Come un fiocco di neve

di Eleanor_
(/viewuser.php?uid=246157)

Disclaimer: questo testo è proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Capitolo Uno.

Spalanco improvvisamente gli occhi con il terrore di essere in ritardo. La stanchezza mi piomba addosso tanto veloce quanto lo fa il mal di testa. Mi sento uno straccio, e non ho ancora realizzato dove mi trovo.
Il mal di testa è maledettamente persistente e mi ci vuole qualche minuto prima di riuscire a mettere a fuoco la sveglia digitale che si trova sul mio comodino e che con i suoi numeri rossi e accecanti mi fa venire voglia di lanciarla contro il muro.
Segna le sette meno cinque.
Merda!
L’unico autobus che non fa un percorso di sessanta chilometri per arrivare al mio liceo passa fra meno di mezz’ora. Inferocita con me stessa per essermi dimenticata di mettere la sveglia, rotolo giù dal letto, senza accorgermi minimamente della persona che dorme pacificamente accanto a me. Non appena mi alzo in piedi mi accorgo di essere completamente e innegabilmente… nuda. O meglio, fortunatamente addosso ho almeno i miei orribili slip azzurri a fiori.
Mi abituo al buio angusto della mia stanza e comincio a rendermi conto di cosa sia successo appena qualche ora fa.
Infilo il reggiseno abbandonato ai piedi del mio letto in meno di tre secondi, poi mi copro il più possibile, indossando una felpa blu elettrico e un paio di jeans logori.
È solo allora, dopo un’accurata ispezione della scia di vestiti che parte dalla porta della mia camera e arriva al mio letto che mi rendo conto di non essere da sola qui dentro.
Ora, sfortunatamente, ricordo alcuni particolari della notte passata.
La macchina di Serena parcheggiata fuori da casa mia, io che mi preparo ed esco con lei. Ricordo il Cuba Libre, un locale appena fuori città e da quel momento in poi, so solamente di aver bevuto un po’ troppo.
Serena, una mia compagna di classe pluribocciata, non tocca un goccio d’alcol per tutta la sera, essendo una neopatentata. Deduco perciò di essere stata l’unica a dare spettacolo.
Mi sforzo il più possibile, mi spremo le meningi e tento di far riaffiorare qualche ricordo. Nel frattempo, la persona infilata nel mio letto si allarga su tutta la superficie e scopre una parte della testa scura.
È un ragazzo.
Lo capisco dal respiro pesante, dal taglio dei capelli e dalla lunghezza del suo corpo.
Con il cuore in gola, mi avvicino al mio letto e con delicatezza, scosto le lenzuola dal suo viso, giusto il necessario per capire chi è.
Il verso che mi esce è a metà fra un gemito e una risata.
No. È impossibile. Sto ancora sognando. Sì, sicuramente la sbronza deve avermi stesa peggio di quel che credevo.
Mi tiro uno schiaffo che mi fa più male che bene, inizio a camminare avanti e indietro per la stanza, ma purtroppo, accetto alla fine, è tutto dannatamente reale.
La sveglia sembra sia stata mandata avanti da un paio di mani invisibili, perché segna già le sette e dieci.
Devo decidere in fretta cosa fare. Valuto ogni possibilità, mentre mi dirigo verso la cucina.
Non c’è nessuno in casa, come al solito.
Mamma dev’essere uscita presto, e ha lasciato a me e ai miei fratelli dei piatti per la colazione sul tavolo della cucina.
Federico non inizierà i corsi all’università prima di un paio d’ore e ne approfitta per rimanere a dormire fino a tardi, quindi farmi portare a scuola da lui è fuori questione.
Un russare animalesco mi giunge alle orecchie ancor prima che raggiunga il soggiorno di casa mia e interrompe il filo dei miei pensieri. Dev’essere mio padre, tornato a casa nel cuore della notte. Conoscendolo, non si sveglierà prima di… be’, non si sveglierà, considerata la notevole quantità di vodka che ha tracannato. Con un verso disgustato volto le spalle al divano su cui è disteso e mi dirigo verso il tavolo della cucina, domandandomi perché mia madre non l’abbia ancora buttato fuori casa.
Apro il frigo e vi trovo dentro una bottiglia di latte, che mi verso nel primo bicchiere pulito che trovo. Faccio il giro del tavolo diretta alla dispensa in cui sono riposti i cereali, ma un biglietto dagli angoli malamente tagliati, una scatoletta azzurra e un disegno infantile attirano la mia attenzione.
Il disegno rappresenta una bambina biondissima che stringe fra le mani una specie di animale sconosciuto e lo porge a un altro orribile ibrido mezzo umano e mezzo troll con i capelli scuri legati in una coda.
Una freccia mi spiega che l’animale nelle mani della bambina è un gatto e che “questa sono io”, ossia mia sorella di dieci anni.
Io, invece, sono il mezzo troll con i vestiti scuri, e sorrido per ringraziarla del regalo. Sotto al disegno, il biglietto che riconosco essere stato scritto da mia madre, dice:
 
