Ciao a tutti! Eccomi
qui, con l'ennesima OS della serie "Hidden track".
Questa è un po' telefonata, nel senso che non potevo proprio
esimermi dal scriverla!
L'episodio 4x19 è uno dei più belli, intensi e
significativi per il rapporto McDanno e io potevo tralasciarlo? Certo
che no!
Ora, che ho fatto veramente? Questa OS non è né
un "pre", né un "post" 4x19; si tratta di un "nel". Quello
che leggerete è ciò che è successo
nell'episodio - parola per parola - a cui io ho aggiunto pensieri e
motivazioni ad azioni e dialoghi (o almeno ci ho provato, cercando di
rimanere coerente con quello che è stato scritto nelle altre
storie della mia prima serie HF0) e nuove scene, partorite direttamente
dalla mia mente.
Spero che il risultato sia accettabile, dato il quantitativo di ore che
ci ho speso dietro (ore di sonno, serie TV e... sonno l'ho
già detto?), ma per Steve e Danny questo e altro.
Mi farebbe molto piacere sapere che cosa ne pensate, perciò
ogni commento è ben accetto. Inoltre, vi aspetto sulla mia
pagina facebook per chiacchierare
un po', per avere anticipazioni non troppo spoilerose sui miei lavori e
trovare locandine e fotomontaggi mal riusciti!
Credo di aver detto proprio tutto. Grazie di cuore e buona lettura!
Vostra,
_Pulse_
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BURIED TOGETHER
Steve aprì gli occhi e capì subito che era
successo qualcosa di terribile.
Lo sgabuzzino in cui si trovava fino a pochi minuti prima non c'era
più, distrutto da un'esplosione che aveva lasciato tutto
intorno e su di lui solo polvere e macerie.
Le orecchie gli fischiavano terribilmente e il solo respirare gli
risultava faticoso, tanto che fu costretto a tossire per liberarsi la
gola.
Raccogliendo tutte le proprie forze, si levò dal petto dei
calcinacci - non senza lasciarsi scappare un grido di dolore, forse a
causa di qualche costola fratturata - e si tirò su seduto
più che poté, ma il male alla testa lo costrinse
a rimanere ancora steso, con le mani a coprirsi le orecchie. Quando il
dolore si attenuò, recuperò la piccola torcia dal
suo equipaggiamento e si guardò intorno.
La situazione era ancora peggiore di quanto pensava: l'edificio era
imploso, crollando loro addosso ed intrappolandoli all'interno. Lui e
Danny... Un momento. Danny.
«Danny!», gridò disperato, alzandosi in
piedi e sentendo il sangue gelarsi nelle vene nel realizzare che il
partner non era al suo fianco. «Danny! DANNY!».
Si spostò tra le macerie per perlustrare l'area, dicendosi
che avrebbe sollevato anche tutto il palazzo pur di trovarlo, quando si
imbatté in un paio di gambe. Non si vedeva nient'altro di
quel corpo schiacciato sotto due grossi pezzi di cemento e la paura gli
attraversò la spina dorsale con la stessa potenza di una
scarica elettrica.
Per un momento lo shock fu tanto che dovette distogliere lo sguardo,
chiamando il partner con voce tremula, instabile come ciò
che rimaneva di quell'edificio, se non di più. Poi
subentrò l'adrenalina e tutto il dolore sparì,
dandogli la forza necessaria per liberare quel corpo da mezzo quintale
di cemento. In una situazione normale non ci sarebbe mai riuscito, ma
quella non era una situazione normale: poteva esserci Danny
lì sotto.
Non poteva perderlo, non lo avrebbe sopportato; non una seconda volta.
Aveva già perso Freddie sul campo, non poteva permettere che
accadesse la stessa cosa al suo partner attuale. Non l'avrebbe mai
lasciato indietro, piuttosto sarebbe morto a sua volta, seppellito
insieme a lui nelle fondamenta di quell'edificio.
Il sollievo che provò quando si rese conto che quell'uomo
non era altro che quello che avevano trovato legato ed in fin di vita
in quello sgabuzzino, fu incommensurabile.
«Danny! Danny!», lo chiamò di nuovo con
tutta la voce che aveva, approfittandone anche per tirare fuori il
cellulare con l'intento di chiamare aiuto. Nessun segnale.
Si riportò la torcia alla bocca e finì di
liberare l'uomo dagli ultimi calcinacci, poi gli tastò il
collo: era morto.
Le orecchie gli fischiavano ancora parecchio, però gli parve
di sentire un rumore ed alzò il capo per capire da dove
provenisse. Dei deboli colpi di tosse cancellarono i sospetti
riguardanti alle macerie in assestamento e senza perdere altro tempo
Steve abbandonò il capezzale del cadavere per correre -
più o meno - verso la mano che era comparsa tra i pezzi di
cemento.
«Danny!».
«Ste-ve», farfugliò flebilmente il
detective in risposta.
Finalmente lo raggiunse e sempre chiamando il suo nome gli
afferrò la mano, venendo ricambiato da una stretta debole,
ma pur sempre una stretta.
«Ehi. Ci sono bello, sono qui», esclamò
con tono di voce intriso di gioia. Era così felice che fosse
vivo che aveva voglia di piangere, ridere, urlare ed imprecare, tutto
contemporaneamente. Tutto ciò che riuscì a fare
però fu abbozzare un sorriso, sentendo le lacrime velargli
gli occhi.
Guardò tutte le macerie che lo schiacciavano e dopo un
ottimistico «Ci penso io» iniziò a
levare un masso per volta, sentendo ad ogni movimento la stanchezza
rendergli le braccia pesanti come piombo. Strinse i denti e procedette
con determinazione: non poteva gettare la spugna, anche a costo di
cadere svenuto dallo sforzo.
L'aveva liberato quasi interamente, quando Danny rantolò
ciò che vedeva anche lui chiaramente: «Ho la gamba
bloccata e credo di essermi rotto una costola».
Steve provò a spingere via quel pezzo di balaustra, ma non
lo mosse nemmeno di un centimetro. In quel momento gli avrebbe fatto
proprio bene una scarica di adrenalina.
Forse per non mettergli pressione, Danny cambiò argomento:
«Dov'è l'altro uomo?».
Gli rivolse una breve occhiata e poi si tolse la torcia dalla bocca per
rispondergli, mentre si chinava al suo fianco: «È
morto».
Gli strinse nuovamente la mano e con la sensazione che anche il suo
cuore fosse schiacciato come la gamba del partner, disse:
«Questo è troppo pesante, non riesco a sollevarlo.
Il cellulare non ha campo, non posso chiedere aiuto».
«Okay», ansimò Danny.
«Vado a cercare qualcosa che mi aiuti a fare leva per
liberarti la gamba e torno».
«Oh-oh-oh... ti prego, non andare via».
Aveva pregato e sognato di sentire quelle parole così tante
volte e in altre circostanze il suo cuore sarebbe scoppiato di gioia,
ma il tono sofferente del partner sortì l'effetto contrario.
«Danny, rilassati, andrà tutto bene»,
provò a rassicurarlo, ovviamente senza risultati.
«Dici che andrà bene? Perché sono in
uno spazio chiuso, con... parecchio cemento sopra la testa e
considerate le mie condizioni, per me non è la situazione
ideale, capisci?».
«Certo, sei claustrofobico», ricordò.
Eppure non poteva fare a meno di allontanarsi: non poteva lasciarlo
lì in quello stato, rischiava di perdere seriamente la
gamba.
«Okay, fai un bel respiro, d'accordo?».
«No, non va bene, peggiora le cose», disse
frettolosamente il detective, forse lasciandosi prendere dal panico.
Era l'ultima cosa di cui aveva bisogno - soprattutto perché
rischiava di agitarsi anche lui - e decise di approcciarlo in modo
diverso, col metodo militare: schietto e risoluto.
«Danny, devo riuscire a liberarti, capisci?».
Il silenzio gli fece credere che avesse funzionato, ma fu solo per un
attimo. Che avesse invece peggiorato la situazione? Danny infatti aveva
iniziato a dire cose apparentemente senza senso, citando nomi che in
quel momento non gli dicevano alcunché.
«Ehi», cercò di richiamare la sua
attenzione. «Ehi, che cosa fai?».
«Mi fa rilassare ripetere la formazione dei Mets del 1986. Mi
rilassa», rispose, ridacchiando nervosamente.
«Bene», sorrise e fece lo stesso, decidendo di
sfruttare il momento positivo per fare ciò che doveva.
«Davvero? Va bene. Torno subito».
Danny continuò ad elencare i giocatori di baseball
newyorkesi e Steve si alzò.
«Resisti».
*
Catherine guardò la parte crollata dell'edificio, col panico
che le scorreva nelle vene come lava.
Con lei c'erano Kono, Chin e Grover, il quale stava già
chiamando i soccorsi, ma la realtà era che si sentiva
l'unica persona rimasta sul pianeta e con una voragine aperta davanti a
lei, pronta a risucchiarla nell'oscurità.
«Steve! Danny! DANNY!».
Si gettò a terra, iniziando a spostare i massi che aveva di
fronte. Se avesse potuto riavere indietro le persone che contavano di
più per lei semplicemente gettandosi in quella voragine,
l'avrebbe fatto senza pensarci su due volte.
«Devi allontanarti Catherine, non è
sicuro», la rimproverò Grover.
«Sono qui sotto!», gridò lei
rabbiosamente, chiedendosi con che forza gli altri riuscissero a
rimanere lì con le mani in mano.
Il capo della SWAT l'afferrò per un braccio.
«Catherine!».
«Lasciami! Lasciami andare!», cercò di
dimenarsi, ma a quel punto Chin intervenne per dar man forte a Lou e
insieme la trascinarono via dalle macerie.
Quando finalmente mollarono la presa, Catherine si voltò e
portandosi le mani dalle unghie graffiate alla bocca fece qualche passo
verso il parcheggio.
«Lo so che vuoi aiutarli, lo vogliamo tutti», le
disse ancora Grover, con tono pacato. «Ma rischiamo di
peggiorare la situazione, se non aspettiamo i soccorsi».
Il tenente Rollins lo liquidò con un cenno d'assenso e si
allontanò ulteriormente, fino a raggiungere un albero a cui
si addossò per poi scivolare seduta a terra, con le mani tra
i capelli legati.
Amava Steve, lo amava con ogni fibra del suo corpo e non si sarebbe mai
perdonata se fosse morto in quel modo, senza che lei avesse avuto il
tempo di dirgli tutto ciò che avrebbe voluto. Non solo che
lo amava, ma anche che non era arrabbiata con lui per non ricambiarla
come lei avrebbe voluto, che alla fine tutto ciò che
desiderava era che lui fosse felice e che non c'era alcun problema se
ciò che lo rendeva davvero felice era Danny.
Danny... Quel piccoletto dai capelli biondi, quel poliziotto del New
Jersey che non le era mai andato particolarmente a genio, forse proprio
perché aveva sempre notato il legame che univa lui e Steve.
Poteva chiamarsi gelosia? Probabilmente, dato che quello stesso legame
non era solo lavorativo e d'amicizia, come aveva pensato ingenuamente
fino a qualche mese prima. Con più precisione, aveva
collegato tutti i puntini quando aveva iniziato a lavorare per la
Five-0: passando tutto il giorno al loro fianco, si era resa conto di
quanto poco spazio ed attenzioni Steve desse a lei, convergendole quasi
interamente su Danny. E poi il modo in cui si agitava quando erano
entrambi al suo fianco, come se non sapesse da che parte girarsi...
beh, non bisognava essere una spia della CIA per capire che c'era
qualcosa di più sotto la superficie. Che poi quel qualcosa
fosse delle dimensioni di un iceberg era un altro discorso.
Ad ogni modo non poteva perdere nemmeno Williams, per diverse ragioni:
la prima, Steve ne sarebbe stato distrutto. Che senso avrebbe avuto
riavere indietro l'uomo che amava, se senza il suo partner sarebbe
stato semplicemente un corpo senz'anima?
La seconda ragione era più complessa. Danny era riuscito in
qualche modo ad entrarle nel cuore, gradualmente e senza che se ne
accorgesse. Forse era questo il suo segreto: riusciva a tramutare
l'odio iniziale nei suoi confronti in amore. Finivi per adorare le sue
frecciatine, il suo comportamento spesso e volentieri ostile e
lamentoso, le sue occhiate fin troppo sincere e i suoi monologhi
interminabili. Ma soprattutto, il motivo per cui aveva iniziato ad
apprezzarlo davvero, era come fosse riuscito a capirla quando nessuno,
nemmeno Steve, ci era anche solo andato vicino.
Era alla finestra perché era preoccupata per il ritardo del
SEAL, quando aveva visto la Camaro nera di Danny avvicinarsi piano,
quasi in perlustrazione. Colta da un'improvvisa ondata di rabbia e
decisa a porre fine a quella storia una volta per tutte, era uscita
sotto il portico per fare cenno al detective di entrare. Quello che era
successo dopo non riusciva ancora a spiegarselo.
