquillo dove gli atleti non
potevano essere disturbati dai clamori della città festante.
Nei
giorni successivi i due impararono comunque a destreggiarsi
nell'apparente disordine della città sacra. La confusione,
che
all'inizio era parsa loro spaventosa, si trasformò
lentamente in una
specie di caos
ordinato, nel quale
nonostante tutto era
possibile riconoscere un metodo.
Appresero
i nomi di molte merci che a Sparta non avevano mai visto e scoprirono
con stupore che le donne dalle vesti sgargianti elargivano i loro
favori a pagamento.
“Qui
gli uomini pagano per avere figli?” aveva chiesto Democrito,
stupito nell'apprendere l'insolita notizia.
Visitarono
anche il tempio di Zeus Olimpico, dove ammirarono la magnifica statua
del dio realizzata da Fidia, e il tempio di Era, nel quale venivano
custodite le corone di fronde d'ulivo che avrebbero adornato la
fronte dei vincitori.
Nel
frattempo si allenavano.
Avevano
conosciuto quelli che sarebbero stati i loro avversari, atleti molto
forti perlopiù, e ne discutevano ogni sera fra loro finito
l'allenamento, cercando di capire quali fossero i punti deboli e
quelli forti di ognuno.
Il
più
temibile fra essi era senz'altro Nicagora di Mileto. Era questi un
uomo dalla corporatura poderosa, addirittura più alto e
più
muscoloso di Andromaco, ed era noto in tutta l'Ellade per non aver
mai perso un incontro.
Si
diceva che le sue prese stritolassero le membra come morse e che i
suoi pugni fossero violenti come colpi di maglio.
Tutti
lo chiamavano Atlante, perché vederlo corrucciato, coi
capelli e la
barba arruffati, mentre si piegava in avanti per mettersi in guardia
evocava l'immagine del Titano nell'atto di sorreggere la volta
celeste.
“Hai
paura?”
Democrito
fissò l’amante stupito dall’insolita
domanda. A Sparta era una
vergogna avere paura. E una vergogna ancora più grande era
ammettere
di averla.
Forse
me lo chiede perché mi reputa un vile,
pensò con una stretta al
cuore. Quell'idea non fece che confermare il suo sospetto di essere
scaduto nella stima di Andromaco.
“No,
non ho paura,” rispose comunque, e scrutò il viso
dell’altro col
timore di trovare nella sua espressione una conferma ai dubbi che lo
tormentavano.
Mancavano
pochi giorni alle gare di lotta. C’era già stata
la grande
cerimonia di apertura dei Giochi – un turbine frastornante di
colori e suoni, la vertigine dello Stadio gremito, il fumo odoroso di
resina dei sacrifici, la luce abbagliante del sole estivo che
obbligava a stringere gli occhi – e le gare di corsa erano
già
state disputate.
I
due
sedevano uno accanto all’altro su una panca ombreggiata dalle
fronde di una quercia, albero sacro a Zeus.
Era
il
termine di una giornata di duri allenamenti e presto sarebbero andati
a riposare.
Democrito
si appoggiò con un sospiro contro l’amante,
sentì il suo braccio
circondargli le spalle. Presto avrebbe dovuto dimostrargli il proprio
valore e il proprio coraggio. Era poi così vero che non
aveva paura?
Paura
di sfigurare ai suoi occhi?
“Non
lo so,” disse, rispondendo a voce alta ai propri pensieri.
Rimasero
in silenzio, il sole calante ammantava d’oro ogni cosa,
ovunque
regnava una quiete sospesa.
Una
civetta mandò il suo richiamo acuto.
“Sai
che è stata la dea Atena ad insegnare il pancrazio agli
uomini?”
disse Andromaco, prendendo spunto dal verso dell’uccello
sacro alla
Glaucopide.
“Davvero?”
“Sì,
infatti il pancrazio è tecnica e strategia, non violenza
bruta.
Tienilo a mente quando sarà il momento.”
“Lo
farò.”
Di
nuovo silenzio, a parte un lontano frinire di grilli. L’oro
del
tramonto si andava stemperando in una penombra densa di profumi.
Democrito
alzò gli occhi a fissare l’amante.
Seguì con lo sguardo il suo
profilo austero, la familiare linea chiara della cicatrice che aveva
sul collo, il lento, quasi solenne muoversi del petto negli atti del
respiro.
“Dormi
con me stanotte,” mormorò.
Lo
baciò piano, sfiorandogli appena i capelli con le labbra.
Ma
Andromaco ritirò il braccio che gli aveva posto intorno alle
spalle.
