Dal
tramonto all’alba
È
la fine del mondo e sono relativamente tranquillo.
“Vaffanculo!”
Se
Hwoarang fosse stato presente avrebbe riso di quella sua caduta di
stile. Invece Jin è solo nei sotterranei di quella che una
volta era la Mishima Zaibatsu.
Solo
e con un’orda di zombie alle costole,
si corregge.
Maledice
ancora una volta la sua fortuna, ma soprattutto maledice
l’idea stupida di tornare indietro quando erano a tanto
così dal riuscire a scappare dalla città.
Andate
avanti che vi raggiungo, avevo detto. Farò presto, avevo
detto.
Il
suo sarcasmo mentale quasi gli costa un morso alla gamba, ma riesce
velocemente a scansarsi e colpire il suo marcescente assalitore con un
calcio ben assestato che gli apre la testa in due. Senza indugiare
oltre corre verso il garage nella speranza di trovare qualcuna delle
vecchie jeep della Tekken Force e usarla per uscire di lì.
Non osa sperare che abbiano tutte il serbatoio pieno, per questo ha nel
suo zaino una tanica di benzina, quanto basta per arrivare ai confini
della città e, spera, ritrovare gli altri.
Gli
basta un attimo per capire che qualcosa non va. Cosa, esattamente, non
lo sa, ma sente quello strano formicolio alla nuca che avverte ogni
volta che sta per succedere qualcosa di brutto, e in genere ci azzecca:
una rapida occhiata ai parcheggi gli conferma che ci sono ancora
veicoli posteggiati in garage, e questo è un bene; tuttavia
sono pochi —
probabilmente i superstiti della Zaibatsu li hanno usati per fuggire da
lì —
e non possono fornirgli riparo nel caso in cui…
Aaaarrrh…
...nel
caso in cui ci siano zombie anche lì. E questo è
decisamente un male.
Reprime
a fatica l’ennesimo vaffanculo
e
accelera il passo, sforzandosi di capire da dove arrivino i versi
distorti dall’eco. Posa istintivamente la mano sul fucile a
pompa, un Remington 870 che ha trovato nell’armeria della
Zaibatsu assieme a munizioni e pistole di vario genere. Non che sappia
usarlo benissimo, ma averlo con sé lo rassicura. Avrebbe
voluto chiedere a Hwoarang o Lars di insegnargli a sparare un
po’ meglio, ma ormai è tardi per lamentarsene. E
comunque Corea avrebbe preferito farsi infettare piuttosto che dirmi di
sì,
aggiunge, scocciato.
Finalmente
vede una jeep e tira un sospiro di sollievo: aveva accarezzato
l’idea di usare un furgoncino, di quelli delle squadre
d’assalto della Force, ma avrebbe voluto dire cercare le
chiavi e perdere altro tempo, e nel caso peggiore avrebbe dovuto
rompere un vetro, sperare di farlo partire usando i fili
dell’accensione e magari non crepare nel frattempo,
perché i rumori avrebbero sicuramente attirato altri zombie.
La jeep va benissimo, si ripete. Non è coperta ma almeno non
deve rompere vetri per entrare, e soprattutto per quella ha
già la chiave. Grazie,
Nina.
Sente
un pizzicore al braccio sinistro, che accarezza istintivamente con la
mano libera. Si chiede se non avrebbe dovuto prendere qualche altro
farmaco dall’infermeria o dal laboratorio di Boskonovitch, ma
in fondo rimuginarci è inutile: non sono antidoti, e in ogni
caso fungerebbero solo da palliativi.
I
suoi pensieri vengono interrotti da un urlo agghiacciante, poi un
secondo ed un terzo: in fondo al garage intravede tre figure ricoperte
di sangue, una donna e due uomini.
Corridori.
Fa
appena in tempo a pensarlo che li vede lanciarsi contro di lui
ringhiando.
Senza
pensarci Jin salta dentro la jeep, lancia lo zaino sul sedile del
passeggero e imbraccia il Remington, prendendo la mira e facendo fuoco:
riesce ad abbatterne due, ma quando tenta di abbattere la donna si
accorge con orrore di aver finito i colpi.
Vaffanculo!
*
Fino
a poche ore fa osavamo ancora sperare che saremmo riusciti ad uscirne
vivi.
“Due
taniche di benzina da due litri l’una, torce con batterie e
cibo in scatola.”
“Ancora
anguilla?”
“Scusa,
Corea, la prossima volta mi assicurerò di trovare del foie
gras per
il tuo palato delicato.”
“Ok
ok, non c’è bisogno di litigare. Abbiamo ancora
scatole di fagioli e macedonia, e… altra roba che non
ricordo. Almeno il cibo per ora non ci manca.”
“Meglio
che tieni i fagioli lontani dal coreano, non ha bisogno di altro
carburante per i suoi fuochi
d’artificio notturni.”
Jin
sbuffa e di nuovo si intromette tra Lars e Hwoarang prima che se le
diano di santa ragione.
“Maledizione,
piantatela! Non ho voglia di fare la maestra dell’asilo, non
in una situazione del genere!”
I
due si guardano in cagnesco un’ultima volta, poi si
allontanano di qualche passo l’uno dall’altro.
“Grazie.”
Nessuno
dei due si degna di rispondergli: Lars torna a smistare la roba che ha
recuperato, Hwoarang si butta sul divano e si distrae smontando e
rimontando una Glock trovata giorni prima nell’armeria della
Zaibatsu.
Jin
sospira e accantona l’idea di provare a parlare col coreano:
il suo umore è pessimo da giorni, e sa di non essere in
grado di tirarlo su, non in quel momento e in quelle condizioni.