Danny le aveva semplicemente chiesto come stava, ma il suo sguardo
aveva fatto molto di più: le aveva comunicato che era okay
sentirsi male per Billy, che capiva come si sentiva e che non doveva
nascondersi con lui. Le sue difese erano cadute miseramente, tanto che
era scoppiata in lacrime al suo fianco. Mai avrebbe pensato di potersi
sfogare con lui, eppure...
Non aveva dimenticato ciò che aveva fatto per lei e
nonostante non ne avesse fatto parola con nessuno, aveva tutte le
intenzioni di ricambiare il favore. Perciò, quando il giorno
prima se n'era presentata l'occasione, l'aveva colta al volo.
Danny uscì
dal suo ufficio e gettò un'occhiata verso il computer
touch-screen, dove erano rimasti solo lei e Steve, poi
sollevò una mano per salutare: «Io vado, buona
serata».
«Anche a te,
amico», replicò Steve, senza però
sollevare lo sguardo da ciò che stava guardando.
L'espressione intrisa di
delusione di Danny la ferì più di quanto avrebbe
dovuto e Catherine strinse le labbra, indecisa se colpire Steve con una
manata e giocare in casa oppure fare ciò che da un po' le
suggeriva il cuore: mettere le carte in tavola col detective.
«Ehi, dove
vai?».
Catherine si
girò e continuando a camminare all'indietro mentì
al SEAL: «In bagno. Torno subito». La scusa
più vecchia del mondo: una certezza.
Scese rapidamente le
scale e una volta fuori dal quartier generale della Five-0 percorse il
parcheggio con lo sguardo per individuare la Camaro nera di Danny. La
raggiunse prima che facesse manovra ed aprì la portiera per
infilarsi al posto del passeggero, lasciando il detective confuso e un
tantino indispettito.
«Posso
aiutarti?», le domandò con finta cortesia e la
fronte corrugata.
«Dobbiamo
parlare».
«Di
cosa?».
«Del fatto che
tu e Steve siete più che amici».
Danny aprì la
bocca, colto in contropiede, però fu bravo a riprendersi e a
modellarsi il viso perché sembrasse aver preso in
considerazione la veridicità delle sue parole.
«In effetti a
volte penso che sia come una di quelle piante parassite che vivono solo
grazie alla linfa di un'altra. Hai un consiglio per come
liberarmene?».
Catherine gli rivolse un
sorriso comprensivo e qualcosa nello sguardo di Danny
cambiò: capì che sapeva e se ne fece una ragione,
ma non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce. Il tenente Rollins non
avrebbe mai preteso questo da lui; il solo fatto di essere stata
sincera con lui la faceva sentire meglio.
«Senti, per me
è okay», gli confessò sospirando.
«Anche se sarà difficile rinunciare a lui, voglio
che sia felice. E poi mi fa male pensare di essere sempre stata la
ruota di scorta».
Danny stringeva tanto
forte il volante da sbiancarsi le nocche, ma non c'era rabbia nel suo
viso, solo tanta malinconia. Scosse il capo e anche la sua voce
risultò calma, perfettamente controllata: «Non sei
la ruota di scorta, Catherine. Conosci Steve tanto quanto me e sai che
te l'avrebbe detto se ci fosse qualcun altro nella sua vita».
La ragazza ci
rifletté su qualche istante e realizzò che non
aveva tutti i torti. Questo però voleva dire che alla fine
Steve...
«Quando sei
andata via di casa ci è rimasto male e ha sentito molto la
tua mancanza, te lo posso assicurare», continuò,
prima che lei potesse commentare la sua epifania. «Lascia che
si avvicini di nuovo a te, per favore. E non... non dirgli mai quello
che hai detto a me, intesi?».
Catherine
abbozzò un sorriso, annuendo con un cenno del capo. Entrambi
amavano Steve a tal punto da sacrificarsi per lui, per la sua
felicità.
«E adesso
scendi, ho un appuntamento con Amber stasera», la
invitò ad affrettarsi.
La Rollins scese dalla
Camaro e fece appena in tempo a chiudere la portiera che Danny aveva
già pigiato il piede sull'acceleratore, sgommando un poco.
Con la testa ancora alla
loro conversazione ricca di silenziose ammissioni tornò da
Steve, il quale le chiese che fine avesse fatto. Lei si
limitò a sorridergli, tornando a guardare i tabulati
telefonici e i movimenti bancari che stavano esaminando. Steve
stranamente lasciò cadere l'argomento e posò le
mani sul bordo del tavolo, sfiorando accidentalmente quella di
Catherine.
Lei sorrise di nuovo e
seguendo il consiglio di Danny la posò su quella del SEAL,
lasciando che le loro dita si intrecciassero automaticamente. E sul suo
cuore si aprirono tante piccole ferite, quando con la coda dell'occhio
scorse un sorriso sul suo volto: si trattava di un bel sorriso, ma non
era tanto bello quanto quelli che a volte gli aveva visto rivolgere a
Danny. Per il detective, era capace di sorridere con gli occhi,
specchio dell'anima. Per lei, pensava a muovere dei muscoli. Questa era
la grande differenza, ma finché Steve avrebbe voluto
così, lei ci sarebbe stata.
Le sirene delle auto della polizia di Honolulu, del camion dei pompieri
e delle ambulanze la fecero tornare alla realtà e si
alzò per raggiungere il resto della squadra, in attesa di
informare i soccorsi dell'accaduto ed aiutare in qualsiasi modo
possibile.
*
Danny voleva davvero concentrarsi sulle varie formazioni dei Mets
– un trucco che gli aveva suggerito sua sorella Nora per
controllare l'ansia – ma il dolore e la paura per quella
giornata iniziata decisamente male e che rischiava di finire ancora
peggio erano tanto forti da distrarlo continuamente. Come se non
bastasse, continuava a pensare a quella mattina e in particolare a
quello che gli aveva detto Steve quando aveva avuto la malsana idea di
andare da lui per parlare: un enorme errore, sia perché non
aveva avuto il coraggio di dirgli ciò per cui era andato da
lui in primo luogo, sia perché se n'era sentite dire di
tutti i colori.
«Dovresti considerare che il punto non è tanto
proteggere Grace, ma proteggere te stesso», gli aveva detto
ad un tratto e mai parole più vere erano state pronunciate
da Steve, anche se per le motivazioni sbagliate. Pensava che volesse
proteggersi dall'avere un'altra relazione seria, ma in
realtà tutto ciò che voleva era proteggersi
proprio dal SEAL.
Durante il loro viaggio in Cambogia gli aveva confessato di non aver
ancora fatto chiarezza dentro di sé riguardo al suo rapporto
con Catherine e conoscendolo sapeva che per lui non doveva essere stata
una passeggiata, però non poteva rischiare di alimentare
troppo le fiamme della speranza: come si dice, chi gioca col fuoco
rischia di scottarsi. Quindi, seguendo proprio il suo consiglio, si era
buttato a capofitto nella relazione con Amber.
Era vero che aveva dieci anni meno di lui, però non si
sarebbe detto da come parlava e da come si comportava. Era come se
avesse accumulato ugualmente tante esperienze da conferirle dieci anni
in più di maturità.
Ad ogni modo, era ancora troppo presto per affrontare argomenti del
genere e Danny non era nemmeno sicuro di volerli affrontare; si
limitava a godersi il momento e sarebbe andato tutto a meraviglia, se
solo Rachel non avesse lasciato Grace di fronte alla sua porta senza
avvisarlo. In quel momento tutto era andato a rotoli, e nella maniera
meno inaspettata possibile.
Danny aspettò
che Amber si fosse chiusa la porta della camera da letto alle spalle e
poi sospirò piano, tornando a guardare la figlia in piedi di
fianco al frigorifero, con espressione smarrita e le mani strette
intorno alle bretelle dello zaino.
«Vieni qui,
scimmietta», la invitò con dolcezza, porgendole la
mano.
Grace
l'afferrò e si lasciò condurre all'isola della
cucina, dove si sedette su uno degli alti sgabelli. Il padre la
imitò, accomodandosi su quello più vicino, a
capotavola.
«Hai
già fatto colazione?», le chiese, cercando di
rimandare al più tardi possibile le spiegazioni che le
doveva.
La bambina
annuì con un cenno del capo, per poi chiedergli a
bruciapelo: «Quella è la tua nuova
fidanzata?».
Se avesse avuto una
salivazione normale, Danny si sarebbe strozzato. «Fidanzata?
No, tesoro».
«Non ci credo
che è una tua amica».
«No, infatti
non lo è. Ascoltami, è... è
complicato».
«Lo zio Steve
lo sa?».
La serietà
mista a rimprovero con cui gli fece quella domanda fu destabilizzante,
tanto che per qualche secondo la fissò con occhi sgranati e
la bocca spalancata.
«Che cosa
c'entra Steve?», riuscì a chiederle alla fine.
Grace fece dondolare la
testa, per poi prendersi il mento tra le mani coi gomiti puntati sulla
superficie in marmo dell'isola. «Pensavo che voi due foste
una coppia ormai».
«Una...? Oh,
gesù...». Un brivido di freddo gli percorse la
spina dorsale. «Non l'avrai mica detto a qualcuno,
vero?».
«Mi hai
chiesto di mantenere il segreto e l'ho fatto».
«Giusto.
Uh...». Trasse un breve respiro e guardò la figlia
negli occhi, trovando finalmente il coraggio per spiegarle la
situazione. «Tesoro, io e Steve abbiamo avuto qualche
problema nell'ultimo periodo e abbiamo deciso di... di prenderci una
pausa e di vedere altre persone». Si strinse nelle spalle,
con le labbra arricciate. «Io... io ho iniziato a vedere
Amber».
Grace rimase in silenzio
per un po', così tanto che ad un certo punto Danny
sollevò le sopracciglia e si chinò verso di lei,
in attesa che dicesse qualcosa, qualsiasi cosa. Fece prima Amber, la
quale uscì dalla camera e li raggiunse, quella volta con
indosso i propri abiti.
Rivolse ad entrambi un
sorriso imbarazzato e poi posò una mano sulla spalla del
detective, dicendo: «Sarà meglio che vada, il
lavoro mi aspetta. Buona giornata». Poi, rivolgendosi
direttamente a Grace, aggiunse: «Mi ha fatto molto piacere
conoscerti. A presto».
Danny la
salutò sollevando anche una mano e con un'occhiata costrinse
la figlia a fare lo stesso. Quando la ragazza si chiuse la porta alle
spalle, il biondo si portò due dita agli occhi e
sospirò nuovamente.
«La
rivedrò ancora? O se ne andrà anche lei come
Gabby?», gli chiese ancora Grace.
Quella fu la goccia che
fece traboccare il vaso e Danny sbottò: «Ma che
cosa ti prende stamattina? Continui a farmi domande come in un
interrogatorio! Non lo so Grace, come faccio a saperlo?».
Non appena
però si rese conto della propria reazione spropositata,
Danny se ne pentì e fuggendo dagli occhi della figlia si
alzò per battere un pugno sull'anta del frigorifero.
«Mi dispiace
tesoro, non volevo...».
«Non fa
niente, Danno», rispose mestamente Grace. «Non
dovevo farti tutte quelle domande, scusa».
«No, tu... tu
meriti di sapere. Insomma, sei ancora piccola per capire alla
perfezione come funzionano queste cose, però voglio dirti
una cosa». Si chinò verso di lei e le prese le
mani tra le sue, sorridendole dolcemente. «Tu sei l'unico
vero amore della mia vita, e nulla potrà cambiarlo. Te lo
prometto».
Grace sorrise, ma non
riuscì a tacere ciò che si era conquistato uno
spazio importante nel suo cuore. «E lo zio Steve?».
«Lo zio
Steve... Io e lui saremo sempre amici e ti vorrà sempre
bene, qualsiasi cosa accada. Intesi?».
Grace annuì
con il capo e Danny le accarezzò i capelli, ricambiando il
sorriso finalmente sereno comparso sul suo volto.
«Bene. Dammi
il tempo di vestirmi e ti porto a scuola».
*
Steve finalmente trovò quello che stava cercando da ormai
una decina di minuti e frettolosamente tornò dal detective,
preoccupato per lui. Quella giornata era iniziata così bene,
con delle onde incredibilmente belle e la figura di Danny che lo
attendeva a riva. Perché tutto d'un tratto si era
trasformata in un incubo?
«Dove cavolo sei stato? Sono arrivato alla formazione del
'92», fu la prima cosa che disse Danny quando lo vide.
«Ho trovato una torcia, ci servirà».
Sofferente, il partner ebbe solo la forza di esalare: «Alza
queste macerie».
Senza perdere altro tempo, Steve infilò un lungo tubo di
metallo tra il blocco di cemento e la gamba di Danny e
spiegò: «Io le sollevo, quando non senti
più il peso su di te devi spostare la gamba, okay? Ma fallo
in fretta, non so per quanto reggerò».
«È un buon piano, ma non so ancora se
riuscirò a muovermi».