Buon diciottesimo compleanno, Clar.
Ti vogliamo bene, mamma, Vale e Fede.  
 
Scarto la confezione del regalo e vi trovo dentro un ciondolo con una pietra azzurra sfavillante, che emana luce ad ogni movimento. Sorrido e indosso subito la catenella.
Mangio velocemente e poi torno in camera mia, sicura di cosa fare.
Non appena varco la porta e mi trovo davanti un ragazzo a petto nudo che si guarda attorno con fare circospetto, a malapena riesco a trattenere un grido.
Raggiungo la mia finestra e facendo più casino del solito, alzo le tapparelle.
« Cazzo » si lamenta, coprendosi gli occhi.
« Te ne devi andare » lo avviso. Raccolgo da terra i suoi abiti, facendo particolare attenzione a lanciarglieli addosso.
« No, aspetta. » Sembra acquistare un po’ di lucidità e rendersi conto di dove si trova.
« Sei… Oddio, Clarissa. Clarissa, sei tu? Non ci posso credere. » Si squadra un momento, poi si volta, osserva il mio letto, le lenzuola spiegazzate e infine posa gli occhi su di me.
« No. Io, tu, no » balbetta, restando a bocca aperta. Ho l’impressione che stia trattenendo le risate.
Lancio uno sguardo alla mia sveglia e mi accorgo che sono già le sette e venticinque. Ormai prendere l’autobus è fuori questione. Ignoro il ragazzo e afferro il cellulare sulla mia scrivania. Digito il numero di Serena e le telefono.
« Stavo per chiamarti » mi saluta, con la bocca piena. « Tanti auguri! » sputacchia. No, anzi, non so se sputa, ma dal suono che sento al telefono, me lo immagino.
« Grazie » ribatto, secca. Uso poche parole per farle capire che ho bisogno di un passaggio a scuola. Lei accetta di passarmi a prendere fuori da casa mia fra un quarto d’ora. Riattacco senza ringraziare.
Lui intanto si è vestito e si sta dando un’occhiata intorno con sguardo imbarazzato. Non mi capacito che, proprio qualche ora fa, io e lui stessimo probabilmente… nel mio letto. Non so se la perdita di memoria sia un bene o un male.
« E così, questa è camera tua » sentenzia dopo qualche attimo di spiacevole silenzio.
« Già » rispondo, china sul letto per sistemare le lenzuola.
« Ricordi cos’è successo ieri sera? » chiede, alzando il mento con fare arrogante.
Dire che mi sento in imbarazzo è veramente un eufemismo. Vorrei che il pavimento mi inghiottisse in questo preciso istante, trasportandomi in un universo in cui i ragazzi non rendono discorsi come questi estremamente sgradevoli, e io passo serate da sobria ricordandomi ciò che è accaduto la sera precedente.
« Non… Non sono sicura… Credo che sia perché… »
« Abbiamo fatto sesso » chiarisce, con un tono strano, a metà fra l’interrogativo e il divertito.
Mi lascio sfuggire un colpo di tosse. Merda, non credevo che lui se ne ricordasse, ma ora non ci sono più dubbi.
Evito accuratamente di rispondere e anche quando si piega ad aiutarmi a sistemare il letto, non incrocio il suo sguardo.
« Devi andartene » ripeto, in modo più autoritario. « Ma aspetta qui cinque minuti » aggiungo. Esco dalla mia stanza, e mi chiudo a chiave nel bagno accanto alla mia camera.
Decido di concedermi una breve doccia, così mi infilo sotto il getto d’acqua calda e ne esco fresca e più lucida. Dopo essermi rivestita, mi lavo i denti, passo un filo di mascara e dell’eyeliner nero sulle palpebre e raccolgo i capelli che non superano le spalle in un piccolo chignon scomposto ma decente.
Lui è ancora davanti alla porta della mia stanza e mi guarda come se fossi un fantasma pronto a raccontargli del perché sono tornata dal mondo dei morti.
Nei suoi occhi scuri leggo diffidenza e arroganza.
Un suono squillante e cristallino arriva alle mie orecchie dall’atrio e capisco, anche dal rombo del motore che sento in strada, che è arrivata Serena.
Afferro il cellulare e la borsa con i libri.
« Seguimi » sospiro, chiudendomi definitivamente la porta della mia stanza alle spalle, appena ne usciamo.
Lui esegue, ma vedo che non è per niente contento di dover seguire i miei ordini.
Proprio quando stiamo scendendo le scale, la porta della camera dei miei genitori si apre, e ne esce una bambina di dieci anni, bionda e spettinata, con un pigiama verde e lo sguardo assonnato.
« Clary? » sussurra, come se stentasse a crederci. Fra le mani sta torturando un delfino di peluche.
