Autore: _ A r i a
Titolo: —
glass, broken as your soul
Fandom: Tokyo ghoul
Genere: angst,
introspettivo, malinconico
Personaggi: Kaneki
Ken, Kirishima Ayato, Kirishima Tōka
Rating: Verde
Introduzione:
Fanfiction partecipante al contest “Take a picture and never
forget” indetto da Sethmentecontorta sul forum di EFP
C’era
qualcosa di diverso, però, Tōka se ne accorse quasi subito;
era lo scricchiolio leggero sotto la suola delle sue scarpe, quella
presenza acuminata che non passava inosservata.
La
ragazza abbassò subito lo sguardo, ritrovandosi a fissare
delle trasparenti schegge di vetro, che sotto i raggi morenti del sole
risplendevano di una luce intensa e cristallina.
Tōka
le osservò confusa, come se continuasse a non tornarle un
dettaglio. Alzando lo sguardo, la vista che si rivelò
davanti ai suoi occhi fu piuttosto deludente: le vecchie boccette
d’inchiostro, che lei e suo fratello avevano svuotato e
lavato per i loro fiori, adesso erano in frantumi.
Solo
alcuni dei vasetti erano ancora in piedi, principalmente vuoti o
contenenti fiori pressoché secchi; era strano, dopo
così tanti anni non si aspettava di trovare tracce di piante.
Puntò
di nuovo lo sguardo verso il basso, e solo allora sembrò
notare un altro particolare. A terra, accanto alle schegge di vetro,
c’erano alcuni piccoli sassi.
Note dell’autore:
in fondo alla storia
Cirri
rosati aleggiavano miti nell’atmosfera mentre un tramonto
primaverile infiammava lo skyline di Tokyo e donava tinte purpuree al
cielo vespertino e alle pareti dell’Anteiku.
Tōka
si passò il dorso della mano sulla fronte, catturando alcune
perle di sudore e i primi segni di stanchezza.
Aveva
momentaneamente abbandonato sul ripiano della caffetteria il cencio con
il quale stava spolverando: la giornata lavorativa si era ormai
conclusa da un’ora buona, tuttavia come ogni giorno lei e
Kaneki avevano finito per intrattenersi oltre l’orario di
chiusura del locale, pur di far risplendere ogni cosa da cima a fondo.
Si
voltò per un momento ad osservare il suo collega, dalla
parte opposta del bancone. Kaneki reggeva tra le mani una spazzola per
pavimenti, con la quale stava lucidando attentamente il parquet a terra.
Tōka
valutò tra sé che quella era stata una giornata
particolarmente faticosa: il capo si era assentato per tutto il giorno,
comunicandole che sarebbe stato impegnato in delle commissioni
importanti. Così lei e Kaneki erano dovuti rimanere da soli
ad occuparsi del locale.
Quel
giorno, stranamente, l’Anteiku le era sembrato più
affollato del solito; come se tutto ciò non bastasse, alla
fin fine aveva dovuto occuparsi di quasi tutto lei: Kaneki era nuovo,
ancora giovane e inesperto, pertanto con lui incidenti come una dose
eccessiva di acqua nel caffè erano all’ordine del
giorno. Tutti imprevisti che, tuttavia, non potevano permettersi, con
una tale folla ad occupare il locale, pertanto Tōka aveva cercato di
sobbarcarsi una quantità di ordini maggiore, al fine di
scongiurare l’eventualità di qualche danno da
parte di Kaneki.
Ora
che era finalmente riuscita ad arrivare a fine giornata, con il locale
ancora tutto in piedi, quasi stentava a crederci.
Sembrò
accorgersi solo in quel momento che Kaneki aveva smesso di spolverare e
la stava fissando intensamente; Tōka gli rivolse un’occhiata
torva e lui sobbalzò sul posto, aprendo e chiudendo la bocca
un paio di volte, come per dire qualcosa, poi però
sembrò ripensarci, sigillò per
un’ultima volta le labbra, mentre arrossendo tornò
ad abbassare lo sguardo, in imbarazzo, riprendendo subito a pulire.
Tōka
quasi sogghignò, soddisfatta, mentre si voltava verso il
ripiano di legno alle sue spalle, sul quale erano accuratamente riposti
diversi barattoli di vetro, contenenti miriadi di chicchi di
caffè.