«Sì che ci riesci. Lo farai, okay?».
Danny si lamentò di nuovo, ma Steve si concentrò
sul tubo, trovando la posizione migliore per afferrarlo.
«Bene, sei pronto?». Con la piccola torcia tra i
denti, iniziò a contare: «Uno... Due...
Tre!».
Il detective rotolò faticosamente di lato, levandosi un
altro masso di dosso, e Steve capì subito che i guai non
erano finiti quando lo vide sfiorarsi il fianco destro e dire:
«Mi fa male».
Si chinò subito su di lui, con la torcia puntata sul punto
in cui aveva intravisto una chiazza di sangue rosso vivo.
«Resta fermo, do' un'occhiata».
Le loro mani si sfiorarono e Steve ebbe il terrore che Danny ne avesse
percepito il lieve tremore e avesse capito che non si trattava di un
graffietto. Per un motivo o per un altro fu così, dato che
gli chiese di che cosa si trattava con tono di voce malfermo.
Era decisamente uno dei suoi incubi peggiori diventato
realtà: vedere Danny stare male e poter fare poco o nulla
per aiutarlo.
Abbassò il capo e si coprì la bocca con un pugno,
cercando le parole giuste con cui dirglielo senza spaventarlo, ma la
verità era che non c'erano parole giuste, non in quel caso.
«Che cos'è?», ripeté Danny,
sempre più agitato.
«È un pezzo di ferro»,
confessò alla fine, appellandosi alla sua
stoicità da SEAL per non crollare.
«Oh...».
«Non ha leso organi vitali, ma devo tirarlo fuori e fermare
l'emorragia».
«Forse è meglio di no, lascialo stare dentro per
favore».
Come se Danny non avesse nemmeno aperto bocca, iniziò a
spogliarlo del giubbotto anti-proiettile impolverato, poi gli
sfilò il guanto dalla mano sinistra e tornò ad
esaminare il grosso spuntone che gli perforava il fianco.
«Non possiamo lasciarlo dentro, può infettare la
ferita e se va in setticemia sono guai. Dobbiamo estrarlo».
Quella situazione era così surreale che Danny
scoppiò a ridere. «Guai ancora più
grossi di questo?».
Riuscì a strappare un sorrisino anche a Steve, ma era troppo
concentrato per concedergli di più. «Okay, non
muoverti. Io torno subito».
Danny gettò un'occhiata alla chiazza di sangue che si stava
allargando sulla camicia e poi verso Steve, intento a sollevare
l'ennesimo masso. «Che fai? Che cos'è?».
Il SEAL non gli rispose e la cosa lo avrebbe mandato in bestia, ma il
dolore era così forte che si limitò a chiudere
gli occhi e ad aspettare in silenzio.
«Questa contiene perossido. Può disinfettare la
ferita», esclamò prima di ritornare al suo fianco
con una bottiglia bianca tra le mani. Ciò che li attendeva
avrebbe fatto male ad entrambi, perciò optò
nuovamente per l'onestà: «Non mentirò,
sarà un dolore atroce. Ma la parte peggiore
durerà un paio di secondi. Resta cosciente».
*
Danny era sia grato che incazzato che fosse finito intrappolato nel
seminterrato di quell'edificio con Steve, un SEAL addestrato a gestire
anche situazioni come quelle: grato perché se fosse morto lo
avrebbe fatto al fianco della persona che amava, la persona che avrebbe
fatto di tutto per salvargli la vita; incazzato perché il
suo addestramento lo faceva assomigliare ad una macchina, asettica ed
incurante dei suoi sentimenti. «Resta cosciente»,
gli aveva ordinato, come se fosse facile.
Steve si strappò un lembo della maglietta, se lo avvolse
intorno al palmo della mano sinistra e poi con la mano destra
afferrò il pezzo di ferro che sporgeva dal suo fianco. Danny
provò a stringere i denti, ma gli scappò comunque
un'esclamazione di dolore.
«Okay. Pronto?», gli domandò Steve,
senza attendere veramente una risposta. «Due,
tre...».
Forse avrebbe dovuto cominciare a rielencare le formazioni dei Mets,
oppure a pensare a qualcosa di bello, proprio come faceva quand'era dal
dentista. Si concentrò sulla sua scimmietta, la cosa
più bella e preziosa che aveva, e gli tornò alla
mente ciò che si erano detti in auto poco prima che la
lasciasse davanti alla Sacred Heart.
«Eccoci
arrivati».
La gioia che
notò negli occhi della figlia guardando la facciata
dell'edificio scolastico era la stessa che aveva provato lui alla sua
età: nessuna. (Senza contare che, al contrario di Grace,
tutti i fratelli Williams avevano frequentato scuole pubbliche).
«Papà,
posso chiederti una cosa?».
«Certo tesoro,
dimmi».
«Fa male
quando la persona a cui vuoi bene va via?».
Aveva di certo temuto
l'argomento, ma in un angolo della sua mente Danny era ancora convinto
che Grace fosse troppo piccola per certe cose, perciò aveva
accantonato le sue preoccupazioni. Forse era giunto il momento di
accettare che ormai era più un'adolescente che una bambina.
«A chi ti
riferisci?».
La ragazzina
scrollò le spalle. «A nessuno in particolare.
Voglio solo essere preparata, nel caso un giorno dovesse succedere a
me».
«Beh...
dipende. Se è una persona a cui vuoi davvero bene, allora
sì, fa male. Il tempo però guarisce tutte le
ferite, anche le peggiori». Le portò due dita
sotto al mento per far sì che lo guardasse negli occhi e le
sorrise, aggiungendo: «Spero che non ti succeda mai, o almeno
che ti capiti quando sarai molto, molto più
grande».
«Ma ne vale la
pena, Danno?».
«Se... se ne
vale la pena?», balbettò, stordito dalla
profondità di quella domanda.
Quei quattro anni
insieme a Steve, a ridere, a litigare, a soffrire, a fare l'amore e poi
ancora a sentire il cuore a brandelli nel petto... ne erano valsi la
pena? Cercò di immaginare quegli anni senza il comandante
nella sua vita, ma semplicemente non ci riuscì.
Continuando a sorridere
alla figlia, anche se con un velo di malinconia, rispose:
«Per quanto mi riguarda, non c'è nulla che non
rifarei».
Steve gli tirò fuori dalla carne il pezzo di ferro e il
dolore fu così atroce da costringerlo a tornare alla
realtà, ma fu ancora peggio quando gli versò
sulla ferita gli agenti chimici presenti nella bottiglia che aveva
trovato, tanto che dovette stringere tra i denti la spalla del proprio
giubbotto in kevlar per non urlare di dolore, mentre Steve gli ripeteva
di rimanere cosciente, di rimanere con lui. Ecco, questo era
già più umano. Il pensiero di dover rimanere con
lui gli impedì di svenire, ma durò poco.
«Chi c'era a sinistra nei Mets nell'86? Chi c'era a
sinistra?», gli chiese allora Steve con foga, nel tentativo
di tenerlo sveglio.
«George Foster», rispose con voce strozzata.
«Sostituito da Mooki Wilson dopo due stagioni».
Steve sorrise, congratulandosi con lui e dicendogli di continuare a
premere sulla ferita mentre lui ci applicava sopra il lembo della
propria maglietta con del nastro adesivo.
Alla fine la scarica di dolore si attenuò, tanto che
tornò a respirare regolamente. Si tolse un po' di polvere
dagli occhi e sospirando chiese: «Come andiamo? Va
bene?».
«Va bene», lo assecondò il SEAL, con
un'espressione più serena in volto. «Molto
bene».
«Oh», sospirò di sollievo. Quindi
afferrò di nuovo la mano di Steve e col suo appoggio
riuscì ad alzarsi, nonostante le cure apprensive del partner.
«Sto bene. Andiamocene, coraggio».
Si era già girato, senza però accennare a
lasciare la mano del comandante, quando questi tornò a fare
il guastafeste dicendo: «No Danny, fermo».
Pensava perché avesse semplicemente sbagliato direzione - in
fondo sarebbe potuto accadere, in quell'ammasso di macerie -
perciò gli chiese innocentemente: «Da che
parte?». Ma ancor prima che rispondesse, Danny
realizzò che Steve non lo aveva fermato per quel motivo.
«Non possiamo andarcene», gli disse chiaro e tondo,
senza curarsi di come avrebbe potuto reagire. Eccolo di nuovo:
l'insensibile robot era tornato. Eppure i suoi occhi... i suoi occhi
mostravano tutto il dispiacere del mondo.
«Il palazzo è crollato su se stesso»,
aggiunse.
Danny ne sentì tutto il peso addosso e dovette appoggiarsi
alla colonna portante rimasta in piedi alle sue spalle, lasciandosi
andare ad un respiro tremante, mentre intorno a loro i rumori
dell'edificio collassato iniziavano a farsi più forti.
«Ti prego, mi faresti un favore?», gli
domandò ad un tratto, sentendosi a corto di alternative.
«Certo, qualsiasi cosa».
«Guardami negli occhi, guardami. E ammetti una cosa: non
avremmo dovuto dar retta a Dekker. Uhm?».
Steve sollevò la torcia verso il suo viso, accecandolo per
un attimo, per poi sbottare: «Vuoi parlare di questo adesso?
Era una pista che dovevamo seguire, Danny, okay? A proposito, non
c'è di che per averti salvato».
Con la mano a tenersi la ferita, Danny lo guardò chinarsi e
raccogliere un altro pezzo di ferro, solo più lungo rispetto
a quello che lo aveva infilzato, e porgerglielo.
«Che cos'è, un souvenir?».
«Sì, un souvenir. I soccorsi saranno
già qui e saranno in ascolto. Batti su qualcosa, devi fare
rumore».
*
Danny, dopo decine di minuti di colpi, abbassò il braccio
indolenzito ed affermò: «È tutto
inutile. Non ci sentono».
Steve gli gettò un'occhiata e continuò a battere
contro la conduttura d'areazione. Il detective, invece, si
addossò contro una colonna e scivolò seduto a
terra, ma non vi badò troppo: non era più in
pericolo di vita, anzi si sentiva abbastanza bene da comportarsi come
un ingrato - non l'aveva nemmeno ringraziato per avergli tirato via
quel pezzo di ferro dal fianco! - ed accusarlo di essere il
responsabile della situazione in cui si trovavano.
«Oh, oh!», gridò agli ennesimi colpi sul
metallo.
«Che c'è?».
«Posso morire in pace, per favore?».
«Sei stanco e stai male, rilassati d'accordo?».
«Ehi, fammi un favore».
«Quale?».
«Per una volta, puoi fingere di essere umano e prendere la
situazione per quella che è? Fallo per me, ti
prego», lo supplicò il detective, se possibile
ancora più stanco mentalmente che fisicamente.
«Io sono perfettamente consapevole che-».
«Davvero?», lo interruppe canzonatorio.
«Perché una risposta umana a morte certa e alla
prospettiva di non rivedere mai più le persone che ami
sarebbe rannicchiarsi in posizione fetale e farsela nei
pantaloni».
Steve non pensava che sarebbero morti, ma anche se fosse successo non
avrebbe mai reagito come aveva descritto Danny: non perché
non era umano, ma perché l'unica persona per cui tremava di
terrore alla sola idea di perderla era la stessa che era lì
con lui, sepolta sotto tonnellate di cemento. L'aveva realizzato non
appena aveva aperto gli occhi e, capito ciò che era
successo, non aveva visto il partner al suo fianco. Danny era stata
l'unica persona a cui aveva pensato: non Catherine, non il resto della
squadra... Danny.
A conti fatti poi, nemmeno il biondo si era rannicchiato in posizione
fetale, né se l'era fatta nei pantaloni, sintomo che per
quante ne dicesse non aveva ancora perso tutte le speranze.
Avrebbe dovuto dirgli tutto questo, invece se ne uscì con un
semplice: «Che vantaggi ne trarresti? Eh?». Forse
un po' inumano lo era sul serio. Ciò nonostante,
continuò: «La paura è uno stato mentale
Danny, capisci? Devi combatterla».
«Ah, io non sono d'accordo. Io credo che la paura sia
un'alleata».
Steve accennò un sorriso, scuotendo il capo, e si
voltò verso il proprio tamburo di metallo.
«Ti dice quando devi evitare una situazione, ma tu non
l'ascolti mai ed è per questo che siamo qui ora»,
concluse, indicando il punto esatto in cui si trovava.
Steve lo guardò, ancora con quel sorriso divertito stampato
in faccia. «Sarebbe un'argomentazione convincente, se tu non
avessi paura di ogni cosa al mondo».
Danny abbassò gli occhi, incredulo alle proprie orecchie.
Steve avrebbe dovuto fermarsi, smettere di infierire, eppure per
qualche motivo, forse per la semplice frustrazione dovuta al non poter
fare di più per farli uscire da lì,
continuò imperterrito: «Stamattina hai avuto una
crisi perché tua figlia ha conosciuto la tua ragazza. Tu
tendi sempre a vedere l'aspetto più tragico in qualunque
situazione ti si presenti di fronte».
