Capitolo Uno.
Spalanco
improvvisamente gli occhi con il terrore di essere in ritardo. La
stanchezza mi piomba addosso tanto veloce quanto lo fa il mal di testa.
Mi sento uno straccio, e non ho ancora realizzato dove mi trovo.
Il mal di testa
è maledettamente persistente e mi ci vuole qualche minuto
prima di riuscire a mettere a fuoco la sveglia digitale che si trova
sul mio comodino e che con i suoi numeri rossi e accecanti mi fa venire
voglia di lanciarla contro il muro.
Segna le sette meno
cinque.
Merda!
L’unico
autobus che non fa un percorso di sessanta chilometri per arrivare al
mio liceo passa fra meno di mezz’ora. Inferocita con me
stessa per essermi dimenticata di mettere la sveglia, rotolo
giù dal letto, senza accorgermi minimamente della persona
che dorme pacificamente accanto a me. Non appena mi alzo in piedi mi
accorgo di essere completamente e innegabilmente… nuda. O
meglio, fortunatamente addosso ho almeno i miei orribili slip azzurri a
fiori.
Mi abituo al buio
angusto della mia stanza e comincio a rendermi conto di cosa sia
successo appena qualche ora fa.
Infilo il reggiseno
abbandonato ai piedi del mio letto in meno di tre secondi, poi mi copro
il più possibile, indossando una felpa blu elettrico e un
paio di jeans logori.
È solo
allora, dopo un’accurata ispezione della scia di vestiti che
parte dalla porta della mia camera e arriva al mio letto che mi rendo
conto di non essere da sola qui dentro.
Ora, sfortunatamente,
ricordo alcuni particolari della notte passata.
La macchina di Serena
parcheggiata fuori da casa mia, io che mi preparo ed esco con lei.
Ricordo il Cuba Libre, un locale appena fuori città e da
quel momento in poi, so solamente di aver bevuto un po’
troppo.
Serena, una mia
compagna di classe pluribocciata, non tocca un goccio d’alcol
per tutta la sera, essendo una neopatentata. Deduco perciò
di essere stata l’unica a dare spettacolo.
Mi sforzo il
più possibile, mi spremo le meningi e tento di far
riaffiorare qualche ricordo. Nel frattempo, la persona infilata nel mio
letto si allarga su tutta la superficie e scopre una parte della testa
scura.
È un
ragazzo.
Lo capisco dal respiro
pesante, dal taglio dei capelli e dalla lunghezza del suo corpo.
Con il cuore in gola,
mi avvicino al mio letto e con delicatezza, scosto le lenzuola dal suo
viso, giusto il necessario per capire chi è.
Il verso che mi esce
è a metà fra un gemito e una risata.
No.
È impossibile. Sto ancora sognando. Sì,
sicuramente la sbronza deve avermi stesa peggio di quel che credevo.
Mi tiro uno schiaffo
che mi fa più male che bene, inizio a camminare avanti e
indietro per la stanza, ma purtroppo, accetto alla fine, è
tutto dannatamente reale.
La sveglia sembra sia
stata mandata avanti da un paio di mani invisibili, perché
segna già le sette e dieci.
Devo decidere in
fretta cosa fare. Valuto ogni possibilità, mentre mi dirigo
verso la cucina.
Non
c’è nessuno in casa, come al solito.
Mamma
dev’essere uscita presto, e ha lasciato a me e ai miei
fratelli dei piatti per la colazione sul tavolo della cucina.
Federico non
inizierà i corsi all’università prima
di un paio d’ore e ne approfitta per rimanere a dormire fino
a tardi, quindi farmi portare a scuola da lui è fuori
questione.
Un russare animalesco
mi giunge alle orecchie ancor prima che raggiunga il soggiorno di casa
mia e interrompe il filo dei miei pensieri. Dev’essere mio
padre, tornato a casa nel cuore della notte. Conoscendolo, non si
sveglierà prima di… be’, non si
sveglierà, considerata la notevole quantità di
vodka che ha tracannato. Con un verso disgustato volto le spalle al
divano su cui è disteso e mi dirigo verso il tavolo della
cucina, domandandomi perché mia madre non l’abbia
ancora buttato fuori casa.