Probabilmente non ne sarebbe capace e basta. Decide che concentrarsi
sul loro piano è la cosa migliore, così si
avvicina a Lars, intento a studiare una grande mappa di Tokyo in cui
hanno segnato tutti i punti focali: le mura d’emergenza che
delimitano la città, aree in cui possono ancora rifornirsi e
quelle da esplorare, le zone da evitare. E poi, cerchiata in rosso, una
zona di Kanagawa dove Lars sapeva esserci un elicottero della G-Corp.
Doveva portare in salvo i sopravvissuti dell’altra
corporazione, ma qualcosa era andato storto e il velivolo era rimasto
incustodito. Questa era stata l’ultima informazione che Nina
aveva dato loro, insieme alle chiavi del garage, prima di uscire in
ricognizione e non fare ritorno. Hwoarang aveva suggerito che
probabilmente la Williams se l’era data a gambe senza di
loro. Jin e Lars non se l’erano sentita di dargli torto.
“Visto
qualcosa d’interessante durante la scampagnata?”
chiede, con un tono allegro, nel tentativo di mitigare il nervosismo.
L’altro non sembra aver colto: “Corridori. Sono
molti di più dell’altra volta.”
“Ne
sei sicuro?”
“Ne
ho visti almeno due gruppi, molto numerosi” replica, segnando
con un pennarello due cerchi vicino a Shibuya, “qui e qui.
Non escludo che ce ne siano altri. Per fortuna non mi hanno visto,
erano impegnati a… banchettare” deglutisce.
“Chiunque fosse era già morto, non potevo fare
nulla. Non urlava neanche” si giustifica, ma Jin non lo
accusa di nulla. Ormai è una questione di semplice
sopravvivenza: ci avevano provato a salvare più persone
possibili, durante i primi giorni, ma avevano scoperto troppo presto e
nel peggiore dei modi che non ci sarebbero riusciti. Non potevano
sapere che c’era un infetto tra i sopravvissuti, e al loro
rientro dopo una ronda quel rifugio si era trasformato in
un’armata famelica a cui erano sfuggiti per un pelo.
Le
buone intenzioni sono belle e nobili, ma a volte non bastano per fare
di te un eroe.
“Inoltre…”
“L’hai
visto ancora?”
“Sì.”
Jin
digrigna i denti. Aveva sperato di non rivedere più quel
tizio inquietante,
il russo,
non dopo che tempo addietro era riuscito a rapirlo e usare il suo alter
ego come cavia da laboratorio. Anche se Devil Jin era stato il soggetto
degli esperimenti, il corpo rimaneva il suo e ricordava ogni scarica
elettrica, ogni ago.
Fottuto
bastardo.
Per
qualche strana ragione era comparso a Tokyo poco dopo lo scoppio
dell’epidemia: lo aveva visto vagare per le vie deserte,
eliminando infetti con fare disinteressato, e con altrettanta apatia
ignorava le richieste d’aiuto che ogni tanto rompevano il
silenzio di quella città morta. Alle volte si accompagnava a
quell’altro tizio inquietante, quel Bryan Fury la cui fama
non proprio cristallina lo precedeva ad ogni edizione del Torneo. Dello
strano duo lui era quello che sparava a vista a chiunque, infetti o
superstiti che fossero.
“Fai
attenzione, molta più attenzione da ora in poi” lo
avverte lo svedese, “non mi stupirei se il russo stesse di
nuovo cercando te, e sarebbe carino riuscire ad scappare da qui tutti
insieme, possibilmente vivi”. Jin annuisce, promettendo di
tenere gli occhi aperti. “A proposito, come stiamo messi a
benzina?”
“Con
le due taniche che hai portato ne abbiamo abbastanza per oltrepassare
abbondantemente le mura” replica Jin, “ma se
riuscissimo a trovarne qualche altra non mi farebbe schifo.”
“Abbiamo
abbastanza tempo?”
“Il
lancio della testata nucleare è previsto per tre giorni da
oggi. Dovremmo farcela.”
“Dobbiamo”
lo corregge, passandosi una mano sul volto stanco.
“Vai
a riposare qualche ora” propone Jin, “qui ci penso
io. Magari più tardi vado a cercare altra benzina. Quando
lui si sarà calmato” aggiunge a bassa voce,
facendo un cenno con la testa verso Hwoarang. Lars non ci pensa due
volte e borbotta un grazie; prima di collassare sul divano gli intima
ancora di stare attento, poi sprofonda in un sonno profondo. Hwoarang,
seduto per terra su un vecchio materasso, rivolge
un’occhiataccia allo svedese ma ha la decenza di non muovere
un dito, preferendo dedicarsi alla Glock. Tanto
meglio pensa
accomodandosi sull’altro materasso, non prima di aver
acchiappato il suo pc portatile e un paio di umaibo*
che
teneva da parte nello zaino.
“Ma
quanti ne hai ancora di quelli?”
Si
volta verso il coreano, che lo guarda di sbieco.
“Parecchi” ammette, aprendone uno “ho
fatto scorta l’ultima volta che sono uscito in ricognizione.
Vuoi?” chiede, e l’altro fa spallucce. Prendendolo
come un sì gliene lancia uno, e intanto accende il pc.
“Se
dopo decidi di uscire vengo con te” riprende Hwoarang,
“che se dovessi spararti da solo su un piede il tuo zio
svervegese
mi romperebbe il cazzo in eterno.”
Jin
fa una smorfia e acconsente, sperando che la cosa possa calmarlo.
L’umore
del coreano è pessimo da giorni, da quando Steve era stato
infettato.
“Kill
me, mate. I don’t want to be a monster”
aveva pianto il pugile inglese, cosciente di essere ormai giunto al
limite e che la sua sanità mentale stava per abbandonarlo.