«E va a finire sempre che ho ragione!»,
sbottò, con quei suoi grandi occhi azzurri sgranati.
«Non ci saremmo mai dovuti buttare alla cieca in questa
situazione».
Danny respirò profondamente, ma invece che aiutarlo a
calmarsi lo costrinse a tossire, tanto che Steve abbassò
l'ascia di guerra.
«Stai bene?».
«No, non sto bene», rispose, alzandosi
faticosamente per passargli accanto senza nemmeno rivolgergli uno
sguardo.
Steve rimase fermo immobile, colpito da un pensiero che fece
più male di mille bombe: che Danny non si riferisse
solamente alla retata soffiata da Dekker, ma anche alla loro...
relazione, o come volevano chiamarla? Anche riguardo al loro rapporto
aveva finito per aver ragione, rimanendo col cuore spezzato?
Lentamente si voltò, trovando Danny al capezzale dell'uomo
che non era stato tanto fortunato come loro a sopravvivere al crollo.
«Senti, d'accordo. Mi dispiace, okay? Cerca di rilassarti,
l'aria qui scarseggia. Dobbiamo conservare l'ossigeno».
Quale modo migliore per scusarsi per questa e le sue altre mille colpe,
se non aggiungendo sul piatto "morte" della loro bilancia della
sopravvivenza che avrebbero potuto schiattare anche per soffocamento?
Danny però lo ignorò, sedendosi e parlando con se
stesso mentre iniziava ad esaminare il cadavere accanto a lui.
Così riprese a battere contro la conduttura dell'aria ormai
inutile.
«Ehi, ehi», richiamò la sua attenzione
il detective.
«Che c'è?».
«Magari è... la mancanza di ossigeno, ma qualcosa
non mi quadra. Eravamo noi i bersagli, giusto? Che c'entrava lui?
Perché era in quello stanzino?».
Adorava quando Danny entrava in
full-detective-mode,
lo riteneva mille volte più sexy. Ma non era il momento
adatto per quelle considerazioni, decisamente no.
«La telefonata ci ha attirati. Per quanto ne sappiamo, lui
era l'esca».
Non aveva molto senso come ragionamento e Danny espresse a parole i
suoi pensieri: «Perchè lui? Insomma, prendi uno
per strada e lo riduci in fin di vita. Perché proprio lui,
secondo te?».
«Non lo so, secondo me non è stato scelto a caso,
ne sono certo».
Danny tornò a cercare indizi sul corpo dell'uomo ed
esclamò: «Non ha il portafogli». Nella
tasca della giacca però trovò due pillole gialle.
«Non saprei dire se sono dei farmaci».
«Controlla il cellulare», gli disse Steve,
continuando a fare rumore.
«È distrutto».
Il biondo notò un forellino sulla camicia dell'uomo e
sporgendosi trovò una piccola telecamera nascosta, come ne
aveva viste tante per le operazioni sotto copertura.
«Steve, guarda un po' qua. Ha una telecamera».
Il SEAL fece due più due: «Per sapere quando
colpire. C'era qualcuno che osservava».
All'improvviso il suono di un cellulare li interruppe e le espressioni
sui loro visi quando si resero conto che era quello di Steve a suonare
fu di pura speranza. Almeno fino a quando Steve non lesse il nome di
Catherine.
In base a ciò che aveva provato quando aveva riaperto gli
occhi, dopo lo scoppio della bomba, leggere il suo nome non avrebbe
dovuto fargli chissà quale effetto, eppure il suo cuore
iniziò a battere tanto forte da pensare che magari le
squadre di soccorso avrebbero potuto sentirli solamente posando
l'orecchio a terra.
Danny, Catherine, poi Danny e ancora Catherine... non riusciva a capire
chi ci fosse al primo posto nel suo cuore e non aveva la minima idea di
come uscire da quel triangolo. Iniziò dalla cosa
più semplice da fare: rispondere alla chiamata che forse
avrebbe salvato loro la vita.
*
Non appena aveva sentito il nome di Catherine, Danny aveva iniziato a
pensare che in fondo lì sotto non si stava poi tanto male;
anzi, se avesse potuto sprofondare un po' di più lo avrebbe
fatto, pur di non vedere quel luccichio negli occhi del partner.
«È Catherine», ripeté Steve
euforico, come se non fosse abbastanza chiaro. Si sedette
sfrontatamente al suo fianco e rispose alla chiamata.
La voce da chihuahua della ragazza gli fece patire addirittura
più sofferenze del buco al fianco. «Steve, grazie
a Dio! Ragazzi, state bene?».
«Danny è un po' ammaccato, ma stiamo bene. Gli
altri sono usciti?».
«Tutti tranne voi, i soliti ritardatari», rispose
Grover. «La cavalleria è al lavoro per tirarvi
fuori».
«Avete una vaga idea di quanto ci vorrà? Io sto in
piedi per miracolo», disse Danny, omettendo che quel miracolo
aveva un nome e un cognome: Steve McGarrett.
«Stiamo lavorando, dobbiamo capire la vostra posizione
esatta», spiegò Catherine.
Steve si guardò intorno. «Siamo in uno sgabuzzino,
lato sud del garage».
Sentirono la voce di un altro uomo, forse colui che era a capo dei
soccorsi, e poi Lou chiese loro dei livelli di ossigeno.
«Sta diminuendo», fu schietto Steve. «Noi
possiamo fare qualcosa per aiutarvi un po'?».
«Solo resistere», disse Grover e Danny gli fu
silenziosamente grato, perché non aveva nemmeno la forza per
stare in piedi. Peccato però che anche lui non era in grado
di tenersi per sé le cattive notizie: «Sentite,
tutta l'area intorno a voi è instabile».
Danny socchiuse gli occhi, ma li riaprì non appena
sentì il braccio di Steve irrigidirsi e il suono chiaro e
limpido del suo pomo d'adamo che faceva su e giù
nervosamente. Forse era stato duro con lui, forse aveva anche lui paura
e, come aveva detto, cercava di controllarla, di essere forte per
entrambi perché potessero uscire da lì il prima
possibile.
«Muovete qualcosa che non dovreste muovere e
crollerà tutto», concluse il capo della SWAT.
Per non lasciare di nuovo a Steve il fardello di dare una risposta,
decise che era giunto il momento di fare la sua parte: «Ah,
incoraggiante».
«Ma che è successo? Eravate dietro di
noi», chiese Catherine.
Per far capire loro e allo stesso tempo tenersi impegnato, Steve
domandò a sua volta: «Potete fare una
video-chiamata? Vi mostro una cosa».
Nei pochi secondi che avevano prima che Catherine li richiamasse
tramite Skype, Danny si avvicinò ulteriormente ad uno Steve
insolitamente preoccupato e posandogli una mano sulla spalla
esclamò fiducioso: «Usciremo di qui, ce la
faremo».
«Poco fa eri convinto del contrario», rispose
piano, senza nemmeno voltarsi a guardarlo, mentre ciò che
rimaneva dell'edificio scricchiolava in maniera inquietante sopra le
loro teste.
«Lo so, ma confido nel fatto che ti inventerai qualcosa.
Anche perché non ci tengo a stare al tuo fianco persino da
morto».
Il suo sarcasmo lo fece sorridere e Danny si sentì meglio,
tanto che gli afferrò la testa per posargli un bacio sulla
tempia.
«E io che in onore del nostro lavoro come partner ho
già prenotato le nostre tombe vicine»,
scherzò a sua volta Steve, ricevendo un'occhiata ammonitrice
da parte di Danny.
L'icona di Skype con il volto di Catherine li interruppe e Steve, una
volta schiaritasi la voce, rispose alla video-chiamata. Fu Danny
però a parlare.
«Ciao. Stiamo meglio di come sembra».
«Volete tranquillizzarmi, grazie»,
esordì Catherine, abbozzando un sorriso.
«Hai detto che volevi mostrarci qualcosa»,
intervenì Lou parlando direttamente a Steve, il quale
rispose: «Sì, guardate».
Mostrò loro il volto dell'uomo morto e chiese a Catherine di
fare delle foto, lei lo fece e disse che le avrebbe messe nel database
per identificarlo.
«Cerca legami con JC Dekker e la sua banda, okay? Voglio
sapere che c'entra questo tizio».
«Ricevuto».
*
Danny aveva in bocca ancora il sapore metallico dell'acqua che Steve
gli aveva gentilmente procacciato, proprio come avrebbe fatto una mamma
orsa per il suo cucciolo, e al momento stava pensando a Catherine, a
come doveva essersi sentita in quelle ultime settimane.
Aveva sempre guardato alla loro situazione come ad una questione tra
loro due, concentrandosi sui propri drammi o al massimo su come questo
avrebbe potuto influire sulla vita della persona che si trovava al suo
fianco - prima Gabby, ora Amber - se mai si fosse venuto a sapere; mai
a Catherine.
Quella ragazza era sempre stata un mistero per lui.
Non avevano mai avuto una conversazione a quattr'occhi - diversi
com'erano non avrebbero nemmeno trovato un argomento comune di cui
parlare - e in generale non gli era mai andata a genio, finendo per
ignorarla tanto quanto lo ignorava lei, anche se fino ad allora non
aveva mai capito il motivo per cui era così scostante nei
suoi confronti. Forse era stato anche un po' geloso delle esperienze
che aveva condiviso con Steve prima che lui lo conoscesse,
però non aveva mai pensato che fosse stupida, anzi. Solo non
pensava l'avrebbe mai scoperto.
Era stato ingenuo e traviato dal fatto che le sue ragazze non avevano
mai passato intere giornate con lui e Steve al quartier generale oppure
sul campo, dove avrebbero potuto cogliere anche loro segnali in grado
di metterle in allerta.
Alzò gli occhi su Steve, col cellulare stretto tra le mani e
le gambe che non volevano saperne di stare ferme, in trepidante attesa
della prossima chiamata.
Aveva chiesto a Catherine di non riferire parola di quello che si erano
detti, ma sapeva che se quello era il loro ultimo giorno allora avrebbe
dovuto dirglielo: se Steve si fosse salvato e lui no avrebbe capito che
Cath lo amava tanto da sopportare che la tradisse con lui (o il
contrario) e avrebbe provato a costruire una vita insieme a lei; se
fosse sopravvissuto lui e Steve no, almeno si sarebbe pulito la
coscienza confessandogli quell'ultima verità, assicurandogli
che lo amavano entrambi. Inutile dire che l'opzione per cui sperava era
la terza: che nessuno dei due morisse seppellito sotto quell'edificio.
Alla fine il cellulare di Steve riprese a suonare, interrompendo il
flusso dei suoi pensieri. Il SEAL per qualche motivo stese il braccio
per inquadrare lui e fu strano vedere Catherine dall'altra parte del
telefono, uno strano reciproco.
«Ehi Danny», lo salutò incerta,
stiracchiando un sorriso. «Come va? State tenendo
duro?».
«Ci conosci, siamo due tipi cocciuti quando si tratta di
salvarci la pelle. Voi state lavorando per recuperarci
dall'Inferno?».
«Ecco, a proposito di questo...».
Catherine spiegò loro quanto a sua volta le aveva spiegato
il capo della squadra di soccorso e quando terminò Danny non
riuscì a nascondere l'irritazione.
«Ah bene, quindi usciremo dal condotto dell'aria,
è questo il grande piano? Faremo questo?
Grandioso».
«È l'opzione migliore», si intromise
Grover, comparendo nella schermata.
«Prima avevate detto di non muovere niente perché
ci sarebbe crollato addosso l'edificio!», sbottò,
gettando un'occhiata ad uno Steve ammutolito.
«Ed è ancora così. Quindi,
per favore, fate
attenzione».
Il discorso era chiuso e Danny abbassò il capo, stanco ed
affranto, ma le brutte notizie non venivano mai da sole, doveva
saperlo.
Steve finalmente voltò il cellulare verso di sé e
addossandosi con la spalla ad una scaffalatura in ferro capovolta, si
mise a parlare con Catherine come se lui non ci fosse, facendolo
sentire ancora peggio.
«Catherine, ascolta: sai quel ristorante di sushi su King
Street? Chiamalo e prenota per stasera, solo io e te okay?»,
le propose, per poi aggiungere abbozzando una risata:
«Però prima dovrò farmi una
doccia».
«Lo farò», rispose Catherine dolcemente.
Quindi, del tutto all'improvviso si rivolse al detective, il quale si
costrinse a celare tutto il dolore dietro un enorme punto
interrogativo. «Qui c'è qualcuno che vuole
parlarti».
Steve gli passò lo smartphone e quando capì di
chi si trattava gli diede una carezza sul viso con occhi tristi e si
allontanò, ma Danny lo ignorò: l'ultima cosa che
gli serviva era arrabbiarsi, nelle sue condizioni. Come osava guardarlo
con quegli occhi, come se gli avesse appena fatto un torto, quando lui
per primo si era messo a programmare una serata romantica con
Catherine?