Non
sapeva perché, Tōka era assolutamente certa di aver visto
quei barattoli milioni di volte, eppure quella sera le parvero diversi:
forse per l’angolazione, oppure per la luce intensa del
tramonto, solo che adesso non riusciva a distogliere lo sguardo da
questi ultimi, le sembrava di non essere capace di fare qualcosa che
non fosse fissare quei recipienti vitrei.
E
ben presto non seppe più quale fosse la realtà e
quale l’immaginazione.
I ricordi si
succedevano nella sua mente con una velocità che aveva del
surreale, ecco perché non sapeva più distinguere
il vero dal falso.
La prima
immagine, seppur sfocata, che i suoi occhi riuscirono a inquadrare fu
quella di un fiume dalle acque limpide, che scorreva placidamente
davanti a lei.
Scorse poi un
braccio, che dalle dimensioni e le fattezze piuttosto esigue doveva
essere quello di un bambino, impresso nella memoria del tempo
nell’attimo in cui stava lanciando dei sassolini attraverso
lo specchio della superficie del fiume, e dopo delle risate
cristalline, infantili, mentre due bambini –un maschio e una
femmina– si rincorrevano lungo le sponde del ruscello, felici
e spensierati, le carpe che, indifferenti, continuavano a nuotare
tranquille, mentre gli occhi apprensivi di un uomo seguivano
ogni minimo movimento dei ragazzini.
Man mano che
rimaneva a immergersi in quella che aveva ormai intuito essere una
visione, la vedeva arricchirsi ancora di nuovi dettagli: la
verdeggiante vegetazione che cresceva tutt’attorno a quella
scena, costituita da ciuffi d’erba smeraldini in
prossimità del fiumiciattolo e alcuni alberi, principalmente
pioppi e cipressi, più in lontananza, oppure le panchine in
legno poco distanti e i ciottoli incastonati nel vialetto.
Tōka
arrivò alla conclusione che quello che vedeva davanti ai
suoi occhi non era che un piccolo parco, nella periferia di Tokyo.
Le voci, i
suoni e i rumori cominciarono d’un tratto a farsi
più nitidi e familiari. La bambina, che mentre correva era
davanti, rise divertita ed esclamò:«Tanto non mi
prendi!». L’altro non ribatté, era
così affaticato che non riusciva nemmeno a parlare; aveva il
fiato grosso, il respiro accelerato.
L’unico
altro rumore, oltre allo scalpiccio dei loro piedi sulla strada piena
di sassi, era il frinire dei grilli, che annunciava la venuta imminente
della sera.
L’uomo
si alzò dalla panchina su cui era seduto, un sorriso
gioviale stampato sul volto: fece un cenno con la mano, richiamando
l’attenzione dei due pargoli.
«Bambini,
è tardi» fece infatti notare loro «la
sera sta scendendo, sarà bene tornare a casa prima che
faccia buio del tutto».
La bambina
sospirò, con in volto un’espressione implorante.
«Dai,
papà, ancora altri cinque minuti! Ti
prego…» lo scongiurò infatti, con voce
lievemente lamentosa.
«E
va bene» cedette alla fine il padre, permissivo
«però vedete di sbrigarvi».
«Evviva!»
esultarono all’istante i due bambini, entusiasti
«Grazie, papà, ti vogliamo bene!».
Subito i due
ripresero a correre, questa volta però sembravano farlo con
maggiore convinzione che in precedenza.
Mentre i loro
passi svelti producevano sul selciato un ticchettio simile a quello
delle gocce di pioggia, un uccellino spiccò il volo non
appena i due ragazzini si avvicinarono troppo a lui.
La prima a
giungere alla meta fu la bambina, che subito
s’inginocchiò ai piedi della roccia che adesso
vedeva davanti a sé; di lì a poco la raggiunse
anche l’altro bimbo, che la imitò
nell’atto di sistemarsi a terra.
Sulla roccia
erano disposti alcuni piccoli vasetti di vetro, tutti ordinatamente
sistemati; al loro interno si trovavano dei fiori, alcuni
più freschi, mentre la maggior parte di essi si era
già un po’ avvizzita.
I due bambini
fissarono con reverenza quei fiori, quasi come se avessero paura che
toccandoli si potessero infrangere sotto le loro dita minute.
La prima a
farsi coraggio fu la bambina, che sfiorò con le manine
appena paffute la corolla biancastra di una margherita colta
recentemente: a contatto con il suo tocco gentile i petali non caddero,
il che la fece sorridere di malcelato entusiasmo.