Era
stato Lars ad assumersi la responsabilità di ucciderlo,
quando il ragazzo aveva cominciato a dire cose strane e ringhiare
contro l’amico.
Lars
aveva ucciso Steve, e questo Hwoarang non glielo aveva perdonato.
Basta.
Continuare
a rimuginarci non serve a nulla a parte acuire i suoi sensi di colpa. Renditi
utile e controlla se ci sono news,
si impone, e si fionda sul motore di ricerca. Pensa brevemente a quanto
siano stati fortunati ad avere elettricità e connessione
internet ancora funzionanti: erano giunti alla conclusione che doveva
esserci ancora qualche impiegato sopravvissuto barricato dentro la
centrale elettrica che si impegnava a garantire luce e vie di
comunicazione a quelli ancora vivi. Non sa quanto durerà
ancora, ma l’importante è che possano continuare a
usufruirne per altri due giorni, il tempo di finire i preparativi e
scappare.
Prima
che Tokyo venga rasa al suolo.
I
risultati che Yahoo Japan gli offre sono sempre gli stessi: il paese
è in ginocchio, la popolazione quasi del tutto annientata ad
esclusione di poche zone rurali e alcune isole, mentre le grandi
città sono ormai deserte, solo una manciata di
sopravvissuti. Che
creperanno qui dentro grazie a voi, rimugina
fra sé e sé, ripensando alla geniale idea del
governo di delimitare le città col più alto
rischio di contagio con mura pattugliate giorno e notte, col risultato
di trasformarle in tombe per chi non era riuscito a scappare in tempo.
Non che fossero riuscite a completarle, in realtà:
l’epidemia era sfuggita di mano quando le mura che dovevano
separare Tokyo dalla prefettura di Kanagawa erano ancora incomplete,
lasciando un varco che avevano deciso di sfruttare come via di fuga.
Non avevano idea di cosa avrebbero trovato una volta fuori, ma rimanere
lì non era più un’opzione.
Una
ricerca estesa anche alle notizie estere gli conferma che la situazione
nel resto dell’Asia sembra più contenuta e che
l’infezione sia stata presa in tempo, abbastanza da poterne
isolare i focolai e tenerli in quarantena nella speranza di capire come
avviene il contagio, perché ha effetti così
diversi da persona a persona e, forse (molto forse), trovare una cura.
Quella
dei se e dei forse era una pila enorme, ma era più di quanto
avevamo in quel momento. E in quel momento non avevamo niente se non la
morte che ci stava col fiato sul collo.
Solo
due settimane prima le tv di tutta la nazione avevano trasmesso
speciali sulla “più
aggressiva influenza degli ultimi anni” che
aveva colpito metà della popolazione. “I medici
dicono che non c’è da preoccuparsi, è
solo influenza” ripetevano i telegiornali, almeno
finché la gente non aveva cominciato a morire: adulti,
anziani, bambini, l’epidemia non risparmiava nessuno.
“Forse
è una forma particolarmente letale di meningite”
si era vociferato, perché la sintomatologia era simile, e le
ricerche per una cura si erano tutte concentrate su quel fronte.
Poi
i sintomi avevano cominciato a mutare.
Chi
non moriva nel giro di pochi giorni soffriva di cefalea, nausea,
convulsioni e alterazioni dello stato di coscienza che si trasformavano
in comportamenti al limite dell’assurdo: gente che si fermava
all’improvviso e cominciava a parlare di cose senza senso,
altri che camminavano all’indietro, chi rimaneva
semplicemente fermo in silenzio; gli avvistamenti di gruppi interi di
persone immobili a Yoyogi Park e altre grandi aree aumentavano
esponenzialmente. Solo allora l’infezione evolveva ancora,
spingendo alcuni degli contagiati a uccidersi nelle maniere
più atroci (chi lanciandosi dal tetto di un palazzo, chi
andandosi a schiantare in auto contro un albero, e così
via), mentre altri… impazzivano.
Perdevano
il lume della ragione. diventando rabbiosi e incredibilmente violenti e
con il solo scopo di attaccare chi non era infetto.
Zombie.
Schifosissimi, fottutissimi zombie.
Alcuni
avanzavano lenti e marcescenti, altri invece si erano rivelati capaci
di correre velocissimi ed erano molto più aggressivi dei
primi, confermando l’idea che il virus continuava a mutare
anche dopo aver infettato il suo ospite. Jin li aveva soprannominati corridori.
Ci
voleva giusto un T-Virus* a movimentarmi le giornate già
così monotone.
Di
cose assurde e inspiegabili, nella sua giovane vita, Jin ne ha viste e
vissute più di quante voglia ammetterne. La sua stessa
esistenza è qualcosa di inspiegabile, un essere umano con
geni demoniaci nel suo DNA. Eppure è lì, vivo, esiste.
E ora esistono anche quelle creature che fino ad allora avevano
popolato quei film e videogiochi che tanto amava.
Era
ancora nel suo ufficio alla Zaibatsu quando si era scatenato il panico
per “la gente che mordeva altra gente”, e gli era
bastata un’occhiata fuori dalla finestra per appurare che
quanto stava succedendo era vero e non isteria di massa che somigliava
fin troppo a Biohazard*. Aveva messo la Tekken Force a
disposizione della polizia e dei cittadini per aiutare chi ne avesse
bisogno e contenere eventuali rivolte —
un
bieco tentativo di scontare i miei peccati pensa
—
ma dopo i primi, fallimentari tentativi di soccorso, i sopravvissuti
avevano cominciato a contestare la Force, convincendosi che quella
pandemia era sicuramente causa loro, che li stavano usando come cavie
per testare armi batteriologiche: se ci fosse stato ancora il vecchio
di merda a capo della baracca lo avrebbe pensato persino Jin, ma data
la situazione era più che certo che non fosse opera loro e
che Boskonovitch non gli avesse nascosto nessun tipo di ricerca. Aveva
pensato invece che potesse entrarci la G-Corp, perché era il
tipo di pantano in cui Kazuya avrebbe sguazzato con discreto piacere,
ma non aveva avuto modo di appurarlo perché si era passati
da panico collettivo ad apocalisse nel giro di una settimana; durante
la seconda la popolazione di Tokyo era stata abbondantemente
annientata. L’annuncio della testata nucleare lanciata sulla
città era di soli tre giorni prima.