«Ciao», esclamò in un sospiro di
sollievo. Vedere Amber fu quasi lenitivo per ogni sua ferita,
specialmente per quelle sul cuore.
«Ciao Jersey».
«Ciao, dolcezza. Sei fantastica».
La ragazza sorrise mesta. «È stata una
giornataccia, eh?».
«Scusa per stamattina, volevo chiamarti ma...».
«Lascia perdere. Ho già sentito la scusa "Sono
rimasto sotto un edificio"».
Danny ricambiò il sorriso. «Riderei, se non stessi
così male. Tu come... come hai saputo che ero
qui?».
Amber si corrucciò, come se la risposta fosse ovvia.
«L'hanno detto in TV».
Il terrore lo avvolse con una coperta bagnata al solo pensiero di sua
figlia sola e spaventata per ciò che stava
succedendò al suo papà.
«Okay, Amber, ascoltami. Ehm... Grace uscirà da
scuola tra pochi minuti e... Rachel è fuori
città».
«Certo, vado a prenderla io», lo
anticipò. «E... che cosa vuoi che le
dica?».
«Ah... Dille che sono in ritardo, che tornerò a
casa presto».
Con la coda dell'occhio scorse Steve, seduto su un cumulo di macerie un
po' più in là, passarsi una mano sulla bocca,
preoccupato tanto quanto lui. Gli tornarono alla mente le parole che
aveva detto quella mattina alla sua scimmietta, a proposito del fatto
che Steve le avrebbe sempre voluto bene, e realizzò
pienamente che non le aveva detto una bugia.
«Non lasciarle usare il telefono»,
continuò, elencando sulle dita di una mano. «Ah,
non farla uscire di casa... E non farle guardare la TV».
«Quindi vuoi che le dica che è in
punizione», ricapitolò la ragazza, sorridendo
sbarazzina.
«Esatto, dille che è in punizione».
«Ma vorrà parlare con te...».
«Dille che parleremo presto».
E a quel punto non poteva più permettersi di pensare di
morire: doveva tornare dalla sua scimmietta, doveva mantenere la
promessa che le aveva fatto quella mattina.
*
«Grazie per avermi fatto parlare con lui», le disse
Amber, con gli occhi davvero intrisi di gratitudine.
«Non c'è problema», rispose Catherine,
ricambiando il sorriso.
Quando l'aveva vista arrivare al fianco di Kono si era sentita presa
letteralmente per i fondelli: per quale motivo Danny si faceva una
ragazza dieci anni più giovane di lui, quando in
realtà era innamorato perso di Steve? Poi aveva capito,
rendendosi finalmente conto che quello che aveva pensato il giorno
prima non era una semplice fantasia: Steve aveva davvero preferito lei
a Danny, alla resa dei conti. O forse era davvero una fantasia tutta
sua ed era stato Danny ad allontanarsi dal comandante, magari per un
motivo che non aveva nulla a che fare con lei. Improbabile, visto gli
sguardi pieni di desiderio che a volte lo aveva sorpreso rivolgergli,
quando Steve stesso era distratto, ma d'altronde le alternative erano
talmente tante che avrebbe potuto scervellarsi fino alla fine dei suoi
giorni.
«Secondo te ce la faranno?».
Catherine sbatté le palpebre, scoprendo che Amber era ancora
al suo fianco, a torturarsi il bordo del vestitino bianco e blu con le
mani.
«Certo», rispose senza pensarci su due volte. Non
poteva pensare altrimenti, o sarebbe crollata. «Danny e Steve
se la cavano sempre. L'importante è che rimangano
insieme».
La sua stessa frase fu una pugnalata nello stomaco, ma mantenne la
propria espressione confidente.
«Steve è il tuo ragazzo?», le chiese
ancora, come se fare gossip fosse di qualche utilità.
Catherine però non se la sentì di risponderle
male e cortesemente rispose: «Una cosa del genere».
«Danny mi ha parlato così tanto di lui... Da
quello che ho capito lo fa impazzire la maggior parte del tempo, ma gli
vuole bene».
Il tenente Rollins invidiava il suo sorriso intriso di tenerezza, la
sua ingenuità. Per un attimo fu anche tentata di dirle che
gli voleva
più
che bene, ma fu solo un attimo: non spettava a lei darle quella notizia.
«Sì, per loro gridarsi contro è una
manifestazione d'affetto», commentò, sollevando
nervosamente un angolo della bocca. Quindi levò il capo e
finse che Grover l'avesse chiamata come scusa per congedarsi.
«Scusami, non volevo trattenerti. È solo che sono
terrorizzata dall'idea di dover andare a prendere Grace a scuola. L'ho
conosciuta questa mattina e...».
«Grace è una bambina meravigliosa, è
impossibile che possa andare male», la rassicurò,
posandole una mano sulla spalla e sorridendole, quella volta
sinceramente.
Su quello non doveva mentire: la figlia di Danny era davvero speciale.
Per questo fino ad allora non aveva mai fatto caso all'attaccamento di
Steve, o al fatto che Grace lo chiamasse "zio". Ora, sapendo quello che
sapeva, vedeva sì tutto da un altro punto di vista, ma la
dolcezza e l'innocenza di quella bambina restavano immutate.
«Okay, allora vado». Amber respirò
profondamente per farsi coraggio. «Ahm... Posso chiederti un
ultimo favore?».
«Certo».
«Se ti do' il mio numero, mi chiameresti nel caso ci fossero
novità?».
Catherine annuì con un cenno del capo, accarezzandole il
braccio.
Amber teneva davvero a Danny e non aveva nessuna colpa per questo,
quindi era intuile provare rabbia nei suoi confronti. La mora si mise
il cuore in pace e sperò che la ragazza non soffrisse mai
quanto lei in quel momento.
*
Iniziarono a spostarsi tra le macerie, seguendo le indicazioni che
Grover e il capo della squadra di soccorso avevano dato loro, ma si
ritrovarono fin troppo presto davanti ad un muro di detriti. Solo a
guardarlo, un pezzo di lamiera cadde verso di loro, immobilizzando
Steve sul posto.
Aspettò che Danny lo raggiungesse e poi disse:
«Diamoci da fare, dobbiamo uscire d'accordo?».
Con la luce della torcia indicò una conduttura dell'aria e,
pur sapendo di domandargli molto, non poté far altro che
chiedergli di aiutarlo a spostarla.
Danny non si tirò indietro, da vero soldato, ma
lanciò comunque una delle sue battutine: «La
peggior partita a jenga di sempre».
Sotto i loro sguardi incerti, proprio come se si trattasse del famoso
gioco da tavolo, guardarono il pezzo che avevano spostato cadere a
terra. Non morirono schiacciati dal resto dell'edificio,
perciò fu una buona mossa.
Passarono attraverso lo stretto passaggio e Steve iniziò a
sentirsi soffocato dal silenzio più che dalla mancanza di
ossigeno, quindi disse la prima cosa che gli passò per la
testa.
«Carina».
Danny non si voltò a guardarlo, troppo concentrato a non
inciampare. «Come?».
«Amber. E si vede che ci tiene a te».
«Sì, probabilmente rovinerò tutto come
sempre. Giusto? La felicità non è nel mio
DNA».
Steve sapeva che prima o poi le parole che gli aveva rivolto quella
mattina gli si sarebbero rivolte contro, ma non pensava che Danny
sarebbe riuscito nell'impresa di tirare fuori la sua
suscettibilità in quella situazione. Forse aveva esagerato,
ma era così frustrato da come Danny si tirasse sempre la
zappa sui piedi che non aveva potuto trattenersi.
«Senti, non era questo che volevo dire»,
provò a difendersi.
«No, sono... ufficialmente d'accordo con te.
C'è... qualcosa di sbagliato, nel modo in cui sono
fatto».
Il SEAL sentì il cuore spezzarsi in due a quelle parole.
Come poteva pensare questo? Come poteva pensare che
lui, proprio lui,
avesse voluto dire una cosa del genere?
«Cioè... Non riesco a godermi la
felicità come le persone normali»,
continuò faticosamente, continunando a procedere a gattoni
tra le macerie. «Capisci?».
«Non sei un po' troppo duro con te stesso?», gli
domandò, senza sapere bene che altro dire. Non poteva
smentire ciò che aveva detto e difenderlo a spada tratta -
sarebbe suonato falso - né fargli capire che lo amava anche
per questi suoi complessi - lo avrebbe dipinto come doppiogichista,
specialmente dopo la proposta che aveva fatto a Catherine senza nemmeno
curarsi della sua presenza, da vero insensibile.
«No, non credo. Quando ero bambino e i miei genitori uscivano
a cena, se facevano più tardi del previsto facevo strani
pensieri su possibili incidenti solo perché erano in ritardo
di un quarto d'ora e dicevo: "Dio, prendi mio padre, non mia madre, non
posso vivere senza"».
Steve era grato che Danny fosse davanti a lui e non si voltasse mai a
guardarlo, perché lo avrebbe trovato a bocca aperta,
sconvolto.
«Quando c'è qualcosa a cui tengo, io riesco
solo... riesco solo a pensare al peggio, non so fare altro».
Danny si lamentò per il dolore al fianco e si
fermò per appoggiare la schiena alla parete del cunicolo.
Lui decise di fare altrettanto, troppo scosso da ciò che gli
aveva appena confessato.
Puntandogli la torcia poco sotto al viso per non accecarlo, gli chiese:
«Sul serio?».
«Sì».
«Non è una cosa normale»,
affermò.
«Lo so che non è normale».
Ora le cose avevano tutte un altro senso. Tutte le paure riguardanti la
loro relazione, ad esempio: Danny non aveva mai temuto la reazione
degli altri, come aveva spesso detto, ma solo ciò che
sarebbe successo se fosse finita male. Gli tornò in mente
anche la conversazione che aveva avuto ormai tre anni prima con Nora -
mio Dio, avrebbe dovuto chiamarla uno di quei giorni - e giunse alla
conclusione che c'erano ancora molte cose che non sapeva del partner.
«E senti questa: il giorno del mio matrimonio, mentre
guardavo Rachel e stavo per dire: "Lo voglio"... non facevo altro che
pensare che mi avrebbe chiesto il divorzio. Non scherzo, io... Non lo
so, ma l'unica fonte di felicità prolungata che ho avuto
fino adesso è Grace. Ed è solo questione di tempo
prima che compia diciotto anni e se ne vada a vivere con qualche
cretino».
Steve era sempre più sconvolto e dispiaciuto per il collega,
profondamente dispiaciuto. «Devi cambiare amico, non puoi
vivere così».
«Beh, vorrei tanto cambiare, ma non è
così semplice, sai?».
«Inizia con Amber allora», esclamò,
pensando che se per loro due era ormai troppo tardi, con Amber aveva
ancora una possibilità. «A piccoli passi. Non la
allontanare. Non fissarti su come ti spezzerà il cuore e ti
distruggerà la vita».
Lo sguardo malinconico di Danny e il suo respiro affannato lo stavano
facendo impazzire di dolore e Steve, sentendo un nodo in gola tanto
grande da fargli male, tentò di mandarlo giù
deglutendo per finire il discorso: «Prova ad includerla...
avvicinala». Con lui avrebbe funzionato, poco ma sicuro.
Dopo una pausa lunghissima, Danny rispose: «Farò
un tentativo», ma glielo si leggeva in faccia che non ci
credeva davvero.
«Cosa?».
«Le darò una
chance,
se uscirò vivo da qui».
«Davvero?».
«Sì, davvero».
Era inutile continuare ad insistere, costringerlo a farsi dire la
verità, perciò decise di credergli.
«Bene. Grandioso!».
«Grazie...».
Danny si era riposato abbastanza e si sollevò per fare
qualche passo, subito seguito dal SEAL. Non avevano toccato nulla di
particolare, eppure l'edificio decise di collassare e per un attimo
Steve ebbe paura di perdere di vista Danny per colpa delle macerie, ma
per fortuna la scossa durò poco e non vennero separati. La
cattiva notizia? La loro unica via d'uscita non era più
agibile. Erano bloccati.
*
Avrebbe voluto che Steve gli avesse dato quei consigli quando le sue
paranoie includevano proprio lui, ma quello era un treno perso ormai.
Tanto perso che il giorno prima si era ritrovato a dire le stesse cose
a Catherine, a proposito del farsi avvicinare nuovamente dal SEAL.
Guardò uno Steve cocciuto come un mulo infilarsi sotto la
lastra di cemento e spingerla con tutte le sue forze, senza
però riuscire a smuoverla di un millimetro. Urlò
di frustrazione, col sudore ad imperlargli il viso e le braccia.
«Che fai?», gli chiese Danny, già
consapevole della perdita di tempo.
McGarrett non poté far altro che ammettere:
«È troppo pesante».
«Devo avere un atteggiamento positivo anche
adesso?», fece in tono sarcastico.
Steve si voltò verso di lui e con la torcia
esaminò qualcosa sopra la sua testa, mentre l'edificio
continuava a cigolare e fremere. Quanto tempo avevano, prima che si
piegasse definitivamente su se stesso, schiacciandoli e condannandoli a
morire soffocati?