Apro il frigo e vi
trovo dentro una bottiglia di latte, che mi verso nel primo bicchiere
pulito che trovo. Faccio il giro del tavolo diretta alla dispensa in
cui sono riposti i cereali, ma un biglietto dagli angoli malamente
tagliati, una scatoletta azzurra e un disegno infantile attirano la mia
attenzione.
Il disegno rappresenta
una bambina biondissima che stringe fra le mani una specie di animale
sconosciuto e lo porge a un altro orribile ibrido mezzo umano e mezzo
troll con i capelli scuri legati in una coda.
Una freccia mi spiega
che l’animale nelle mani della bambina è un gatto
e che “questa sono io”, ossia mia sorella di dieci
anni.
Io, invece, sono il
mezzo troll con i vestiti scuri, e sorrido per ringraziarla del regalo.
Sotto al disegno, il biglietto che riconosco essere stato scritto da
mia madre, dice:
Buon
diciottesimo compleanno, Clar.
Ti
vogliamo bene, mamma, Vale e Fede.
Scarto la confezione
del regalo e vi trovo dentro un ciondolo con una pietra azzurra
sfavillante, che emana luce ad ogni movimento. Sorrido e indosso subito
la catenella.
Mangio velocemente e
poi torno in camera mia, sicura di cosa fare.
Non appena varco la
porta e mi trovo davanti un ragazzo a petto nudo che si guarda attorno
con fare circospetto, a malapena riesco a trattenere un grido.
Raggiungo la mia
finestra e facendo più casino del solito, alzo le tapparelle.
« Cazzo
» si lamenta, coprendosi gli occhi.
« Te ne devi
andare » lo avviso. Raccolgo da terra i suoi abiti, facendo
particolare attenzione a lanciarglieli addosso.
« No,
aspetta. » Sembra acquistare un po’ di
lucidità e rendersi conto di dove si trova.
«
Sei… Oddio, Clarissa. Clarissa, sei tu? Non ci posso
credere. » Si squadra un momento, poi si volta, osserva il
mio letto, le lenzuola spiegazzate e infine posa gli occhi su di me.
« No. Io,
tu, no » balbetta, restando a bocca aperta. Ho
l’impressione che stia trattenendo le risate.
Lancio uno sguardo
alla mia sveglia e mi accorgo che sono già le sette e
venticinque. Ormai prendere l’autobus è fuori
questione. Ignoro il ragazzo e afferro il cellulare sulla mia
scrivania. Digito il numero di Serena e le telefono.
« Stavo per
chiamarti » mi saluta, con la bocca piena. « Tanti
auguri! » sputacchia. No, anzi, non so se sputa, ma dal suono
che sento al telefono, me lo immagino.
« Grazie
» ribatto, secca. Uso poche parole per farle capire che ho
bisogno di un passaggio a scuola. Lei accetta di passarmi a prendere
fuori da casa mia fra un quarto d’ora. Riattacco senza
ringraziare.
Lui intanto si
è vestito e si sta dando un’occhiata intorno con
sguardo imbarazzato. Non mi capacito che, proprio qualche ora fa, io e
lui stessimo probabilmente… nel mio letto. Non so se la
perdita di memoria sia un bene o un male.
« E
così, questa è camera tua » sentenzia
dopo qualche attimo di spiacevole silenzio.
«
Già » rispondo, china sul letto per sistemare le
lenzuola.
« Ricordi
cos’è successo ieri sera? » chiede,
alzando il mento con fare arrogante.
Dire che mi sento in
imbarazzo è veramente un eufemismo. Vorrei che il pavimento
mi inghiottisse in questo preciso istante, trasportandomi in un
universo in cui i ragazzi non rendono discorsi come questi estremamente
sgradevoli, e io passo serate da sobria ricordandomi ciò che
è accaduto la sera precedente.
«
Non… Non sono sicura… Credo che sia
perché… »
« Abbiamo
fatto sesso » chiarisce, con un tono strano, a
metà fra l’interrogativo e il divertito.
Mi lascio sfuggire un
colpo di tosse. Merda, non credevo che lui se ne ricordasse, ma ora non
ci sono più dubbi.
Evito accuratamente di
rispondere e anche quando si piega ad aiutarmi a sistemare il letto,
non incrocio il suo sguardo.