E
continuare a ricordartelo non servirà a farvi scappare di
qui si
ripete, cercando distrazione nella casella di posta elettronica. Un
messaggio gli strappa un sorriso e un sospiro di sollievo.
“A
giudicare da quella faccia inebetita ne deduco che la tua scatolina
cinese si
sia fatta viva e sia ancora tutta intera” commenta Hwoarang,
con un tono di voce più rilassato. “Che dice di
bello?”
“Hong
Kong è sicura” replica riassumendo il contenuto
della mail, “i pochi focolai sono stati isolati e si sta
già lavorando ad una possibile cura. Anche gli altri stanno
bene” aggiunge, e Hwoarang annuisce con aria soddisfatta. Jin
si trova d’accordo con lui. Xiao era riuscita a scappare
durante i primi giorni, quando gli aeroporti non erano ancora stati
chiusi, trascinandosi dietro Miharu e Julia: era in ansia per il nonno
Wang, e aveva pregato Jin di andare con lei. Alla risposta negativa di
lui (il
momento migliore per improvvisarmi eroe dannato, decisamente)
aveva piantato una scenata epocale spinta dalla preoccupazione per il
ragazzo, che si era poi conclusa con la promessa di tenersi
costantemente in contatto e di raggiungerla appena possibile. Da allora
si erano sempre aggiornati a vicenda, e grazie alla cinesina sapeva che
Lei, Paul e Marshall erano riusciti a scappare in America, mentre lo
stalking della Rochefort aveva salvato il sedere di sua cugina Asuka.
Adesso erano entrambe a Monaco, dove l’epidemia sembrava non
essere arrivata.
Avevano
deciso di raggiungere Xiao ad Hong Kong per riunirsi a lei, e magari
saperne di più su quel fantomatico antivirus, per poi
spostarsi in una zona più sicura.
Almeno
spero.
Risponde
brevemente a Xiao, chiude il laptop e si rimette in piedi, raccogliendo
il suo zaino: “Avanti, muovi quelle chiappe coreane o ti
mollo qui” si rivolge a Hwoarang, che si alza di scatto e
raccatta armi e bagagli.
Mentre
si chiude la porta alle spalle Jin si volta verso Lars, ancora
addormentato, e per un istante si chiede se non sia il caso di
avvisarlo e sbarrare meglio la porta.
Il
coreano sembra intuire i suoi pensieri: “Sta tranquillo,
l’uomo che venne dall’Ikea è al sicuro.
Siamo all’ultimo piano e non hanno ancora imparato ad aprire
le porte.”
“Chiamami
paranoico ma questo non basta a rassicurarmi.”
“Ogni
volta che sono rimasto io qui da solo a dormire non è mai
successo nulla.”
“È
perché non sentivano l’odore di un cervello
funzionante.”
“...Kazama,
vaffanculo.”
*
In
meno di un’ora riescono a raccattare altra benzina, parecchi
onigiri confezionati e altri tipi di cibo già pronto, e
persino materiale di primo soccorso. La ricerca è stata
fruttuosa e relativamente tranquilla: seguendo le indicazioni di Lars
hanno evitato Shibuya e i gruppi di corridori, proseguendo invece per
Shinjuku e camminando lungo la Toei Oedo Line, fermandosi ad ogni
negozio che non fosse devastato; tutto il distretto sembrava deserto,
ad eccezione di pochi infetti in avanzato stato di decomposizione.
È mentre Hwoarang setaccia senza successo la stazione di
polizia alla ricerca di munizioni che Jin ha un’epifania:
“Se non ricordo male c’è un ospedale,
proseguendo lungo questa strada. E poco dopo un alimentari.”
Il
coreano gli si avvicina, tira fuori la mappa e gli chiede di indicare
il punto in cui si trovano: “Siamo al limite di Shibuya, da
lì in poi è Nakano” risponde, indicando
la stazione di polizia e poi l’ospedale. L’altro
mette via la mappa e annuisce: “Ok, io non capisco niente dei
diecimila quartieri in cui è suddivisa Tokyo, ma visto che
siamo qui direi che potremmo fare un salto al negozio di cui parli e
magari prendere qualche altro cerotto sulla via del ritorno.”
Jin
aggrotta le sopracciglia: “Non abbiamo idea di quale sia la
situazione a Nakano. Non ci siamo mai stati, e non sappiamo-”
“Se
non ci proviamo non lo sapremo! Al punto in cui siamo
cos’abbiamo da perdere?”
“La
vita?”
“Certo
che come ammazzi tu le gioie, nessuno.”
Addentrarsi
in una zona ancora inesplorata, senza la minima idea di quale fosse la
situazione —
se ci sono superstiti, se avrebbero trovato dei corridori —
è una cosa che non lo convince per niente, se lo sente nelle
ossa. Ma la prospettiva di trovare altre provviste e medicinali
è allettante, e alla fine cede.
“Ok,
una cosa veloce. Niente colpi di testa.”
Hwoarang
sorride: “Parola di boyscout!”
“Tu
non sei mai stato un boyscout.”
*
A
posteriori mi maledico per non aver dato retta al mio istinto.