« Tesoro » la chiamo. Mi avvicino e le sussurro di tornare a dormire, finché Fede non la sveglierà. Lei annuisce e sbadiglia, voltandosi verso la camera dei miei. Prima di entrarci, però, sembra accorgersi del ragazzo che sta in piedi, come pietrificato, dietro di me e acquista un po’ di lucidità.
« Ma lui, non è quello che abita… ? » comincia, indicandolo con un dito corto e sottile.
« No » la interrompo. « Torna a dormire Vale. »
Vergognandomi di ciò che è accaduto ieri sera, spingo il ragazzo. Un altro trillo mi fa comprendere che Serena è stufa di aspettare.
Una volta al piano di sotto, alzo la cornetta del citofono, assicurandomi che mio padre sia ancora in coma sul divano, e la avverto che sto per scendere.
Spalanco in fretta l’uscio di casa mia e faccio segno al ragazzo di uscire, spingendolo non troppo delicatamente sulla schiena.
« Be’… ci si vede? » dice lui. Capendo che non ho intenzione di rispondere, con un cenno del capo si congeda e sale le scale del condominio verso il suo appartamento al piano di sopra.
Già, il ragazzo con cui ho appena passato la notte non è altri che il mio vicino di casa, Leonardo Arcuri, che conosco da anni e a cui ormai non rivolgo più di un “ciao”.
Imbarazzata e sconsolata, scendo le scale e raggiungo la Mini nuova di pacca di Serena. Scivolo sul sedile del passeggero senza dire una parola e lei, mettendo in moto, mi guarda in modo strano.
« Buongiorno » dice, in tono gentile, masticando una chewing gum.
« Mmh » commento, guardando fuori dal finestrino.
« Divertita, ieri sera? » mi sorride, con sguardo malizioso. Si controlla le sopracciglia perfette nello specchietto, e poi si concentra sulla strada.
Ovviamente, lei sa cosa è successo. Lei sa sempre cosa è successo.
« Divertita un cazzo. Non ricordo niente, se non che… » Mi si bloccano le parole in gola. Mi vergogno di me stessa: gli unici ragazzi con cui sono stata, li frequentavo. Non mi sorprenderei se Leonardo mi ritenesse una puttana. Me lo meriterei.
« …sei andata a letto con Arcuri » completa lei per me. L’avevo detto: Serena sa sempre tutto.
« Merda » mi sfugge a denti stretti. E poi lo dico ancora e ancora, finché non mi sento abbastanza una merda.
Evito di raccontarle come mi sento semplicemente perché non mi fido abbastanza di lei da poterlo fare.
Raggiungiamo la scuola in venti minuti e mi si stringe un po’ lo stomaco. Tanto non posso incontrarlo, sicuramente oggi non verrà a scuola, cerco di ripetermi.
Mi faccio coraggio ed esco dalla macchina di Serena. Lei mi squadra, facendomi notare che sembro una disagiata, vestita in questo modo. Alzo il dito medio nella sua direzione e a piccoli passi raggiungo l’atrio del Da Vinci.
Sere mi afferra la mano e mi trascina con lei, entrando, in elegante ritardo, nell’aula della 4A. Per fortuna, constato, il professore non è ancora arrivato.
Sto guardando le facce dei miei compagni di classe in cerca di Jessica quando un paio di mani mi fanno voltare e mi abbracciano.
Prima che possa dire qualcosa, la mia migliore amica mi stringe fortissima.
« Buon compleanno, Claire! » esclama, gli occhi pieni di felicità, mostrandomi un sorriso così vero da farmi quasi male.
Una volta accomodate ai nostri posti ovviamente vicini, mi porge un pacchettino rosso.
« Jess, te l’ho detto tante volte: non voglio ricevere re… »
« Oh, taci e basta! » mi stronca.
Io eseguo, scartando il pacchettino, e mi trovo fra le mani una copia nuova di zecca di uno dei miei romanzi preferiti di Conan Doyle. La ringrazio con un sorriso e poi ripongo il libro dentro la mia borsa.
Durante le ore di lezione che ci separano dal magico momento in cui la campanella ci avviserà che siamo liberi e possiamo andarcene in pace, Jess ed io chiacchieriamo delle nostre vacanze natalizie, inserendo discorsi che spaziano dai gusti di caramelle che ci piacciono, ai problemi legati alle persone depresse. Quando parlo con la mia amica, va sempre a finire così.
Anche durante i momenti di silenzio, non mi sento in imbarazzo, non credo che sia scomodo, per il semplice motivo che entrambe sappiamo che piuttosto di sprecare fiato in discorsi inutili, preferiamo ascoltare i nostri silenzi e tentare di interpretare i pensieri che abbiamo in mente.
Cinque minuti prima della ricreazione, tiro fuori il cellulare dalla tasca e controllo i messaggi. Il nome di Serena appare sul display e ovviamente mi volto verso di lei, seduta qualche banco dietro di me e la trovo intenta a digitare sul touch screen.
 