« Devi
andartene » ripeto, in modo più autoritario.
« Ma aspetta qui cinque minuti » aggiungo. Esco
dalla mia stanza, e mi chiudo a chiave nel bagno accanto alla mia
camera.
Decido di concedermi
una breve doccia, così mi infilo sotto il getto
d’acqua calda e ne esco fresca e più lucida. Dopo
essermi rivestita, mi lavo i denti, passo un filo di mascara e
dell’eyeliner nero sulle palpebre e raccolgo i capelli che
non superano le spalle in un piccolo chignon scomposto ma decente.
Lui è
ancora davanti alla porta della mia stanza e mi guarda come se fossi un
fantasma pronto a raccontargli del perché sono tornata dal
mondo dei morti.
Nei suoi occhi scuri
leggo diffidenza e arroganza.
Un suono squillante e
cristallino arriva alle mie orecchie dall’atrio e capisco,
anche dal rombo del motore che sento in strada, che è
arrivata Serena.
Afferro il cellulare e
la borsa con i libri.
« Seguimi
» sospiro, chiudendomi definitivamente la porta della mia
stanza alle spalle, appena ne usciamo.
Lui esegue, ma vedo
che non è per niente contento di dover seguire i miei ordini.
Proprio quando stiamo
scendendo le scale, la porta della camera dei miei genitori si apre, e
ne esce una bambina di dieci anni, bionda e spettinata, con un pigiama
verde e lo sguardo assonnato.
« Clary?
» sussurra, come se stentasse a crederci. Fra le mani sta
torturando un delfino di peluche.
« Tesoro
» la chiamo. Mi avvicino e le sussurro di tornare a dormire,
finché Fede non la sveglierà. Lei annuisce e
sbadiglia, voltandosi verso la camera dei miei. Prima di entrarci,
però, sembra accorgersi del ragazzo che sta in piedi, come
pietrificato, dietro di me e acquista un po’ di
lucidità.
« Ma lui,
non è quello che abita… ? » comincia,
indicandolo con un dito corto e sottile.
« No
» la interrompo. « Torna a dormire Vale. »
Vergognandomi di
ciò che è accaduto ieri sera, spingo il ragazzo.
Un altro trillo mi fa comprendere che Serena è stufa di
aspettare.
Una volta al piano di
sotto, alzo la cornetta del citofono, assicurandomi che mio padre sia
ancora in coma sul divano, e la avverto che sto per scendere.
Spalanco in fretta
l’uscio di casa mia e faccio segno al ragazzo di uscire,
spingendolo non troppo delicatamente sulla schiena.
«
Be’… ci si vede? » dice lui. Capendo che
non ho intenzione di rispondere, con un cenno del capo si congeda e
sale le scale del condominio verso il suo appartamento al piano di
sopra.
Già, il
ragazzo con cui ho appena passato la notte non è altri che
il mio vicino di casa, Leonardo Arcuri, che conosco da anni e a cui
ormai non rivolgo più di un “ciao”.
Imbarazzata e
sconsolata, scendo le scale e raggiungo la Mini nuova di pacca di
Serena. Scivolo sul sedile del passeggero senza dire una parola e lei,
mettendo in moto, mi guarda in modo strano.
« Buongiorno
» dice, in tono gentile, masticando una chewing gum.
« Mmh
» commento, guardando fuori dal finestrino.
« Divertita,
ieri sera? » mi sorride, con sguardo malizioso. Si controlla
le sopracciglia perfette nello specchietto, e poi si concentra sulla
strada.
Ovviamente, lei sa
cosa è successo. Lei sa sempre cosa è successo.
« Divertita
un cazzo. Non ricordo niente, se non che… » Mi si
bloccano le parole in gola. Mi vergogno di me stessa: gli unici ragazzi
con cui sono stata, li frequentavo. Non mi sorprenderei se Leonardo mi
ritenesse una puttana. Me lo meriterei.
«
…sei andata a letto con Arcuri » completa lei per
me. L’avevo detto: Serena sa sempre tutto.
« Merda
» mi sfugge a denti stretti. E poi lo dico ancora e ancora,
finché non mi sento abbastanza una merda.
Evito di raccontarle
come mi sento semplicemente perché non mi fido abbastanza di
lei da poterlo fare.