Si raddrizzò indurendo i lineamenti. “Sai bene che
non è
possibile,” rispose, “siamo qui per disputare una
gara, non
possiamo disperdere le nostre energie.”
Era
prescritto che in vista di una competizione gli atleti si astenessero
rigorosamente da ogni contatto sessuale.
Il
ragazzo chinò il capo temendo di aver dimostrato ancora una
volta la
sua debolezza ad Andromaco.
“Scusami,”
disse in fretta, e corse via.
Il
mattino dopo si svegliò profondamente inquieto.
Quella
notte aveva fatto un sogno: La sua
corazza era sporca. Provava a
ripulirla per farla tornare lucida e brillante, ma nulla sembrava in
grado di rimuovere la macchia, che anzi ad ogni tentativo si faceva
sempre più grande e orribile a vedersi, nera e densa come
pece.
Ricordava
ancora l’angoscia che l’aveva pervaso al pensiero
di non essere
in grado di riportare la sua panoplia allo splendore originario. Una
sensazione spaventosa, come di rovina incombente. Nel sogno sapeva
che se non fosse riuscito a ripulire la sua armatura anche quella di
Andromaco, che normalmente marciava accanto a lui, si sarebbe coperta
delle stesse orribili macchie.
Infine
calava dal cielo un’aquila che profondamente lo feriva col
rostro
adunco. Il sangue sgorgava copioso, e non appena toccava la corazza,
ecco che le macchie scomparivano ed essa tornava bella e lucente come
prima.
E
lì
aveva provato sollievo, felicità, appagamento. Ma anche una
strana e
dolorosa sensazione di malinconia. Un’amarezza struggente
alla
quale non era riuscito a dare una spiegazione.
Ne
fu
turbato. Aveva sentito dire che spesso nel Recinto Sacro i sogni sono
ispirati dal dio, quindi andò alla ricerca di un sacerdote
che
potesse interpretarlo.
Ne
incontrò uno che si chiamava Menandro, un vecchio venerabile
dalle
vesti candide e dalla barba lunga fino al petto.
Questi
ascoltò attentamente il sogno e dopo lunga ponderazione
proferì:
“Tu hai perduto l’onore e temi che anche il tuo
amante l’abbia
perduto a causa tua. Il padre Zeus ti manderà una prova. Nel
superarla ritroverai l’onore ma perderai la vita.”
“Così
sia.” disse Democrito dopo un lungo silenzio.
Il
giorno delle gare di lotta lo stadio era un tripudio di grida e
colori sotto un cielo di purissimo smalto. Cosparsi d’olio, i
corpi
nudi degli atleti brillavano al sole come metallo.
Nonostante
la folla vociante, la confusione e la tensione per la gara, Democrito
non ricordava d'essere mai stato così sereno.
Gli
altri Greci si stupivano che gli Spartani andassero in guerra
cantando, ma in quel frangente anche lui avrebbe cantato, se solo
avesse potuto.
Guardò
Andromaco. Alto, magnifico, la statua di un eroe. Anche lui aveva
un'espressione tranquilla e sicura. Gli sorrise e lui gli
restituì
il sorriso.
Poi
cominciarono gli incontri.
I
primi
furono facili. Erano solo eliminatorie e nessun atleta impegnava
tutto se stesso nel combattimento, perché ognuno serbava le
energie
per gli incontri più importanti.
La
folla nondimeno incitava fervidamente i suoi beniamini e i severi
giudici sorvegliavano con la massima attenzione le coppie intente a
battersi per evitare che i contendenti usassero colpi proibiti.
Infine
rimasero in otto: i due Spartani, Nicagora da Mileto, Polifrone e
Melanippo da Tebe, Demarato da Delfi, Liside da Chio ed Eteocle da
Atene.
I
lottatori si lanciarono occhiate consapevoli, ora si cominciava a
fare sul serio. Finiti gli scontri per così dire amichevoli,
era
giunto per gli atleti il momento di cercare la vittoria ad ogni
costo.
Nell'Heraion
c'era la già corona di ulivo che avrebbe adornato il capo
del
vincitore, tutti l'avevano vista e tutti la bramavano, per se stessi
e per dare onore e lustro alla città che rappresentavano ai
Giochi.
Tutti
sapevano che avrebbero combattuto fino allo stremo per guadagnarla.
Solennemente
s'avanzò a questo punto il più anziano e
autorevole dei giudici.
Sugli spalti calò un silenzio consapevole e carico
d'aspettativa:
ora sarebbero state sorteggiate le nuove coppie di lottatori.
