Scesi dal taxi che erano le quattro.
All'appuntamento
mancava ancora mezz'ora, così mi feci lasciare un paio di
vie prima del ritrovo che lui aveva scelto.
Non
conoscevo minimamente la zona in cui mi trovavo, ma la signora che mi
aveva accompagnato fino a lì era stata così
disponibile da fornirmi qualche indicazione utile, in modo da non
perdermi in quella caotica metropoli.
Cominciai
a camminare lungo uno dei ponti che sovrastava il Naviglio, mentre il
traffico tutto attorno mi scansava con sapiente eleganza e maestria.
Indossavo
un vestito blu chiaro che arrivava poco sopra le ginocchia e dei
sandali beige con dei minuscoli strass sul dorso.
Più
proseguivo e più sentivo le mani sudarmi: mi toccai
istintivamente i capelli castano chiari, raccolti in uno chignon
sgangherato, in un gesto che tradiva tutta la tensione che mi faceva
assomigliare ad una corda di violino; ero emozionata, non potevo
negarlo neppure a me stessa, ma anche desiderosa di incontrarlo.
Per
una frazione di secondo, però, la mia mente fu attraversata
dall'incertezza: era giusto quello che stavo per fare? Quanto mi
avrebbe fatto soffrire l'attrazione magnetica e senza riserve che
avvertivo per lui? E, soprattutto, quanto tempo sarebbe durata quella
storia ai limiti della clandestinità?
Ma
non ebbi alcuna remora a rispondermi immediatamente, convincendomi che
lo amavo, che il mio era vero amore, e che questo sarebbe bastato per
l'avvenire ed oltre.
Guardai
con ansia l'orologio nero da polso, accorgendomi che erano
già trascorsi venti minuti.
Mi
incamminai finalmente verso la meta tanto agognata, domandando per
sicurezza ad una ragazza che stava portando a passeggio un barboncino
se quella fosse la strada giusta e, ricevendo risposta affermativa,
proseguii ancora per qualche decina di metri.
Arrivai
davanti all'insegna spenta e poco rassicurante dell'albergo che, di
lì a breve, ci avrebbe accolti, il cuore talmente in
fibrillazione che temevo sarebbe uscito dal petto.
Hotel Astor
rappresentava la mia terra promessa, era ciò per cui avevo
lottato negli ultimi anni, il posto che bramavo da tempo infinito.
Un
brivido di piacere e paura percorse la mia schiena, mentre fissavo la
scritta davanti a me: mi ero immaginata un ritrovo diverso, una sorta
di nido d'amore a cinque stelle, in contrasto quindi con le tre che
poteva vantare, ma era pur sempre meglio di una pensioncina di
second'ordine, e persino di un infimo motel costruito ai lati
dell’autostrada.
Non puoi e non vuoi tornare
indietro ... continuavo a ripetermi, tormentandomi le
dita.
In quei momenti, l'unica cosa per cui pregavo era di piacergli: speravo
infatti di aver scelto l’abito giusto, di essermi spruzzata
il profumo migliore, né troppo dolce e neppure troppo amaro,
di aver acconciato con eleganza i capelli.
Avrei
voluto avere uno specchietto in cui riflettermi, in modo da poter
ritoccare il trucco appena accennato che avevo deciso di spalmarmi sul
viso.
Stavo
aprendo la borsetta bianca alla ricerca del telefonino,
l’unico oggetto che avrebbe potuto servire al mio scopo,
quando avvertii dei passi avvicinarsi alla mia persona, e di scatto mi
voltai.
E
fu il paradiso, perché lui era lì.
“Ciao
…” mi salutò con un sorriso un
po’ tirato, sfiorandomi il braccio sinistro con una mano.
“Ciao
…” ero così nervosa che non mi
uscì null'altro di più sensato.
“Che
dici, entriamo?”
Annuii
felice, gli occhi verdi trasognanti in quelli ambrati e vivaci di lui.
Salimmo
i cinque gradini che ci dividevano dalla soglia, facendo il nostro
ingresso in quell'albergo di fine anni Sessanta, la hall dalla forma
circolare e le tonalità dell'oro ad attenderci.
Dall’esterno,
avrei giurato che saremmo sembrati la più normale delle
coppie, magari spossata dopo un infinito giro turistico per la
città.
Certo,
poteva apparire tutto perfettamente normale, eccetto per un
particolare: io non ero la sua compagna ufficiale, ero solo la sua
nuova amante.
La
camera che aveva prenotato si trovava al quarto piano, in
prossimità dell'uscita di sicurezza.