Alla vista di
quel segno così beneaugurante il bambino decise di fare la
stessa cosa, così accarezzò timidamente i petali
rossi di un papavero. Anche questi ultimi non si distaccarono dallo
stelo, e ciò portò il bambino a esibirsi in un
ampio sorriso a trentadue denti. Si sarebbe messo perfino a saltellare,
se non fosse stato troppo intimorito dall’idea di fare del
male così a quei piccoli fiori tanto preziosi.
Dopo un tempo
che gli parve eterno, alla fine si decise a
mormorare:«Sorellona?».
Dall’altra
parte non giunse risposta, tuttavia era abbastanza certo che lei
l’avesse sentito, quindi si convinse a
continuare:«Mi prometti una cosa?».
Passò
un tempo indefinibile, un istante che gli parve eterno, durante il
quale non sentì che il vento che soffiava tra gli alberi
leggero.
Quando era
ormai certo che non avrebbe parlato, la sentì sussurrare al
suo fianco:«Che cosa?».
La sua
sorellona non smetteva mai di sorprenderlo, e così ci era
riuscita anche quella volta, inoltre non lo deludeva mai.
Il bimbo
sorrise pieno d’entusiasmo e spiegò:«Che
non ci separeremo mai e che rimarremo sempre uniti, come i petali di
questi fiori».
La
più grande gli scompigliò affettuosamente i
capelli, mentre rispondeva:«Certo che rimarremo sempre uniti!
Me lo prometti anche tu, vero?».
Il bambino non
perse nemmeno un istante per annuire con vigore, così i due
si sorrisero reciprocamente, sentendosi coinvolti da quella promessa.
Non ci volle
molto prima che sentissero di nuovo il padre cercarli.
«Tōka!
Ayato! È ora di andare» si sentirono richiamare
infatti, e quella volta sapevano che era proprio arrivato il momento di
tornare a casa.
«Arriviamo,
papà!» esclamarono insieme, rimettendosi in piedi
e correndo lungo la via del ritorno.
Con
la stessa rapidità con la quale era apparso, in un lampo di
luce chiara, il ricordo si dissolse e Tōka si ritrovò di
nuovo nella caffetteria, intenta a fissare quei barattoli vitrei.
In
un primo momento non riuscì nemmeno a comprendere che cosa
fosse successo, troppo confusa per poter mettere insieme qualcosa di
concreto.
Scosse
la testa un paio di volte, sbattendo le palpebre: si trovava
all’Anteiku, stando all’orologio appeso alla parete
non erano passati neanche cinque minuti e lei non si era mossa dalla
posizione in cui ricordava di essersi messa.
Tutto
ciò era piuttosto strano: possibile che si fosse trattato di
una visione?
Tōka
agitò nuovamente il capo, incredula; si voltò di
lato, e si accorse che Kaneki la stava fissando, immobile come una
statua di gesso.
«T–Tōka-chan…»
balbettò, senza tuttavia riuscire ad aggiungere
null’altro.
Quel
tono candido, come al solito, non fece che innervosirla,
così si slacciò il cravattino con un rumoroso
sospiro, mentre cominciava ad avviarsi verso il retrobottega.
«Io
esco» annunciò caustica, sciogliendosi il fiocco
del grembiule «vedi di finire di pulire tu».
«A–Aspetta,
Tōka-chan, il capo aveva detto che dovevamo farlo
insieme…» cercò di ricordarle Kaneki
mentre cercava di avvicinarsi a lei, tuttavia a quanto pareva le sue
parole furono spese invano.
Poco
dopo infatti Tōka si voltò a guardarlo, incenerendolo con
un’ennesima occhiataccia; subito Kaneki si arrestò
sul posto, smettendo all’istante di seguire la collega.
Il
ragazzo dai capelli corvini si limitò a borbottare un
“Okay,
Tōka-chan…” o qualcosa del genere,
mentre imbarazzato arrossiva.
Tōka
si voltò, sorridendo, per poi lanciare il grembiule alle
proprie spalle. Quando, pochi secondi dopo, ruotò sui
talloni per poter vedere dove fosse andato a finire, dovette impegnarsi
per non scoppiare a ridere: il grembiule era caduto esattamente sopra
al mezzo ghoul, e adesso gli copriva tutta la faccia e metà
del busto. Lui non si muoveva, era rimasto immobile sotto a quella
stoffa.
Tōka
decise di lasciarlo lì in quel modo, mentre scivolava
finalmente nel retrobottega.
I
suoi passi si perdevano, silenziosi e quasi anonimi, tra le migliaia di
persone che affollavano i marciapiedi di Tokyo.