«Che cosa stai cercando?».
«Cercavo quello».
Danny sollevò gli occhi e notò un tubo piegato ad
angolo retto che sembrava proprio sostenere il pezzo di cemento sopra
di lui. Qualsiasi cosa avesse mente, sarebbe stato un rischio enorme e
l'avrebbe odiato per questo. L'avrebbe odiato anche se alla fin della
fiera fosse riuscito a tirarli fuori da lì.
«Vedi quel pezzo di tubo sopra di te?», gli
domandò, retorico. «Spezza la parte che sporge e
passamelo».
Sapeva che se ne sarebbe pentito, ma mentre si metteva all'opera gli
chiese: «Che vuoi farci?».
«La lastra di cemento... voglio farla esplodere».
Danny socchiuse gli occhi. Sapeva che se ne sarebbe pentito, solo non
sapeva quanto. Da una scala da uno a dieci, un'esplosione volontaria
era grado cento di pentimento.
«Che vuoi fare? Come fa a non finire con la nostra morte?
Salteremo in aria».
Il comandante non gli rispose, troppo concentrato a recuperare dalle
sue mille tasche e borselli tutta l'attrezzatura da piccolo kamikaze.
L'aveva già visto trafficare con gli agenti chimici,
riuscendo a tirar fuori risultati da esperto della scientifica con
ciò che aveva a disposizione, tanto che più volte
si era chiesto che razza di addestramento o di esperienze avesse avuto
nella Marina.
Durante il loro viaggio in Cambogia Steve aveva aperto brevemente
l'argomento, facendogli solo intuire che le sue missioni erano state
pericolose e che più volte aveva dovuto prendere decisioni
tanto difficili da aver lasciato profonde ferite sul suo cuore.
Attualmente, sperava soltanto che quello che aveva in mente fosse ben
calcolato e non l'ultimo asso nella manica, con un cinquanta e
cinquanta di possibilità di uscirne vivi.
«Si chiama carica direzionale: l'energia dell'esplosione va
solo da una parte», gli spiegò alla fine, quando
ormai si era arreso a fare solo il lavoro da ape operaia. In quel
momento stava colpendo una parte del tubo con una pietra, in modo da
chiuderla e farla somigliare ad un tubetto di dentifricio.
«Quello che sta dietro, in teoria, dovrebbe essere al
sicuro», aggiunse, con un'espressione dubbiosa che non
prometteva nulla di buono.
«In teoria? Nulla di quello che hai detto sembra teorico,
okay?».
«Non posso fare di più»,
confessò Steve, facendogli salire un groppo in gola.
La faceva facile lui, lamentandosi e criticando ogni sua idea.
Cos'avrebbe fatto, senza di lui? Sarebbe stato ancora con la gamba
bloccata sotto la balustra, con la ferita al fianco che andava in
setticemia e rischiando di morire dissanguato. Steve stava facendo
tutto il possibile per salvarli e non si meritava la sua ingratitudine.
Ciò nonostante, non riuscì a dirgli nulla di
tutto questo, dato che era colpa sua se in primo luogo si erano
lasciati attirare in quella trappola. Gli passò
semplicemente il tubo piegato, per poi rimanere in silenzio ad
osservarlo.
«Bene. Okay».
Steve aprì il contenitore della polvere da sparo che aveva
precedentemente estratto da una granata e ne versò il
contenuto nel tubo.
Danny avrebbe voluto ringraziarlo, dirgli che qualunque cosa sarebbe
successa aveva apprezzato tutto quello che aveva fatto; avrebbe voluto
dirgli che lo amava, che lo avrebbe sempre fatto, ma la paura prese il
sopravvento e si limitò a chiedere:
«Funzionerà?».
Il SEAL esitò, evitando il suo sguardo. Quindi,
nell'ennesimo slancio di sincerità, rispose piano:
«Non lo so».
*
Steve tirò fuori lo zippo e lo smontò per
estrarvi quello che sembrava proprio un batuffolo di cotone, ma che in
realtà era ovatta imbevuta di benzina. La sistemò
sulla parte ancora aperta del tubo, chiudendovi all'interno la polvere
da sparo, e nel frattempo sentì Danny respirare
profondamente dietro di lui, espirando forte per calmare i nervi.
Avrebbe voluto sapere che cosa gli stava passando nella testa, anche se
era sicuro al novantanove percento che tutti i suoi pensieri erano con
Grace. Era troppo piccola per perdere suo padre e finché
avesse avuto la forza di respirare, avrebbe fatto di tutto per
restituirglielo intatto.
Quando finì di preparare il suo ordigno fatto in casa, si
voltò verso il partner dicendo: «Sta' indietro,
resta lì».
«No», replicò Danny, sollevando una
mano. «Prima di farlo voglio che tu sappia una
cosa».
Il suo cuore perse un battito. Che volesse dirgli quello che lui stesso
era tentato di dire?
«Cosa?».
«Qualsiasi cosa succeda, io... lo dico dal cuore... ti odio
tantissimo».
Non era quello che si aspettava - in effetti era proprio il contrario -
ma il modo in cui lo disse, sorridendo e ridacchiando, gli fece capire
che il significato era proprio quello di un "Ti amo". Danny
però era troppo orgoglioso, troppo poco sdolcinato per
ridursi ad una dichiarazione da film romantico.
Steve si unì a lui nella risata, il cuore ora un po'
più leggero per ciò che stava per fare - qualcosa
che avrebbe potuto ucciderli, se non fosse andato tutto liscio - e
senza guardarlo in faccia per paura di perdere ciò che aveva
appena ritrovato, mormorò: «Anche io ti
amo».
Altre volte gli aveva detto di essere innamorato di lui e in rarissime
occasioni anche Danny aveva parlato di amore, ma non si erano mai detti
quelle due parole in più di tre anni di "relazione". Quale
momento migliore per farlo, se non ad un passo dalla loro possibile
morte?
Aveva appena acceso lo zippo, sfruttando quella poca benzina che era
rimasta impregnata all'interno, quando il detective aggiunse:
«Immagino che ci siano persone peggiori con cui morire sotto
un edificio».
«Vuoi farlo tu, Danny?».
«No, è la tua stupida idea, fallo tu».
Guardò l'amico sollevarsi un po', con una mano sulla ferita
che aveva ripreso a sanguinare, e per la prima volta dopo anni
tornò a pregare perché, se non entrambi, almeno
lui si salvasse. Quindi accese la miccia della sua bomba ed
arretrò frettolosamente, fino a ritrovarsi senza nemmeno a
farlo apposta davanti al corpo di Danny. Si girò, deciso a
guardarlo negli occhi per quella che forse sarebbe stata l'ultima
volta, e poi realizzò che se proprio doveva morire, allora
lo avrebbe fatto baciando la persona che gli aveva rubato il cuore dal
primo momento in cui l'aveva vista.
Il detective però si spostò, avvolgendogli
semplicemente il braccio sinistro intorno al collo e posando la guancia
sulla sua per dirgli all'orecchio: «Catherine sa di noi
due».
La bomba esplose, assordandoli e sommergendoli di polvere biancastra,
ma lasciandoli illesi. Ciò nonostante, Steve si sentiva come
se un altro ordigno, molto più potente, gli fosse appena
scoppiato nel petto.
*
Amber parcheggiò di fronte alla scuola privata frequentata
da Grace ed iniziò a mangiucchiarsi le pellicine, pensando a
cosa avrebbe potuto dirle per non preoccuparla e al contempo non farsi
odiare a morte.
Non contando suo nipote, figlio di suo fratello maggiore, non aveva mai
avuto alcuna esperienza coi bambini e non aveva la minima idea di come
doveva comportarsi, specialmente se la bambina in questione era la
figlia del suo attuale ragazzo, conosciuta solo quella mattina e in
circostanze piuttosto imbarazzanti. L'aveva trovata nella cucina di suo
padre, con indosso solo una sua camicia, e lo sguardo smarrito che le
aveva rivolto l'aveva fatta morire un po' dentro. Possibile che Danny
non le avesse mai parlato di lei, nemmeno una volta?
Forse prima di presentarle voleva essere sicuro che potesse funzionare,
o forse voleva solo aspettare di arrivare in ultima base con lei, cosa
che era successa inaspettatamente la sera prima. Che tempismo perfetto!
Amber era pronta a fare sesso con lui da almeno il quinto appuntamento,
ma Danny era sempre stato molto cauto, dicendo che non voleva
accelerare i tempi. Poi, finalmente, la sera prima l'aveva portata di
fronte alla sua porta invece che riaccompagnarla a casa come al solito.
A lei stava bene, ma era rimasta comunque colpita dal fatto che avesse
improvvisamente cambiato idea. Forse non era riuscito a trattenere
l'eccitazione o forse era stato a causa dei bicchieri di vino di troppo
bevuti a cena. Gli aveva detto di andarci piano, ma Danny l'aveva
tranquillizzata, dicendole che reggeva bene l'alcool. Poteva anche
essere così, ma la cosa l'aveva comunque insospettita, tanto
da chiedergli se fosse successo qualcosa di particolare al lavoro quel
giorno. Di solito preferiva non chiedergli nulla di ciò che
si occupava con la Five-0, per paura di rimanerne impressionata e
preoccuparsi per lui, ma quella volta non era riuscita a resistere.
Il detective aveva liquidato in fretta l'argomento, scrollando le
spalle: «C'è stato un risvolto inaspettato in un
caso che mi sta particolarmente a cuore».
«In effetti mi sembri un po' distratto».
«Perdonami, non era mia intenzione», si era
scusato, accarezzandole la mano.
«Non ti preoccupare. Puoi parlarne con me, se ti
va'».
«In realtà non posso, ma grazie per
l'offerta».
Così aveva lasciato correre, dicendosi che se avesse scelto
Danny avrebbe dovuto accaparrarsi tutto il pacchetto - difetti e
segreti lavorativi inclusi.
Nonostante la serata non fosse iniziata nel migliore dei modi, il
detective si era fatto ampliamente perdonare. Nessuno l'aveva mai
trattata con quella dolcezza, dandole più attenzioni di
quanto realmente necessarie per accenderla semplicemente per farla
stare bene. Peccato poi per l'inconveniente di quella mattina, ma aveva
tutte le intenzioni di rimediare.
La campanella che decretava la fine delle lezioni la costrinse a farsi
coraggio e ad uscire dall'auto per individuare Grace tra le decine di
piccoli studenti tutti uguali con le loro divise azzurre e beige. Alla
fine la scorse ai piedi della rampa di scale e si sbracciò
affinché la notasse. Il suo sguardo passò dallo
stupore alla preoccupazione in un secondo e Amber sentì il
cuore finirle in gola, ma lo costrinse a tornare al suo posto,
riuscendo persino a rivolgerle un sorriso tranquillo mentre
attraversava la strada per raggiungerla.
«Dov'è mio papà?», fu la
prima cosa che le chiese, mettendola ulteriormente in
difficoltà.
La bionda ne sapeva qualcosa a proposito di genitori bugiardi e proprio
perché sapeva come ci si sentiva non avrebbe mai voluto
mentirle, ma doveva farlo per Danny. Fortunatamente - o no - aveva
ricevuto lo stesso dono nel patrimonio genetico, perciò fu
facile dirle: «Danny mi ha chiamata per dirmi che
è bloccato al lavoro e che farà tardi questa
sera».
Grace si intristì un poco, incurvando le spalle in avanti.
«Ma, ehi, perché non ne approfittiamo per
conoscerci un po'?», le domandò, fingendosi
entusiasta. Lo sarebbe stata veramente, se non fosse stata
così preoccupata per le sorti del detective.
«Potremmo, ehm... potremmo andare a casa e cucinare una
cenetta coi fiocchi per il tuo papà, che ne dici? E nel
frattempo chiacchierare un po'».
«Va bene», rispose mogia, seguendola fino all'auto.
Amber sospirò di sollievo, dicendosi che la prima parte -
forse quella più difficile - era andata.
Sistemò lo zaino di Grace sui sedili posteriori e poi si
mise al volante. Sorrise alla ragazzina e mise in moto, senza trovare
un argomento con cui rompere il ghiaccio. Il silenzio
diventò così opprimente che fu la stessa Grace a
parlare per prima, peccato che lo fece per chiedere se poteva accendere
la radio. E rischiare di capitare su una stazione in cui avrebbero
potuto commentare l'esplosione che aveva coinvolto i membri della
Five-0?
«No, non riesco a concentrarmi sulla guida», le
rispose secca, allontanandole la mano dalla pulsantiera sopra la
manopola del cambio.
Grace allora incrociò le braccia al petto e si
concentrò sul paesaggio che scorreva fuori dal finestrino.
Sentendosi tremendamente in colpa e a disagio, Amber cambiò
argomento chiedendo: «Allora, che cosa ti piace fare nel
tempo libero?».