“Direi
che la passeggiata è stata un buco
nell’acqua.”
Se
la visita al negozio di alimentari si era rivelata utile, quella
all’ospedale era stata una perdita di tempo: qualcun altro
aveva già provveduto a saccheggiarlo, lasciando in giro
giusto qualche antidolorifico e una camera mortuaria piena di zombie
(con la porta sbarrata, come unica fortuna).
Jin
annuisce mentre ripone le poche cose utili trovate nello zaino (qualche
medicinale, siringhe, bende) e lo rimette in spalla: “Io te
l’avevo detto che non era il caso.”
Hwoarang
grugnisce: “Ti odio quando dici’ te
l’avevo detto’.”
“Ma
te l’avevo detto.”
Continuano
a battibeccare mentre si fanno largo tra i corridoi bui, una mano sulle
torce e l’altra sulle armi; la discussione continua, anche se
in toni abbastanza tranquilli e a Jin in fondo non dispiace: prima di quello
le
litigate e le risse erano la norma tra lui e Hwoarang, e ora
più che mai ha bisogno di qualcosa che sappia di
normalità. E suppone che per il coreano decolorato valga lo
stesso.
Stanno
attraversando il corridoio del primo piano per andare verso le scale
quando Jin sente di nuovo quel fastidioso formicolio dietro la nuca.
“Adesso
che hai?” chiede Hwoarang, ma non gli risponde subito. Si
guarda attorno tendendo le orecchie, ma per un attimo sembra quietarsi:
“Credevo di aver sentito qualcosa, ma forse mi sono
sbagliato…”
Riprendono
il cammino, ma poco dopo Jin si ferma ancora.
“Passi.”
“Sei
sicuro? Magari è solo l’eco dei nostri, col
silenzio che c’è qui” replica
l’altro, ma si zittisce appena in tempo per sentirli anche
lui.
STOMP.
Passi
pesanti, non trascinati.
STOMP.
Jin
si avvicina con cautela alla balaustra che si affaccia sulla hall
dell’ospedale.
Merda!
Si
nasconde dietro la parete trascinando Hwoarang con sé e
facendogli cenno di parlare a bassa voce. Con una mano indica il piano
inferiore. Il coreano soffoca un ringhio:
“Cazzo…”
Sotto
di loro Bryan Fury e il russo stanno perlustrando l’ambiente,
precludendo loro la via di fuga.
“Che
facciamo adesso?” sussurra Hwoarang.
“Finché stanno lì non possiamo uscire
dall’entrata principale!”
Jin
non risponde ma ha gli occhi inchiodati sugli altri due, che continuano
a vagare senza meta per la hall: qualcosa nel loro comportamento lo
mette all’erta, così li tiene d’occhio,
mentre il coreano borbotta cose sul non potersi neanche muovere da
lì finché quei due non si spostano altrimenti li
sentiranno. Lo zittisce con un gesto della mano e gli fa cenno di
osservare Fury: “Guardalo. Noti niente di strano?”
Hwoarang
fa quanto detto. Bryan Fury, al piano di sotto, all’apparenza
sembra il solito stronzo che uccide per divertimento, eppure qualcosa
non va: i suoi occhi si muovono nervosamente da un punto a un altro, si
ferma spesso per poi fare qualche passo all’indietro, e anche
se non può sentirlo bene nota le sue labbra aprirsi e
chiudersi velocemente, come se stesse parlando da solo. Inoltre anche
il russo sembra studiarlo da lontano: probabilmente ha il suo stesso
sospetto e aspetta il momento buono per farlo fuori.
Quello
sarebbe un colpo di fortuna notevole.
“È
infetto?” chiede Hwoarang, e Jin annuisce.
“Probabile. Quello che mi chiedo è come sia
riuscito a contrarre il virus” riflette,
“è un maledetto cyborg!*”
“Evidentemente
gli era rimasta abbastanza umanità da volerla cancellare
così” replica l’altro. “E per
noi ovviamente mai una gioia. Dobbiamo fare lo slalom tra due pazzi di
cui uno infetto. E non possiamo né scendere le scale
né tornare indietro!”
“Aspetta
a parlare, credo si stiano spostando” sussurra, sporgendosi
di poco oltre la balaustra. “Ok, andiamo” comunica,
e torna indietro verso l’ex reparto di ortopedia da cui sono
arrivati. “Ho visto una pianta dell’ospedale poco
fa, vediamo dove sono le scale d’emergenza.”
In
fondo non chiedevo poi molto, solo di riuscire a fuggire da
lì senza che quei due squilibrati ci notassero.
“Ok,
dovremmo esserci.”
Due
reparti dopo trovano finalmente le scale. Jin consulta la planimetria
(saggiamente staccata dal muro, per non dover andare a memoria) e
indica la svolta a sinistra nel corridoio dove si trovano, una decina
di metri più avanti. Apparentemente sono riusciti a seminare
Fury e il russo, ma non è il caso di accertarsene.
“Dici
che regge?” chiede Hwoarang, osservando il pavimento
diroccato: c’è un punto in cui le travi sono
evidenti e il cemento ha ceduto, formando un buco che offre una visione
sul piano sottostante. Il resto è pieno di crepe e non ha
un’aria altrettanto stabile. Jin si sporge leggermente oltre
il buco: “Non abbiamo molta scelta, Corea. A meno che tu non
voglia fare due chiacchiere con quei due.”
Hwoarang
non se lo fa ripetere due volte e attraversa la zona pericolante,
evitando per quanto possibile l’apertura sul pavimento.
Riesce a passare oltre senza cadere di sotto. Jin rimane fermo a
guardarlo per un istante, al che l‘altro allarga le braccia
facendogli capire che sarebbe il caso di sbrigarsi. “Arrivo,
arrivo” borbotta, e cerca di ripetere i passi del coreano:
cammina raso muro lontano dal foro, cercando di ricordare tutti i punti
(relativamente) sicuri.