L'uomo
scelse accuratamente le tessere di terracotta con le lettere
dell'alfabeto e le mise in un'urna, quindi tutti pescarono.
Coloro
che estraevano la stessa lettera avrebbero combattuto insieme.
Andromaco
si trovò di fronte Eteocle l'Ateniese e Democrito Melanippo
da Tebe.
L'altro tebano ebbe la sventura di trovarsi di fronte Atlante.
Alle
semifinali arrivarono i due Spartani, Nicagora e Liside.
Fu
concesso agli atleti un po' di tempo per riposarsi prima degli ultimi
scontri.
Andromaco
e Democrito si sedettero un po' in disparte dopo aver bevuto un sorso
d'acqua. “Hai visto come combatte Nicagora?” chiese
il primo.
L'altro
annuì. Eccome se l'aveva visto. Sembrava Briareo dalle cento
braccia. Era pericolosamente veloce per essere così grosso,
e aveva
una forza smisurata. Aveva abbattuto Polifrone, che pure era un uomo
alto e robusto, scagliandolo lontano come una palla di stracci
vecchi.
“Se
dovesse capitarti di combattere con lui,” continuò
Andromaco,
“ricordati di usare la tua maggiore agilità. E
tieni conto che
scopre sempre la gola quando tira col sinistro.”
Avrebbe
voluto aggiungere altro, ma una fitta di dolore lo costrinse a
tacere.
“Cos'hai?”
gli chiese Democrito preoccupato.
“La
spalla. Per liberarmi da una presa di Eteocle devo essermi fatto
male.”
Cercava
di mostrarsi impassibile, ma l'amante lo vedeva stringere i denti con
gli occhi lucidi di dolore.
“Come
posso aiutarti?” gli chiese a bassa voce.
“Non
far capire agli altri che mi sono fatto male, altrimenti il mio
prossimo avversario approfitterà del vantaggio.”
“Ma
non puoi combattere in queste condizioni!”
“Non
ho scelta.”
Democrito
non rispose. Aveva visto lo sguardo del suo amante e aveva compreso
che nulla sarebbe stato in grado di tenerlo lontano dal
combattimento.
Si
sarebbe fatto ammazzare pur di non cedere.
In
quel
momento vennero chiamati al sorteggio.
Le
tessere questa volta erano quattro, due alfa e due beta.
Democrito
fece scorrere lo sguardo sugli altri contendenti: Andromaco
impassibile a denti stretti, un'espressione di feroce risolutezza sul
volto, Liside, visibilmente provato dallo scontro precedente, e
infine Nicagora, che sbuffava e si agitava come il toro quando
minaccia i rivali. Sembrava che gli scontri non l'avessero
minimamente stancato, appariva vigoroso e forte come quando era
entrato nell'arena per la prima volta.
Il
ragazzo pescò la sua tessera: beta.
Guardò
quella che Andromaco teneva distrattamente in mano: alfa.
In
quel
momento esplose l'urlo furibondo di Nicagora: “Alfa! Io ho
l'alfa!
Massacrerò chiunque di voi abbia la tessera uguale alla
mia!”
E
arrivò il segno di Zeus.
Forse
la folla stava acclamando, ma fu come se sulla scena calasse una
campana di perfetto silenzio.
Nel
cielo terso si librò una grande aquila, che batté
possente le ali e
lanciò un grido acuto.
Tutti
si voltarono in direzione del rapace. Andromaco si girò
bruscamente
per seguirlo con lo sguardo e nel movimento la tessera gli cadde di
mano. Democrito fu lesto a raccoglierla e gliela porse.
L'aquila
scomparve.
Un
istante dopo si udì la voce del giudice che chiamava:
“Alfa!”
Andromaco
fece per avanzare, ma qualcuno lo fermò: “Tu
dopo!”
Lo
spartano guardò la tessera che stringeva ancora nel pugno e
vi lesse
una beta.
Possibile?...
Sotto
il sole brillante del tardo pomeriggio, splendido e orgoglioso,
Democrito stava avanzando con passo sicuro verso l'arena.
Avrebbe
cantato se avesse potuto, oh sì, l'avrebbe fatto davvero
volentieri.
Il più nobile e glorioso dei canti di guerra.
Il
suo
avversario lo attendeva fissandolo torvo. Gli sorrise quasi con
benevolenza. Sapeva già che l'avrebbe sconfitto, il padre
Zeus
gliel'aveva promesso.
Fa
che il mio amante non debba vergognarsi di me, ma anzi in futuro
parli con orgoglio di questo combattimento,
pregò prendendo
posizione di fronte a Nicagora.