Aveva
il cappuccio della felpa tirato su, a coprire i corti capelli bluastri,
mentre procedeva decisa verso la sua meta.
Non
riusciva a sopportare l’idea di essere circondata da tutti
quegli umani, era una situazione che la infastidiva tremendamente: la
possibilità di incontrare le Colombe era sempre alta.
Temeva
quasi di vederle spuntare da un momento all’altro, da dietro
l’angolo di un qualsiasi palazzo, impermeabili grigi e
valigette alla mano.
Non
che avesse paura di essere uccisa, solo che incappare negli
investigatori del comando anti-ghoul in quel momento sarebbe stata una
vera e propria seccatura.
Sbuffò
sonoramente, alzando il volume della musica nelle sue cuffie mentre
procedeva spedita verso la periferia, evitando di proposito le strade
più affollate e scegliendo un percorso tortuoso pur di
evitare di essere seguita.
Quando
finalmente cominciò a vedere delinearsi davanti ai suoi
occhi quelle stradine che tanto bene conosceva si sentì
sollevata, al punto di tirare un piccolo sospiro di sollievo.
Sotto
ai suoi piedi si trovava il ponte di metallo, arrugginito e un
po’ ammaccato, sotto il quale scorreva placidamente quel
piccolo tratto di fiume che ricordava. E lì sotto, in
lontananza… sì, era proprio un piccolo parco
quello che vedeva.
Riusciva
quasi perfino a sentire l’odore tanto familiare della resina
dei pini…
I
gradini di cemento scendevano lungo un fianco scosceso del terreno,
riconducendo all’esiguo spiazzo del parco.
L’erba
doveva essere stata falciata di recente, poiché anche il
profumo degli steli freschi di rugiada recisi era pienamente presente
nell’aria della sera.
Tōka
scese lentamente, fino a che non si ritrovò più
in basso, sotto il livello del ponte.
Quel
posto era esattamente come se lo ricordava, con le panchine di legno, i
ciuffi d’erba radi, i pioppi e i cipressi distanti. Sembrava
quasi una beffa: per quanto Tokyo crescesse e si evolvesse, divenendo
sempre più tecnologica, quello che da piccola era stato il
suo angolo di paradiso era rimasto invariato nel tempo.
Il
ruscello gorgogliava lieve, mentre di tanto in tanto qualche carpa
saltellava di flutto in flutto, producendo dei piccoli zampilli
d’acqua.
Era
davvero uno scenario idilliaco, soprattutto con la luce tenue del
tramonto. Tōka inspirò profondamente, appagata da quei
profumi delicati e da quella sensazione di pace che regnava
tutt’intorno.
Si
sfilò le cuffie, spegnendo la riproduzione musicale e
sedendosi a terra; adesso c’era un altro tipo di musica da
ascoltare, quella del cinguettio pacato degli uccelli e del frinire
gracchiante delle cicale.
Provava
rammarico per non essere venuta più in quel posto da molti
anni, in fondo era così pacifico e incantevole, solo che non
aveva potuto proprio farlo.
Non
che la scuola e il lavoro all’Anteiku fossero per lei degli
impegni così impedienti da non permetterle in alcun modo di
spostarsi e di tornare lì; piuttosto, era stato un fattore
di circostanze avverse: l’ultima volta che vi era stata si
trovava con suo padre e suo fratello Ayato. Di lì a pochi
giorni dopo le Colombe avevano ucciso l’uomo, così
lei, che era la sorella maggiore, si era dovuta prendere sulle spalle
il peso del fratellino e fuggire dalla circoscrizione, pur di mettersi
in salvo.
Da
allora non aveva più materialmente avvertito il bisogno di
recarsi lì, poiché le sue necessità
erano cambiate: adesso era lei che doveva occuparsi di quel che era
rimasto della loro famiglia, procurandosi da mangiare per se stessa e
per Ayato. Era stata dura all’inizio, dopotutto era ancora
molto piccola, tuttavia Tōka se ne era occupata ben volentieri, il
pensiero di star facendo qualcosa di buono per il suo fratellino la
incoraggiava pienamente.
Però
poi Ayato se n’era andato, lasciandola da sola a combattere
contro i demoni del loro passato. Ne aveva sofferto, tuttavia come al
solito era stata brava a nasconderlo sotto la sua maschera di cinica
indifferenza, tirando ad andare avanti secondo quella routine che era
ormai divenuta la sua quotidianità, muovendosi come una
trottola tra la scuola e il lavoro.