Ma
basta una disattenzione a fargli mettere il piede sinistro su una trave
pericolante che si spezza e lo fa cadere di sotto.
“Kazama!”
“Porca
vacca…”
Per
sua fortuna atterra su una superficie stranamente soffice, e a parte
qualche graffio dato dai detriti che gli sono caduti addosso non sembra
essersi fatto nulla.
“Kazama?!”
“Sto
bene, sto bene” replica, “tu piuttosto non
urlare… non mi stupirei se avessero sentito il
crollo.”
Rimettendosi
in piedi ha modo di scoprire che la cosa soffice su cui è
caduto era una montagna di sacchi di lenzuola da lavare.
“Senti, tu scappa tramite le scale. Io vedo di uscire
dall’entrata principale, non dovrei essere troppo
lontano” aggiunge, e tira di nuovo fuori la mappa,
sforzandosi di leggerla nonostante la poca luce. Hwoarang
però non sembra essere d’accordo: “Non
dire cazzate! Vado a cercare una corda o una cosa qualsiasi per tirarti
su!”
“Sei
gentile a preoccuparti, sul serio, ma nelle condizioni in cui
è il pavimento rischi di raggiungermi da un momento
all’altro” gesticola verso lo squarcio sopra di lui
“se provassi a recuperarmi rischierebbe di crollare
ulteriormente. E se ci facciamo male e quei due ci
trovano…”
“Ok
ok, ho afferrato” borbotta l’altro. Non sembra
avere voglia di muoversi da lì, ma alla fine è
costretto a capitolare: “Va bene, ci vediamo fuori. Ma vedi
di non farti ammazzare, non voglio dover dare spiegazioni al tuo zio
svervegese!”
Jin
sorride e fa il saluto militare: “Agli ordini,
capo.”
Lo
sente borbottare un “‘fanculo” e i passi
che si fanno più lontani, fino a non udirli più.
Ok,
vediamo di uscire di qui.
La
mappa gli rivela che si trova nella zona lavanderia: lo stesso
corridoio ospita le cucine e gli spogliatoi degli infermieri, ed
è connesso all’area del pronto soccorso. Da
lì dovrebbe tornare alla hall e imboccare la porta
d’uscita.
Sempre
se quei due non sono tornati a controllare la fonte dei
rumore…
Ma
stare ad aspettare non è un’opzione, senza contare
che da dove si trova non ha nessun’altra via di fuga, quindi
si fa largo tra i detriti e si fionda in corridoio facendo attenzione.
Via
libera.
Anche
il pronto soccorso sembra apparentemente sgombro, e per questo decide
di tirare dritto fino alla hall senza controllare tutte le stanze.
L’urgenza di uscire da lì è tale da
spingerlo a ignorare quel rumore sospetto alle sue spalle, convinto sia
solo un ratto o una porta che cigola spinta dal vento.
Ma
qui non c’è vento…
Nel
giro di un secondo si ritrova due braccia attorno al collo che lo
stringono con una forza inumana.
“Ma
tu guarda se non è il piccolo Mishima, questo! Preda grossa,
oggi!”
Merda!
Tutto
ciò che riesce a dire è un
“F-Fury” mezzo soffocato, mentre cerca inutilmente
di liberarsi da quella morsa micidiale. L’altro non manca di
notare i suoi inutili sforzi e ride sguaiato: “In carne, ossa
e scheletro in adamantio!*”
“D-dimentichi
infezione”
replica Jin, ma con sua somma sorpresa l’altro non si altera:
“Oh, mi hai rovinato la sorpresa! Peccato, mi sarebbe
piaciuto lasciarti un ricordino di cui ti saresti accorto troppo
tardi” stringe la presa, “a proposito, come se ne
sei accorto? Non ti facevo così sveglio.”
“T-ti
ho visto dalla balaustra del primo piano… tu e il
russo” ammette, senza fare riferimenti a Hwoarang. Una
vittima basta e avanza.
“Ma
dai, dovevi essere il primo della classe a scuola!” Bryan
ride ancora, e avvicina la mano libera al viso di Jin: la pelle
è grigia e il sangue infetto sotto le unghie è
rappreso. “Un solo graffietto e sei fottuto, Mishima Jr. Poi
lascerò al russo l’onore di finirti. Non
sarà contento all’idea di non poter continuare i
suoi esperimenti su di te, ma ehi... frega cazzi. Io ho delle
priorità” ghigna e piega le dita ad artiglio.
“Non…
non contarci!”
Jin
riesce fortuitamente a calciare il cyborg tra le gambe, abbastanza da
fargli allentare la presa sul suo collo e liberarsi: gli afferra il
braccio sinistro e un lembo del gilet, sollevandolo abbastanza da
lanciarlo per terra. Cerca di scavalcarlo e imboccare la porta ma Bryan
lo blocca per una gamba e lo fa cadere. Lo zaino e il fucile a pompa
cadono con lui, però non fa in tempo ad afferrare
l’arma perché l’altro lo volta di
schiena e gli si siede a cavalcioni sul petto: “Mi spiace
stronzetto, ci vuole ben altro per mettermi K.O” ringhia
Bryan, gli occhi iniettati di sangue. “La regina è
morta, lunga vita alla regina!”
È
completamente andato! pensa
mentre ascolta i deliri del cyborg: l’infezione è
ormai avanzata e non manca poco prima che muti del tutto. E uno zombie
con la forza di Fury…
“Lunga
vita alla regina! L’impero è caduto, le porte
dell’inferno si sono spalancate e Satana è pronto
a calpestare questa terra insieme al suo esercito di demoni!”