Raggiungiamo la scuola
in venti minuti e mi si stringe un po’ lo stomaco. Tanto non
posso incontrarlo, sicuramente oggi non verrà a scuola,
cerco di ripetermi.
Mi faccio coraggio ed
esco dalla macchina di Serena. Lei mi squadra, facendomi notare che
sembro una disagiata, vestita in questo modo. Alzo il dito medio nella
sua direzione e a piccoli passi raggiungo l’atrio del Da
Vinci.
Sere mi afferra la
mano e mi trascina con lei, entrando, in elegante ritardo,
nell’aula della 4A. Per fortuna, constato, il professore non
è ancora arrivato.
Sto guardando le facce
dei miei compagni di classe in cerca di Jessica quando un paio di mani
mi fanno voltare e mi abbracciano.
Prima che possa dire
qualcosa, la mia migliore amica mi stringe fortissima.
« Buon
compleanno, Claire! » esclama, gli occhi pieni di
felicità, mostrandomi un sorriso così vero da
farmi quasi male.
Una volta accomodate
ai nostri posti ovviamente vicini, mi porge un pacchettino rosso.
« Jess, te
l’ho detto tante volte: non voglio ricevere re…
»
« Oh, taci e
basta! » mi stronca.
Io eseguo, scartando
il pacchettino, e mi trovo fra le mani una copia nuova di zecca di uno
dei miei romanzi preferiti di Conan Doyle. La ringrazio con un sorriso
e poi ripongo il libro dentro la mia borsa.
Durante le ore di
lezione che ci separano dal magico momento in cui la campanella ci
avviserà che siamo liberi e possiamo andarcene in pace, Jess
ed io chiacchieriamo delle nostre vacanze natalizie, inserendo discorsi
che spaziano dai gusti di caramelle che ci piacciono, ai problemi
legati alle persone depresse. Quando parlo con la mia amica, va sempre
a finire così.
Anche durante i
momenti di silenzio, non mi sento in imbarazzo, non credo che sia
scomodo, per il semplice motivo che entrambe sappiamo che piuttosto di
sprecare fiato in discorsi inutili, preferiamo ascoltare i nostri
silenzi e tentare di interpretare i pensieri che abbiamo in mente.
Cinque minuti prima
della ricreazione, tiro fuori il cellulare dalla tasca e controllo i
messaggi. Il nome di Serena appare sul display e ovviamente mi volto
verso di lei, seduta qualche banco dietro di me e la trovo intenta a
digitare sul touch screen.
Che
palle
Aiutami!
Stasera
si esce, vero?
Ah,
non pensare che mi sia dimenticata di Arcuri. Devi raccontarmi
cos’è successo
La prospettiva di
raccontare ciò che è successo la scorsa notte a
Jess, mi spaventa più di quanto credessi. Lei sa che ho
avuto delle storie e dei trascorsi con alcuni ragazzi e ovviamente non
li approva, soprattutto perché erano più grandi
di me e non avevano esattamente la fama dei bravi ragazzi, ma allo
stesso tempo mi dà sempre i consigli giusti, mi supporta in
qualsiasi occasione e non mi criticherebbe mai.
Sovrappensiero, non mi
accorgo che il Leoni mi sta rivolgendo una domanda. È solo
quando Jess mi dà di gomito sulle costole, che mi risveglio
dal mio stato di trance.
«
Sì » balbetto. « Io…
»
Lancio uno sguardo
alla mia vicina di banco e lei, sussurrando, mi informa sulla domanda
del prof di matematica.
« Ti ha
chiesto di andare alla lavagna a spiegare il teorema di Ruffini
» dice, a denti stretti.
Guardo il Leoni, che
intanto mi sta fissando intensamente.
« Vengo alla
lavagna? »
« Prego
» biascica con la sua voce trascinata. Sposta la sedia in
modo che la sua immensa mole non mi infastidisca ed io a piccoli passi
raggiungo la lavagna.
Afferro il gesso e,
appena mi rendo conto di non ricordare nulla di quelle maledette
regole, il limpido e trillante suono della campanella, annuncia la
ricreazione.
Sospiro di sollievo,
senza ascoltare le raccomandazioni del prof.
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