Sapeva
che adesso Ayato era entrato a far parte di un gruppo di ghoul
piuttosto spietati; per quanto poteva cercava comunque di informarsi
sulla sua sorte. Era pur sempre suo fratello, dopotutto.
Tōka
si sedette a terra, lasciandosi sfuggire un sospiro esausto. A quanto
pareva, la giornata di lavoro l’aveva stancata ben
più di quanto avesse immaginato.
Stese
le braccia all’indietro, poggiando i palmi tra
l’erba fresca, mentre alzava lo sguardo verso il cielo
infuocato dal tramonto.
I
ricordi dell’infanzia continuarono ad invaderla, in
quell’incessante déjà-vu, e Tōka
cominciò a credere che non era poi così male,
stare lì.
Volse
lo sguardo alla sua sinistra, quasi inconsciamente. Quando si rese
conto di quello che i suoi occhi attoniti stavano osservando, le ci
volle qualche secondo per convincersi di non aver visto male.
Sbatté
le palpebre un paio di volte, come se si trovasse di fronte a qualcosa
di troppo assurdo per potervi credere. Eppure la vista acuta dei ghoul
non l’aveva affatto tradita: stava osservando proprio quella roccia.
Prima
che potesse rendersene conto i suoi piedi si stavano già
muovendo, fino a che non si ritrovò davanti a quel masso.
Era
proprio come se lo ricordava, perfino nei dettagli come il grigio
perlaceo della superficie o l’acutezza degli spigoli.
C’era
qualcosa di diverso, però, Tōka se ne accorse quasi subito;
era lo scricchiolio leggero sotto la suola delle sue scarpe, quella
presenza acuminata che non passava inosservata.
La
ragazza abbassò subito lo sguardo, ritrovandosi a fissare
delle trasparenti schegge di vetro, che sotto i raggi morenti del sole
risplendevano di una luce intensa e cristallina.
Tōka
le osservò confusa, come se continuasse a non tornarle un
dettaglio. Alzando lo sguardo, la vista che si rivelò
davanti ai suoi occhi fu piuttosto deludente: le vecchie boccette
d’inchiostro, che lei e suo fratello avevano svuotato e
lavato per i loro fiori, adesso erano in frantumi.
Solo
alcuni dei vasetti erano ancora in piedi, principalmente vuoti o
contenenti fiori pressoché secchi; era strano, dopo
così tanti anni non si aspettava di trovare tracce di piante.
Puntò
di nuovo lo sguardo verso il basso, e solo allora sembrò
notare un altro particolare. A terra, accanto alle schegge di vetro,
c’erano alcuni piccoli sassi.
Forse…
forse qualcuno li aveva lanciati, da un punto non troppo lontano da
quel luogo. Tōka spostò subito lo sguardo ancora verso
l’alto, calcolando in fretta la traiettoria.
Per
lanciare quei sassi in quella direzione, con
un’intensità tale da infrangere le ampolle vitree,
un individuo di altezza media e regolare corporatura si sarebbe dovuto
trovare… lì.
Tōka
si voltò di scatto, cogliendo un movimento al limite del suo
campo visivo. Una sciarpa violacea che si agitava nel vento, un lampo
nero, poi un fruscio di foglie.
Troppo
tardi.
Sapeva
che ormai il fuggiasco era scomparso tra gli alberi, e non sarebbe
stata così incosciente da inseguirlo nel fitto della
vegetazione, rischiando uno scontro diretto nel quale difficilmente
sarebbe riuscita a spuntarla.
Sospirò
mestamente, voltandosi nuovamente verso le ampolle infrante.
Ayato.
Aveva
visto –anche se, forse, sarebbe più corretto dire
intravisto– suo fratello, dopo un tempo che le era sembrato
immenso. Si erano guardati negli occhi, in un istante breve e lungo al
tempo stesso, anni di rancori mai sopiti e silenzi forzati che
tornavano a pesare.
Tōka
era assolutamente certa che fosse stato il fratello a infrangere le
boccette, con ogni probabilità per un moto di repulsione
verso il loro passato.
Eppure
vederlo lì, dopo così tanto tempo, sembrava alla
ragazza quasi un buon segno.
In
fondo, allora, non aveva cancellato dalla memoria il loro passato.
Tōka
si chinò un’ultima volta, raccogliendo tra le dita
una delle schegge di vetro abbandonate a terra; sollevandosi,
spostò lo sguardo verso il cielo, rosso come sangue fresco.
Il sole era ormai tramontato, i suoi tiepidi raggi del tutto spariti.