Jin
allunga il braccio oltre la sua testa e tasta attorno fino a trovare il
fucile a pompa. Il cyborg è talmente perso nei suoi deliri
che non se ne accorge neanche. Con un po’ di fortuna riesce
ad afferrare la canna dell arma fino ad impugnarla come una clava, e
con un movimento velocissimo la usa per colpire Bryan sulla tempia.
“Mi
spiace ma non rimarrò qui ad assistere-ARGH!”
L’altro
lo ha afferrato per un polso, conficcando le unghie della zona di pelle
scoperta. “Dasvidania* vostra grazia” ghigna, un
ultimo delirio prima che Jin lo tramortisca con il fucile. Senza
pensarci afferra lo zaino e corre verso le porte, attraversa la hall e
imbocca l’uscita, senza neanche preoccuparsi di controllare
se Bryan o il russo lo stiano inseguendo.
Appena
fuori si nasconde dietro un’ambulanza rovesciata su un
fianco, giusto in tempo per sentire la porta aprirsi di nuovo: si
sporge con cautela e vede il russo perlustrare il cortile, ma non
trovando presenze sospette torna dentro. Pochi minuti dopo sente un
urlo agghiacciante provenire dall’interno, probabilmente del
cyborg. Seguono diversi colpi, cinque, sei, poi silenzio.
Il
russo deve aver trovato Fury e averlo eliminato.
Jin
inspira: probabilmente ha poco tempo prima che l’altro esca,
dovrebbe sbrigarsi ma non riesce a schiodarsi da lì. Solleva
la manica e osserva la ferita, pochi graffi ma profondi. Prude
terribilmente.
Vaffanculo.
Vorrebbe
lasciarsi andare al panico, i Kami sanno se ne sente il bisogno, ma non
può permetterselo. Hwoarang dovrebbe essere nei paraggi,
devono tornare da Lars e scappare da Tokyo prima che venga rasa al
suolo.
O
quantomeno aiutare loro.
A
se stesso penserà poi, ora ha bisogno di rimanere
concentrato. Con un delle garze trovate in ospedale benda la ferita
meglio che può, la copre con la manica della maglia e decide
che non è il caso di far sapere al coreano e Lars le sue
condizioni.
Poi,
forse.
Finalmente
si rimette in piedi e corre verso il cancello più
silenziosamente che può, svolta a destra e percorre la
strada fino ad arrivare alla fine delle mura dell’ospedale.
Nota
una familiare testa rossa all’incrocio successivo.
“Hwoarang!”
“Finalmente,
ma quanto ci hai messo?” gli si avvicina l’altro.
“Ho sentito degli spari, credevo ti avessero
trovato…”
“No,
il russo ha fatto fuori Fury. Andiamocene prima che si accorga di
noi.”
Il
coreano annuisce e si incammina.
Jin,
dietro di lui, si gratta il braccio sinistro.
Era
una verità parziale, ma al momento era il meglio che potevo
offrirgli.
*
“Dobbiamo
andarcene. Hanno anticipato il lancio della testata nucleare.”
Alla
Zaibatsu Lars li accoglie con la peggiore delle notizie.
“A
quando?”
“Domani
mattina alle sei. Ho controllato prima su internet.”
“Alle
sei? Fra… sei ore?!”
“Ma
porca puttana!”
Hwoarang
completa la frase mollando un calcio al divano già
malconcio. Jin è troppo sconvolto per replicare. Oltre
il danno la beffa pensa,
reprimendo l’istinto di toccarsi il braccio offeso.
“Sentite,
se partiamo adesso ce la possiamo fare tranquillamente”
li richiama all’ordine lo svedese. Prende la mappa
e mostra loro un percorso nuovo: “Ho fatto due calcoli, per
arrivare a Kanagawa ci vuole un’ora e mezza, due se proprio
incontriamo qualche ostacolo. Abbiamo abbastanza tempo per arrivare
lì, trovare l’elicottero e sparire prima che la
città venga rasa al suolo.”
Jin
e Hwoarang si scambiano un’occhiata perplessa, e
quest’ultimo annuisce: “Ok. Raccogliete tutte le
provviste, io corro velocemente in armeria e recupero altre munizioni.
Ci vediamo in garage” comunica, e senza perdere altro tempo
afferra il suo zaino ed esce di corsa dalla stanza.
“Bene,
diamoci da fare.”
Jin
vorrebbe dare una mano a Lars a raccattare le loro cose, ma il suo
corpo ha deciso di tradirlo proprio in quel momento. Se
muovo un muscolo vomito pensa,
sentendo la nausea riaffiorare e non solo quella.
Sei
proprio una regina del melodramma, ragazzino.
Non
urla solo per non allarmare Lars.
Vedi
di stare zitto pensa,
rivolgendosi all’altro:
la sua parte demoniaca aveva cominciato a farsi sentire poco dopo la
fuga dall’ospedale, e per un attimo aveva temuto fossero le
prime avvisaglie dell’infezione.
Niente
bua per te, ritieniti fortunato l’aveva
schernito l’altro, quel
virus non può toccarti. Aveva
cercato di ignorarlo il più possibile, ma la stanchezza e la
debolezza fisica non erano d’aiuto.
“Jin,
tutto ok? Sei pallido.”
Lars
è a mezzo metro da lui, lo zaino in spalla e due sacchi
pieni di rifornimenti in mano. Jin fa sì con la testa e
abbozza un sorriso: “Sono solo molto stanco, la visita
all’ospedale non è stata esattamente una
passeggiata di salute” ride (che
battuta del cazzo
aggiunge mentalmente). Per non farlo insospettire oltre acchiappa il
suo zaino, una tanica di benzina rimanente e il fucile a pompa,
combattendo la voglia di rimettere anche il cenone del Natale di dieci
anni prima.