Era
la stanza più discreta del lungo corridoio che percorremmo
per raggiungerla, adornato da riproduzioni di quadri di Van Gogh e
minuscoli tavolini rotondi da cui strabordavano piante grasse.
Le
cifre sulla porta immacolata recitavano il numero 433.
Mentre
lui apriva l'ingresso, di nuovo avvertii quella strana sensazione e
quel brivido d'incertezza infantile percorrermi la schiena, esattamente
come pochi minuti prima.
Deglutii
nervosa ed eccitata, non potendo far altro che ammirare la bellezza di
quelle mani che mi invitavano ad entrare.
Il
rumore della porta che si richiudeva dietro di noi era come musica per
le mie orecchie, come una delle sinfonie di Beethoven che adoravo
ascoltare nei momenti di riflessione.
“Se
vuoi, faccio portare dello champagne …” propose,
avvicinandosi pericolosamente a me.
“Non
lo so, cioè, non credo sia necessario, però
…”
“Sei
nervosa?”
La
sua voce flautata risuonò nella stanza, formata da un ampio
letto con il copriletto rosso, un armadio che occupava un'intera parete
ed uno scrittoio con due sedie, sopra cui era stata posizionata una
televisione dallo schermo ultrapiatto.
Lui
mi abbracciò con quella dolcezza che tanto avevo amato, fin
dal primo istante, e mi ritrovai con il capo sul suo petto, avvolto da
una camicia azzurrina.
Il
profumo che gli avevo sempre sentito addosso mi stava inebriando i sensi, risaliva
come un piacevole effluvio per le narici e si addentrava tra i miei
neuroni, tanto che, per un istante, temetti di svenire.
“Non
devi avere paura. Andrà tutto bene, te lo
prometto”
Mi
allontanò con dolcezza e, le mani ai lati del mio viso, lo
avvicinò al proprio, per baciarmi subito dopo.
Fu
un bacio bellissimo, un bacio lento e calibrato, che esprimeva tutto il
calore che fuoriusciva dai nostri corpi vagamente sudati per il caldo.
Ero
così felice, così stordita, che desideravo
solamente che quel momento non avesse mai fine.
Volevo
rimanere lì per sempre, non mi importava del resto: l'unica
cosa che mi interessava era che lui fosse con me, che mi stringesse tra
le sue braccia e mi amasse, fino alla fine dei tempi, fino allo
stordimento, fino alla stanchezza più totale.
Cominciammo
a retrocedere verso il nostro giaciglio, che ci premurammo di scoprire
dal copriletto infuocato che lo avvolgeva.
Senza
guardarlo negli occhi, presi a sbottonargli la camicia, mentre lui si
slacciava i pantaloni.
Quando
finimmo quel primo passo, aspettai che mi calasse le spalline del
vestito, gesto che non attardò ad arrivare, rivelando la
voluta assenza del reggiseno sotto di esso.
L'abito
si adagiò su se stesso, attorcigliandosi sul parquet
scricchiolante come un serpente in preda all'ipnosi degli incantatori
indiani.
Mi
tolsi i sandali e lui fece lo stesso con i mocassini Lumberjack color
castagna.
Finalmente
fummo pronti per adagiarci sul letto, il momento che maggiormente avevo
temuto e, in tutta sincerità, ancora temevo.
Lui
mi attirò a sé, continuando a baciarmi e
sovrastando il mio corpo protetto solo da un paio di slip bianchi.
Cominciai
a respirare affannosamente, durante un attimo di tregua in cui le
nostre bocche avevano smesso di cercarsi, mentre mi sussurrava ad un
orecchio di stare tranquilla, di non preoccuparmi di nulla,
promettendomi ancora una volta che sarebbe andato tutto per il meglio.
Poi,
spostò le sue belle labbra sui miei occhi, quindi sul naso,
sul collo e sulle spalle, regalandomi continui sprazzi di sogno.
In
quei momenti, pensavo solamente a quanto fossi felice, veramente felice
ed appagata: non desideravo niente se non lui, lui che era diventata la
mia ossessione, lui che era lì insieme a me, lui che mi
avrebbe protetta da tutto e da tutti.
Mi
prese le mani e le intrecciò alle sue, stringendo con forza
e delicatezza le mie dita, come se non volesse più lasciarle
andare.
Inarcai
la schiena in un brivido di piacere, aspettando che tutto
finì.
E
così accadde, infatti.
Ma
quella, ero convinta, non era la fine di nulla, era piuttosto l'inizio
di tutto.
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