«Mi piace ascoltare la musica, andare in piscina, giocare a
tennis e allenarmi nelle coreografie da cheerleader»,
elencò, senza però mostrare alcuna partecipazione.
«Cheerleader? Caspita, lo sai che anche io al liceo lo
ero?».
Grace non rispose, per nulla interessata, e Amber avrebbe voluto fare
testa-volante, tant'era la frustrazione che provava. Si
rassegnò al silenzio, pregando perché Catherine
la chiamasse presto con qualche buona notizia.
Raggiunsero il suo appartamento e Amber la lasciò entrare
per prima, invitandola a fare come se fosse a casa sua.
Lasciò la propria borsa e lo zaino di Grace sul piccolo
divano in salotto e poi si strinse nervosamente le mani, guardando la
ragazzina mentre girava in tondo, ispezionando ciò che la
circondava. Voleva così tanto farle una buona impressione...
«Non ci sono molte foto qui», esclamò,
soprendendola col suo spirito di osservazione.
«Già. Io... io sono venuta qui per un nuovo
inizio». Era esattamente quello che aveva detto a Danny
quando si erano conosciuti, a quella stazione di servizio. Le sembrava
ancora incredibile pensare che quell'incontro le aveva letteralmente
salvato la vita.
«Da dove vieni?».
«Da New York. Non è lontano da dove abitavi tu,
vero?».
Con quella domanda aveva sperato di direzionare la conversazione a suo
piacimento, ma la curiosità di Grace fu più
forte: «E perché volevi "un nuovo inizio"? Ti
è successo qualcosa di brutto?».
Amber rabbrividì e chinò il capo per sfuggire
all'innocenza del suo sguardo, in grado quasi di farla scoppiare in
lacrime.
«Non è carino ficcare troppo il naso»,
le disse senza pensare alle possibili conseguenze.
Non a caso, quel poco che aveva conquistato con Grace svanì
in men che non si dica: la ragazzina si lasciò cadere seduta
sul divano e cercò qualcosa all'interno del suo zainetto.
Quando la vide tirare fuori il cellulare, dovette correre da lei e
strapparglielo quasi dalle mani.
«Ehi!», si lamentò, corrugando la fronte.
«Mi dispiace, tesoro. Vai a lavarti le mani, così
possiamo cucinare la cena».
«No, voglio il mio papà».
«Te l'ho già spiegato, è al
lavoro».
Grace si imbronciò ancora di più e
tornò ad incrociare le braccia al petto, affondando nel
morbido schienale del divano.
Amber si odiò e sentì la propria forza di
volontà venire meno, ma strinse i denti e girò i
tacchi per non crollare definitivamente. Una volta in cucina,
esclamò: «Se vuoi puoi fare i compiti, oppure
aiutarmi in cucina. A te la scelta».
Pur di non pensare, si mise davvero dietro a spignattare. Ad un tratto,
non sentendo da un po' la ragazzina, si pulì le mani ed
aprì il paravento che dal piano di lavoro si
affacciava direttamente sul soggiorno, trovando Grace piegata sul
tavolino, intenta a disegnare. Le ricordò tantissimo la sua
infanzia, quando anche lei si isolava nel suo mondo di cieli azzurri,
casette immerse nel verde ed omini che si tenevano per mano, pur di non
sentire la mancanza dei suoi assenti genitori.
Respirando profondamente, tirò fuori dal frigo una
confezione di succo di frutta e ne versò un po' in un
bicchiere, poi preparò un sandwich con il burro d'arachidi e
portò il tutto a Grace.
«Ho pensato che volessi fare merenda».
«Non ho fame», rispose atona, senza nemmeno alzare
gli occhi dal suo disegno.
Amber si soffermò a guardarlo e quando si rese conto che
stava ritraendo se stessa con suo padre e gli altri membri della Five-0
la stretta al cuore si fece ancora più intensa, tanto da
convincerla che dirle la verità era la cosa giusta da fare.
Tornò in cucina per recuperare il cellulare della ragazzina
e glielo posò sul tavolino, poi si sedette al suo fianco sul
tappeto.
«Mi dispiace», esordì, ad occhi bassi.
«Non avevo alcun diritto di sequestrartelo. È solo
che...».
«È successo qualcosa al mio papà, non
è vero?».
Amber sollevò il capo, incrociando i grandi occhi scuri di
Grace. Con un sorriso incerto sul volto e le lacrime che minacciavano
di sfuggire alle sue ciglia, disse: «Saresti un detective
eccezionale, lo sai?».
«Danno non ne sarebbe contento però»,
rispose, rivolgendole per la prima volta un sorriso.
Amber, col cuore colmo di gioia, le accarezzò i capelli fino
a posare la mano sulla sua guancia. «Tesoro, il tuo
papà non voleva farti preoccupare, lo capisci?».
La ragazzina annuì, comprensiva. E così Amber le
raccontò quello che era accaduto, dicendole che il suo
papà non era solo, ma con Steve, e che il resto della
squadra, la polizia e i pompieri ce la stavano mettendo tutta per
aiutarli.
Grace era evidentemente sconvolta e terrorizzata dall'idea di perdere
il padre, ma non pianse. Si gettò semplicemente tra le sue
braccia, in cerca di conforto, e Amber le ripeté che sarebbe
andato tutto bene, che non doveva perdere le speranze.
Proprio mentre la rassicurava, qualcuno suonò il campanello.
Entrambe andarono alla porta, trovandosi davanti un agente della
polizia di Honolulu. Per un attimo Amber temette il peggio, ma il
ragazzo le tranquillizzò immediatamente, dicendo che era
stato mandato a prenderle dal tenente Rollins.
«Oh, grazie a Dio! Andiamo, tesoro».
Il tempo di recuperare borsa e cellulare e salirono entrambe sull'auto
della polizia, la quale riuscì a raggiungere il luogo
dell'esplosione in pochissimo tempo.
Nonostante la breve corsa, Grace non si era mai staccata dal suo fianco
e le aveva fatto capire che forse c'era ancora speranza che
diventassero amiche.
«Tu vuoi bene al mio papà?», le aveva
chiesto.
«Certo che gliene voglio».
«Anche se sono io il suo unico vero amore?».
Amber aveva sorriso, accarezzandole nuovamente il capo.
«Penso di poter convivere con questo. E tu? Pensi di potermi
lasciare un po' del tuo papà?».
«Sì, credo di sì. Non sei male come
credevo».
«Non sai quanto sono felice di sentirlo».
*
Danny ringraziò Dio perché Amber non l'avesse
ascoltato e avesse portato lì da lui la sua scimmietta.
Venir travolto dal suo abbraccio, nonostante il dolore alla ferita, fu
ciò che lo riportò alla vita dopo quello che
aveva detto a Steve poco prima che venissero salvati.
Gli sembrava di star
vivendo un dejà-vù: il fischio alle orecchie, la
polvere che gli bruciava gli occhi e la gola e un peso addosso, con le
uniche differenze che quella volta si erano fatti esplodere di loro
volontà e che sul petto non aveva un pezzo di cemento,
bensì il corpo di Steve.
«Amico? Ehi
amico, stai bene?», gli domandò tossendo,
scuotendolo per le spalle.
Se era morto facendogli
da scudo umano, era pronto a giurarlo, sarebbe rimasto incazzato con
lui per il resto della sua vita e poi, a sua volta morto, lo avrebbe
cercato all'Inferno per fargli la ramanzina più epica di
sempre.
Il comandante rinvenne,
aprendo di scatto gli occhi e respirando profondamente, causandosi un
violento attacco di tosse.
«Ha
funzionato», gli disse allora sorridendo, guardando il buco
nella lastra e la debole luce che filtrava da un punto diversi metri
sopra di loro: la loro via d'uscita.
A quel punto Steve
avrebbe dovuto vantarsi delle sue doti, rimproverarlo per aver dubitato
di lui, ma tutto ciò che fece fu guardarlo con espressione
sperduta e ripetere: «Catherine sa di noi due?».
Il sorriso di Danny si
spense lentamente. Se avesse saputo per certo che sarebbero
sopravvissuti, non gliel'avrebbe mai detto.
«Come? Da
quanto tempo?», gli chiese ancora Steve, quella volta con le
sopracciglia aggrottate e quel taglio che dalla fronte attraversava
tutto il setto nasale, dandogli nel quadro d'insieme un'espressione
davvero minacciosa.
«Non lo so.
Ieri sera, prima che andassi via, mi ha raggiunto e mi ha detto
semplicemente che aveva capito che c'era di più tra noi,
che... che a lei stava bene, a patto che tu fossi felice. Pensava di
essere la ruota di scorta, ma le ho detto... le ho fatto capire che non
è così». Abbozzò un sorriso
malinconico, osservando Steve cambiare espressione: dalla spaventata
alla confusa e infine all'affranta.
Danny gli
portò la mano sinistra sulla guancia, finalmente pronto a
dirgli che lo amava anche lui, che lo amava tanto da farsi da parte se
era Catherine quella che voleva. Non ne ebbe il tempo.
«Dobbiamo
uscire da qui», affermò perentorio il SEAL, un
modo come un altro per dirgli che non voleva più parlarne.
Si alzò in
piedi ed afferrò la sua mano per aiutarlo ad alzarsi, poi si
mise alla sua sinistra e si avvolse il suo braccio intorno al collo per
sostenerlo. Insieme raggiunsero il cono di luce da cui provenivano le
voci concitate dei loro amici.
Venne calata verso di
loro una corda con l'imbracatura e senza pensarci su due volte Steve
l'afferrò per sistemargliela addosso.
«No, aspetta,
che fai? Vai prima tu», provò a divincolarsi, ma
la logica schiacciante del SEAL lo fece desistere.
«Devi andare
tu per primo: hai ferite peggiori delle mie e poi non riusciresti mai a
metterti l'imbracatura da solo».
«Okay,
però...».
«Cosa?».
«Guardami
negli occhi, Steve».
McGarrett
allacciò anche l'ultima fibbia e poi sollevò il
viso verso il suo, mostrandosi vulnerabile come non mai. Danny non
poté far altro che sorridere commosso, accarezzandogli
entrambe le guance con le mani.
«Mi hai detto
di dare una chance
a Amber e lo farò, a patto che tu la dia a Catherine. Dille
che cosa provi, okay?».
Steve era ormai
sull'orlo delle lacrime. «Io non...».
Lo interruppe posando le
labbra sulle sue, in un bacio breve e casto; quindi con fare
intimidatorio aggiunse: «E non dirle che ti ho fatto il
discorsetto». Senza lasciargli il tempo di rispondere, Danny
fece uno sforzo e diede un paio di strattoni alla corda
dell'imbracatura, in modo che potessero tirarlo su.
Guardò Steve
dall'alto e gli sorrise nuovamente, pensando di aver fatto la cosa
giusta. Ma allora perché faceva così male?
«Sto bene, scimmietta!», esclamò, per
poi allargare l'altro braccio perché anche Amber si unisse
all'abbraccio. Le strappò anche un bacio a fior di labbra,
continuando a ripere di stare bene.
Si era allontanato subito dalla voragine da cui erano stati estratti,
per nulla desideroso di assistere alla
reunion tra Steve e
Catherine, ma a quanto pareva non doveva essere stata una cosa lunga,
visto che quando sciolse l'abbraccio scorse proprio il SEAL avvicinarsi
a loro col giubbotto antiproiettile allacciato per metà e
un'espressione distrutta.
«Voglio presentarti qualcuno», disse ad Amber,
indicandolo. «Steve McGarrett, Amber».
«Ciao», lo salutò timidamente la bionda.
«È un piacere conoscerti»,
ricambiò cortese, per poi venir anche lui travolto
dall'abbraccio di Grace, a cui posò un bacio sulla testa.
«Anche per me».
«Mi lasciate un attimo con Steve?».
Le due si allontanarono senza dire nulla e Danny notò
Catherine a qualche metro da loro, che li guardava malinconica. Si
spostò, in modo da darle le spalle e far sì che
anche Steve si accorgesse di lei, ma questo non accadde: i suoi occhi
infatti erano fissi su di lui, come se fosse l'unica cosa al mondo,
facendolo sentire sia graziato da Dio che ambito da Lucifero in
persona.
Era stato uno scemo a baciarlo, uno scemo di prima categoria. Era
finalmente riuscito a disintossicarsi dalle sue labbra e ora avrebbe
dovuto rifare tutto da capo, impegnandosi al mille per mille per
evitare di sentire il retrogusto di quelle labbra in ogni altro bacio.
Dunque, per paura che il partner potesse riprendere l'argomento che lui
aveva chiuso in fretta e furia, disse la prima battuta che gli venne in
mente: «Beh, se questo è il potere del pensiero
positivo... a me piace. Bello».
«Stai cercando di dire che avevo ragione? No, scusa, non
voglio suggerire».
Il fatto era che forse era proprio lui quello che voleva riprendere
l'argomento. Sapeva che se ne sarebbe pentito amaramente, se non avesse
pronunciato almeno una volta quelle due benedette parole che Steve - il
più intrepido dei due - era riuscito a dire per primo. Ad
alta voce, senza gesti, pienamente conscio del loro significato.