Nello
sprazzo finale della luce del giorno, Tōka sorrise al vento fresco
della sera, che adesso accarezzava con gentilezza la sua pelle, quasi
una carezza vellutata.
Suo
fratello non aveva dimenticato.
Quella
promessa, anni prima…
Non
ci separeremo mai e rimarremo sempre uniti, come i petali di questi
fiori.
Tōka
chiuse gli occhi un’ultima volta, lasciandosi avvolgere dalla
sera come se fosse seta per il suo abito più elegante.
La speranza poteva continuare a
brillare.
*Note
dell’autrice*
Sono
giorni che penso a cosa dire in queste note, solo che
l’illuminazione divina non è ancora arrivata.
Ho
pensato che dovrei anzitutto presentarmi, perché
è la prima volta che scrivo su questo fandom.
Potrei
dire che questo pubblicare la mia prima fanfiction qui per un contest
sia abbastanza da kamikaze, considerando che avrei potuto lanciarmi in
circostanze molto più “tranquille”,
diciamo così.
Potrei
dire che questo periodo è piuttosto nero, perché
ho litigato con una persona che per me era molto importante e che ora
si rifiuta perfino di rivolgermi la parola. Mi sono ampiamente
depressa, tanto che per giorni non ho fatto altro che piangere.
Questa
fanfiction, fino a una settimana e mezza fa, non esisteva. Mi ero
ripromessa di non scrivere tutto subito come al mio primo contest (sono
solo al secondo, già) solo che, facendo così, mi
sono ridotta a scrivere tutto all’ultimo. E io odio scrivere tutto
gli ultimi giorni. Già.
Alla
fine, però, mi sono messa sotto e l’ho buttata
giù. L’idea l’avevo sin da quando mi
erano stati consegnati i pacchetti, solo che ho preferito aspettare,
lasciare che l’idea decantasse prima di mettere tutto nero su
bianco. Spero che sia andata meglio dell’altra volta, visto
che avevo scritto tutto subito e non ci ero più ritornata
per mesi, senza controllarla o ampliarla. E, considerando
l’esito finale di quell’esperienza, mi auguro che
stavolta cambiando la formula qualche miglioramento ci sia stato.
Tokyo
ghoul è un anime che ho conosciuto relativamente da poco e,
nonostante questo, devo ammettere di apprezzarlo moltissimo. Tōka non
è esattamente in cima alla top ten dei miei personaggi
preferiti (Jūzō tutta la vita) eppure, per quanto possa sembrare
strano, ho scritto comunque su di lei. Perché? beh,
è difficile da spiegare… volendo farla breve,
diciamo che il contest era incentrato principalmente su un prompt e
un’immagine che i concorrenti sceglievano, per
così dire, ‘al buio’. Non appena ho
visto la mia immagine, ho pensato subito a Tōka, esattamente non so
nemmeno io perché.
Il
prompt, invece, mi ha fatto subito pensare a Tōka e Ayato, che
sinceramente adoro come coppia di fratelli (oltre al fatto che,
ovviamente, apprezzo molto Ayato come personaggio).
Kaneki,
poi, è stato d’obbligo… per quanto
possa essere diventato forte in Root A (ha fatto l’upgrade,
ahahah) devo ammettere di avere sempre avuto un debole per il timido
nerd imbranato dei primi episodi. Mi piacciono gli uomini colti, che
devo dire – anche se a tratti mi sembrava davvero tonto,
okay, lo ammetto.
Dunque,
ci tenevo a ringraziare anzitutto la giudice del contest, Seth, per avermi
dato l’occasione di partecipare. Ha organizzato tutto
meravigliosamente, inoltre i prompt e le immagini erano tutti
splendidi. E lei è sempre stata gentilissima e disponibile
con tutti i partecipanti, cosa non sempre scontata (dipende dal giudice
che trovi dall’altra parte, immagino).
Inoltre
ci tenevo a ringraziare tantissimo la mia adorata ange, per essermi
stata vicino durante un periodo che, per me, non è stato
affatto facile. Ora, però, si torna in carreggiata
– o almeno lo spero.
Sicuramente
non sarà la migliore fanfiction del mondo, tuttavia diciamo
che nel complesso sono piuttosto soddisfatta del risultato ottenuto.
Ringrazio
chiunque leggerà e le eventuali persone che recensiranno o
inseriranno la storia tra le preferite/ricordate, oltre ad augurare un
sincero in bocca al lupo a tutte le altre partecipanti al contest.
Aria~
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