Rivolse
un fugace pensiero ad Andromaco. Avrebbe desiderato stare con lui
un'ultima volta, dargli almeno un ultimo bacio, ma il padre Zeus era
già stato fin troppo generoso e decise di accontentarsi.
Giunse
il segnale di inizio.
La
lotta si accese subito violenta. Nicagora cercò
immediatamente di
andare alle prese, ma Democrito usava la tecnica del lupo: si teneva
lontano, fuori dalla portata dei pugni spaventosi del suo avversario
e si avvicinava solo per colpire.
I
suoi
pugni non avevano molto effetto sulla poderosa massa di Nicagora,
tuttavia quel modo di combattere lo disorientava e lo rendeva
furioso.
E
lo
stava anche stancando, soprattutto perché lo costringeva a
girare in
tondo senza riuscire a bloccare il suo antagonista per portarlo alle
prese, ovvero la forma di lotta che gli era più congeniale.
Poi
Atlante riuscì a colpire Democrito con un pugno proprio
mentre
balzava indietro dopo un ennesimo attacco.
Il
ragazzo sentì una fitta lancinante al torace.
Cercò di non pensare
alle costole, che con ogni probabilità erano perlomeno
incrinate, e
s'impose di respirare nonostante lo spasmo dei muscoli. Si
piegò in
avanti a denti stretti e lì lo raggiunse un potente calcio.
La
folla emise un lungo ooh! di
disappunto.
Un
attimo dopo i due lottatori erano a terra, furiosamente avvinghiati.
Democrito
riuscì a divincolarsi, sgusciò via,
saltò in piedi con agilità,
l'altro lo afferrò alla caviglia, lo fece cadere di nuovo.
Ancora
una volta furono le prese, e ancora una volta il ragazzo
sfuggì
grazie alla sua maggiore agilità.
Ormai
erano entrambi ansimanti e sanguinanti. Democrito barcollava a denti
stretti, deciso a non cedere.
Ricordò
quello che gli aveva detto Andromaco: scopre la
gola quando tira
col sinistro.
Si
avvicinò a Nicagora, abbassò la guardia con un
gesto apparentemente
dettato dalla spossatezza.
“Sei
già stanco, poppante?” lo sbeffeggiò il
suo avversario in un
ansare rauco.
Atlante
tirò il pugno, un sinistro micidiale.
Nello
stesso istante, anche Democrito colpì: un destro poderoso,
sferrato
con tutte le sue forze dritto alla gola dell'avversario.
E
subito dopo sentì l'impatto devastante del pugno di Nicagora
contro
il viso. Lo zigomo e il collo scricchiolarono, l'uno frantumandosi e
l'altro piegandosi brutalmente all'indietro per il contraccolpo.
Il
ragazzo arretrò pesantemente, sudore e sangue gli rigavano
il viso.
Lottò per mantenere l'equilibrio.
Con
fatica mise a fuoco il suo avversario e lo vide crollare al suolo con
un movimento lentissimo e inesorabile, come quello di un albero
abbattuto.
Rimase
fermo a guardarlo.
Ci
fu
un istante di immobilità sospesa, poi il boato degli
spettatori
arrivò fino al cielo, dove un uccello – forse
un'aquila? –
roteava altissimo e solenne.
Democrito
non lo sentì.
Democrito
non sentiva più niente, neppure il dolore dei colpi ricevuti.
Si
voltò con fatica, cercando con lo sguardo il suo amante. Lo
vide,
era in piedi a pochi passi di distanza. Sul suo volto altrimenti
impassibile lesse una grandissima emozione.
Si
rallegrò, perché ora Andromaco avrebbe vinto
senza difficoltà
contro Liside e avrebbe conquistato la corona d'ulivo.
Gli
sorrise, mormorò un'ultima volta il suo nome.
E
cadde.
La
pira divampò crepitando e in breve fiamme ruggenti
avvilupparono la
figura distesa nascondendola alla vista.
Menandro
pose una mano sulla spalla dello Spartano più alto e
prestante.
“Vieni,” gli disse, “spostiamoci
più indietro.”
Il
calore era ormai insopportabile.
Andromaco
obbedì in silenzio, gli occhi fissi sul rogo.
Non
avrebbe pianto, a Sparta non si piange.
A
Sparta si stringono i denti e si va avanti.
“Il
suo nome sarà ricordato con onore,” disse
semplicemente.
A
quelle parole un'aquila si levò in volo mandando un grido
possente e
s'innalzò roteando maestosa sulle volute di fumo che
salivano verso
il cielo.
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