Danny si umettò le labbra, facendosi coraggio.
«Quando eravamo giù, hai detto... Sì,
prima di fare quella cosa con la bomba, hai detto una frase... beh,
vale anche per me».
«E... cosa avrei detto?».
Ah, come se non l'avesse già capito. Quanto lo odiava.
«Vuoi farmelo dire?».
Steve lo fissava in silenzio, con gli occhi stretti in due fessure,
infastiditi dalla luce del sole pomeridiano dopo tutto quel tempo
passato nell'oscurità, e Danny sentì il cuore
salirgli in gola.
«Vieni qui», lo esortò, invitandolo ad
abbracciarlo. Almeno non l'avrebbe detto guardandolo negli occhi,
affogando nelle sfumature verdi sempre diverse delle sue iridi.
«Ti amo», ammise, dandogli delle pacche sulla
schiena.
«Anche io, Danny», rispose senza esitazione,
stringendolo tanto forte da fargli male alle costole.
Fu allora che capì: era una confessione d'addio. La prova
definitiva che quello che c'era tra loro era vero e sarebbe durato
all'infinito, anche se avrebbero preso strade diverse.
Avrebbe dovuto sentirsi sollevato: era quello che voleva in fondo, no?
Che fosse felice con Catherine. Ancora una volta però fece
tanto male da dover sciogliere l'abbraccio ed allontanarsi
più del dovuto, con una mano a spingere un po' sulla ferita,
in modo da soffocare un dolore con un altro.
*
"Delle belle spiagge"? Che cosa gli era saltato in mente? Sapeva che
Danny odiava la sabbia e l'oceano e tutto ciò che gli
ricordava di trovarsi su un'isola, in realtà.
«Chiamami», fu l'ultima cosa che gli disse -
l'ennesimo errore - prima che si allontanasse per raggiungere Amber e
Grace, le quali lo abbracciarono ai fianchi e lo sostennero fino alla
più vicina ambulanza.
Quando distolse lo sguardo e si voltò, incrociò
lo sguardo di Catherine, ma vi fuggì ancora.
Lei sapeva, forse aveva sempre saputo. La conosceva, sapeva che non era
stupida, eppure aveva creduto di non averle mai dato modo di sospettare
di nulla. Povero illuso.
Ci sarebbe voluto un po' prima che potesse fare pace con se stesso e
riavvicinarsi a lei, dimenticarsi di tutto l'accaduto e voltare pagina.
O forse non sarebbe mai successo: come poteva dimenticare Danny,
soprattutto ora che aveva avuto la conferma definitiva che lo amava?
No, l'unica cosa che poteva fare era accettare che il destino non aveva
mai voluto vederli insieme, felici alla luce del sole. E Catherine, se
davvero teneva a lui, avrebbe dovuto aspettare quel momento. Fino ad
allora, non poteva dirle che l'amava; doveva aspettare che il fuoco
dell'amore per Danny si affievolisse, prima.
Con la coda dell'occhio la vide fare un passo verso di lui e
ringraziò Chin e Kono per aver fatto altrettanto, in modo
che potesse focalizzare tutta la propria attenzione verso di loro.
Ovviamente non portavano buone notizie: avevano rintracciato il
contatto di Spider, il carcerato che aveva fatto la soffiata a Dekker e
a cui loro avevano a loro volta abboccato, finendo in quella trappola
quasi mortale. Altri non era che un ex agente della CIA, un agente che
aveva lavorato nel sud-est asiatico negli anni '70.
Era già stato difficile sopportare che ci fosse qualcuno
intenzionato a colpire la sua squadra, ora che aveva finalmente
realizzato che Danny aveva rischiato di morire perché era
lui che volevano morto, il sangue gli andò al cervello.
Si allontanò senza dire una parola, diretto verso il primo
agente di polizia disponibile perché gli prestasse l'auto,
quando sentì la voce di Catherine chiamarlo. Non si
girò, determinato a fare giustizia, ma dovette fermarsi
quando se la ritrovò davanti.
«Non è il momento, Cath»,
riuscì a dirle a denti stretti, senza rivolgerle contro
tutta la rabbia che lo stava consumando.
«Dovresti farti visitare, prima di fare qualsiasi
cosa», gli disse apprensiva.
«Sto bene».
Il tenente Rollins si spostò per farlo passare, ma lo
seguì fino all'auto che aveva scelto a caso tra le decine
accorse sul luogo dell'espolsione.
Aveva già messo in moto, quando gli chiese: «Non
andremo a mangiare giapponese stasera, dico bene?».
Steve le rivolse un sguardo smarrito, come se si fosse appena ricordato
di quello che le aveva promesso. La rabbia si era per un attimo
diradata, permettendo ad uno sprazzo di lucidità di farlo
ragionare sul significato di quelle parole. Strinse le labbra, davvero
dispiaciuto, e scosse il capo.
Catherine abbozzò un sorriso, muovendo una mano come se non
fosse nulla di importante. «Non ho mai prenotato
comunque».
Il comandante la guardò tornare indietro attraverso lo
specchietto, sentendosi morire dentro ad ogni passo. Forse non era
colpa degli altri se alla fine rimaneva sempre solo, forse era colpa
sua. Anche lui, come Danny, tendeva a tirarsi la zappa sui piedi?
Con quel quesito irrisolto che gli frullava in mente assieme a decine
di altri, strinse forte il volante tra le mani ed indossando nuovamente
la corazza da Navy SEAL in missione fece manovra per uscire dalla zona
transennata, diretto verso Chinatown.
*
«Che cosa diavolo è successo qui?», gli
domandò il paramedico non appena ebbe tirato via il cerotto
di fortuna applicato sulla ferita al fianco.
«Steve McGarrett ha deciso di giocare all'Allegro Chirurgo,
ecco cosa», bisbigliò prima, per poi spiegare
cos'era veramente accaduto: il pezzo di ferro, il sangue, il perossido.
«Impressionante», commentò il ragazzo,
inarcando le sopracciglia. «Ha rischiato di morire, lo sa
detective Williams?».
Sentì Grace stringergli più forte mano e Amber
accarezzargli la spalla, ma non riuscì a distogliere lo
sguardo dalla scena che si stava svolgendo poco più in
là, con Catherine che era riuscita finalmente ad attirare
l'attenzione di Steve piazzandosi davanti a lui. Lo scambio di battute
fu breve e dalla sua posizione non poté capire di che natura
furono, però non fu difficile leggere l'espressione
impotente del tenente Rollins.
«Che cosa stai facendo?», chiese in un mormorio a
Steve.
«Sto suturando la ferita, detective Williams»,
spiegò paziente il paramedico, credendo che stesse parlando
con lui.
Danny gli rivolse un sorriso tirato, stringendo i denti per il dolore,
e tornò a guardare Steve dirigersi innarrestabile come un
carroarmato verso una volante della HPD. Conosceva quella camminata e
poteva immaginare il suo sguardo infuocato, prove che stava per
imbarcarsi in un'altra delle sue missioni. Sospirò,
dicendosi che nonostante i tentativi, sotto quell'aspetto Steve non
sarebbe mai cambiato.
Catherine l'aveva raggiunto e gli aveva detto ancora qualche parola
piegandosi sul finestrino, poi gli aveva dato le spalle e si era
allontanata senza guardarsi più indietro, col viso rivolto
verso l'asfalto. Danny aveva appena perso di vista l'auto che Steve
aveva preso in prestito quando finalmente incrociò i suoi
occhi, i quali gli chiesero il permesso di potersi avvicinare.
«Grace, non dovresti guardare mentre mi ricuciono come una
bambola di pezza», la rimproverò dolcemente il
padre, facendo segno ad Amber di allontanarla.
La ragazza lo accontentò, ma prima di voltarsi gli rivolse
un sorriso malizioso, dicendo: «Io avrei detto come un
orsacchiotto di peluche».
Danny non era dell'umore per smancerie del genere - senza contare che
era stato Steve il primo a paragonarlo ad un orsacchiotto,
soprannominandolo Bubu - ma ricambiò comunque il sorriso.
Amber non era ancora a distanza di sicurezza quando si accorse di
Catherine e la salutò con la mano.
«Grazie per aver mandato quell'agente a prenderci»,
le disse e all'inizio Danny non capì, poi fece due
più due e realizzò che era solo grazie a Cath se
Amber e la sua scimmietta erano lì. Si domandò se
l'avesse fatto per semplice cortesia oppure perché vederlo
sistemato con un'altra donna le avrebbe assicurato zero rivali con
Steve, ma decise che in fondo non voleva una risposta.
Quando finalmente Amber non fu più a portata d'orecchio,
Catherine salì sull'ambulanza e Danny le chiese:
«Dov'è andato Steve?».
«Non lo so, non me l'ha detto».
Poteva leggere chiaramente la sofferenza nei suoi occhi e Danny non
voleva esserne la causa, perciò decise di dirle che ora
anche Steve sapeva, che ci sarebbe voluto del tempo ma che alla fine
avrebbero avuto una seconda
chance.
«Ascolta, Catherine, io...».
«No, Danny. Non le voglio le tue scuse. Ho sempre saputo di
non essere l'anima gemella di Steve. Insomma, abbiamo avuto dei bei
momenti, ma ogni volta che stavo con lui avevo la sensazione che non mi
ritenesse la persona con cui voleva spendere il resto della sua
vita».
Il detective interruppe il contatto visivo e si accorse che il
paramedico si era interrotto e li stava guardando interessato.
«Ehi tu, cuciti di orecchie», gli abbaiò
contro, facendolo tornare a capo chino sulla sua ferita. Quindi si
rivolse nuovamente a Catherine: «Devi dargli un po' di tempo.
Sta attraversando un periodo difficile, con tutto quello che sta
scoprendo a proposito di sua madre».
«Non ne avevo idea». Il tenente Rollins gli rivolse
un sorriso mesto, aggiungendo: «Come ti dicevo, con me non
parla delle cose importanti».
Danny sospirò, arricciando il naso. Per quanto gli
dispiacesse per Catherine, il fatto che Steve lo ritenesse il primo e
l'unico membro della squadra di cui parlare di Doris lo inorgogliva.
«Ha bisogno di tempo? Okay, lo avrà»,
esclamò ad un tratto la mora, umettandosi le labbra.
«Giusto qualche giorno fa ho sentito degli amici che vivono
sul continente e penso che sia il momento adatto per andarli a trovare.
Forse allontanarmi lo aiuterà a capire cosa vuole».
Il detective non era troppo entusiasta dell'idea: conosceva Steve
abbastanza da sapere che la solitudine era il suo peggior nemico e con
lui a Maui con Amber e Catherine sul continente avrebbe rischiato di
fare brutti pensieri.
«Se pensi che sia la cosa giusta...», rispose alla
fine, non potendo costringerla a rimanere.
«Non lo so, Danny. Non so più niente».
Detto questo se ne andò, lasciandolo con uno strano peso sul
cuore.
Il paramedico si tirò su e timidamente disse: «Io
avrei finito».
Danny gli rivolse un'occhiataccia. «Hai finito di applicare i
punti dieci minuti fa, idiota».
Il suo volto divenne dello stesso colore del peperoncino, ma il
detective non si sentì affatto in colpa e si tirò
su dal lettino dell'ambulanza per raggiungere Amber e Grace, sedute su
una panchina del parco poco distante.
«Possiamo andare a casa», esclamò,
accarezzando le teste di entrambe.
Tutte e due lo abbracciarono strette mentre si dirigevano verso l'auto
del detective, intoccata dall'esplosione - almeno lei! - ma Danny
aumentò la stretta sul fianco di Amber per sussurrarle
all'orecchio: «La vacanza a Maui è
confermata?».
«Assolutamente sì», rispose la bionda,
raggiante.
Danny ricambiò il sorriso, anche se segretamente, nel
profondo del suo cuore, aveva tanto sperato che non se ne facesse
più nulla per stare accanto a Steve.
Note dell'autrice:
1) Amo la lingua inglese perché un semplice "I love you"
può significare tante cose. Ovviamente i doppiatori italiani
hanno tradotto nel più casto "ti voglio bene", ma io potevo
mai interpretarlo in quel modo? #mcdannoshipper ! Il primo
vero "Ti
amo" dei McDanno... sarà anche l'ultimo?
2) Catherine e Amber. Okay, non possiamo eliminarle? Allora diamo un
senso alle loro azioni. Catherine ho cercato di farmela amica,
nel senso che l'ho dotata di intelligenza e l'ho fatta apparire come
una donna veramente innamorata, tanto da immolarsi per la
felicità di Steve. Per Amber... lei mi sta simpatica di suo,
e volevo provare ad immaginare cosa fosse successo tra lei e Grace a
"telecamere spente", come mio solito.
Questi due punti sono quelli che avevano bisogno di spiegazioni
doverose. Se avete altre domande, sarò felice di rispondervi
nei commenti oppure sulla mia pagina facebook!
Saluti!
Vostra,
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