Che palle
Aiutami!
Stasera si esce, vero?
Ah, non pensare che mi sia dimenticata di Arcuri. Devi raccontarmi cos’è successo
 
La prospettiva di raccontare ciò che è successo la scorsa notte a Jess, mi spaventa più di quanto credessi. Lei sa che ho avuto delle storie e dei trascorsi con alcuni ragazzi e ovviamente non li approva, soprattutto perché erano più grandi di me e non avevano esattamente la fama dei bravi ragazzi, ma allo stesso tempo mi dà sempre i consigli giusti, mi supporta in qualsiasi occasione e non mi criticherebbe mai.
Sovrappensiero, non mi accorgo che il Leoni mi sta rivolgendo una domanda. È solo quando Jess mi dà di gomito sulle costole, che mi risveglio dal mio stato di trance.
« Sì » balbetto. « Io… »
Lancio uno sguardo alla mia vicina di banco e lei, sussurrando, mi informa sulla domanda del prof di matematica.
« Ti ha chiesto di andare alla lavagna a spiegare il teorema di Ruffini » dice, a denti stretti.
Guardo il Leoni, che intanto mi sta fissando intensamente.
« Vengo alla lavagna? »
« Prego » biascica con la sua voce trascinata. Sposta la sedia in modo che la sua immensa mole non mi infastidisca ed io a piccoli passi raggiungo la lavagna.
Afferro il gesso e, appena mi rendo conto di non ricordare nulla di quelle maledette regole, il limpido e trillante suono della campanella, annuncia la ricreazione.
Sospiro di sollievo, senza ascoltare le raccomandazioni del prof.
 




Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3468007