“In
quale ospedale siete stati?”chiede lo svedese mentre apre la
porta e si assicura il via libera.
“Nakano.”
“Perché
diamine vi siete spinti fin là?”
“Colpa
mia” ammette, “eravamo nei paraggi e pensavo di
trovare altri medicinali. Invece c’erano solo Fury e il
russo” si lascia sfuggire.
Lars
sgrana gli occhi.
“Non
ci hanno visti” mente, “ma ho sentito degli spari.
Credo che Fury fosse infetto.”
Lo
svedese sembra indeciso tra il sospiro di sollievo e la lavata di capo
epocale. Decide di optare per un democratico: “Almeno non
sono più un nostro problema. Ma quando saremo lontani da qui
ne riparleremo” aggiunge. Jin sorride e lo segue in corridoio.
Stai
diventando bravo a mentire.
Ancora
lui.
Cerca di ignorarlo, ma la voce non demorde.
Prima
o poi lo scopriranno, lo sai.
Non
se posso evitarlo.
E
cosa vuoi fare esattamente? Continuare a bendarti fino a sembrare una
mummia? Credo che allora due domande te le faranno.
Vaffanculo.
Sei
fin troppo acido con chi sta cercando di salvarti il culo, ragazzino.
Tu
salvare il culo a me? E domani che succede, piovono rane?
“Hai
tu le chiavi del garage?”
La
voce di Lars lo distoglie da quel battibecco mentale.
“Come?”
“Hai
tu le chiavi del garage?” ripete, e Jin annuisce:
“Sì sì, le ho io” risponde,
sostenendo lo sguardo indagatore del suo zio acquisito.
Quest’ultimo annuisce e riprende a camminare, oltrepassando i
laboratori di Boskonovitch e imboccando le scale interne, quando vede
Jin di nuovo fermo.
“Si
può sapere che ti prende?!”
“Devo
fare una cosa prima. Tu vai avanti” replica e lancia le
chiavi del garage a Lars. “Voglio controllare il
laboratorio.”
“Adesso?!”
“Abbiamo
ancora sei ore, no?”
“Cinque
ormai. E non mi pare il caso di perdere altro tempo!”
“Ci
metto pochissimo, promesso. Voglio… voglio solo vedere se
c’è qualcosa che possa tornarci utile, magari
qualche cosa a cui Boskonovitch stava lavorando” mente di
nuovo, ben sapendo che lo scienziato si era dileguato con Alisa alla
fine della prima settimana di contagio. “O anche solo qualche
farmaco che non ho notato le altre volte che sono stato
lì” aggiunge, e la sua bugia sembra avere effetto:
il bisogno di medicinali di primo soccorso è reale. Almeno
questo.
Lars
cede: “Ok. Dieci minuti, non di più. Ci vediamo in
garage” conclude, e si fionda giù per le scale.
Jin invece entra nei laboratori di Boskonovitch, puntando dritto agli
armadietti e alle provette rimaste sui tavoli.
Fammi
capire, vuoi veramente perdere tempo a cercare un antidoto che non
esiste?
Non
lo degna di una risposta e continua a spulciare i documenti sparsi in
giro e leggere le etichette di ogni fiala o bottiglietta che trova.
Riesce a recuperare due kit di pronto soccorso che gli erano sfuggiti
la prima volta che aveva esplorato quelle stanze.
Sei
veramente una causa persa, e non mi riferisco all’infezione.
Da
parte sua ancora silenzio.
Davvero,
dovresti toglierti il vizio di improvvisarti martire, non ti si addice.
Finisci per combinare cazzate, come ben sappiamo.
La
risatina dell’altro è una delle cose che
più infastidiscono Jin, ma sa benissimo di non potersi
permettere una litigata con l’altro se stesso. La sua ricerca
sembra giunta al termine, quando nota delle fialette in un macchinario
di cui non conosce la funzione. Ad un esame più attento nota
degli appunti scritti in maniera affrettata: Tentativo
di antivirus. Fallito.
Jin
si sente mancare la terra sotto i piedi.
Sono
morto.
E
smettila col melodramma! Non sei morto.
Non
ancora. Ma tra un’ora potrei…
Potresti,
appunto. Non è detto. Tra un’ora vedrai, sono
piuttosto sicuro che dovrai ringraziarmi.
Non
credo proprio.
Parlare
con te è come fare conversazione con un muro di gomma.
Persino il coreano mi darebbe più soddisfazione.
Con
quell’ultima frase finalmente si zittisce, e Jin decide di
raggiungere gli altri in garage.
Ormai
non ho più niente da perdere.
*
Mai
nella vita avrei pensato che il mio io demoniaco sarebbe stato la mia
unica salvezza.
Troppo
lento.
Sta
ancora cercando di ricaricare il fucile quando il corridore salta sulla
jeep e tende le mani putrescenti verso di lui.
Merda!
“Abbassati!”
Non
fa in tempo ad identificare la voce: si accovaccia di scatto, appena in
tempo per sentire il rimbombo di uno sparo e il corridore che crolla in
avanti. Jin lo calcia via con un piede e si volta verso il fondo del
garage: Lars e Hwoarang stanno correndo verso di lui,
quest’ultimo con un fucile di precisione in mano.
“Tu
il fucile a pompa non lo sai usare!”
Jin
ride, ride di gusto: “Non ti mando a fanculo solo
perché ti devo un favore.”
“Uno
enorme, bello mio” ridacchia l’altro, salendo sulla
jeep insieme a Lars: “Allora, trovato nulla?”
chiede quest’ultimo, prendendo posto al volante. Jin scuote
la testa: “Poca roba, a parte un paio di kit di pronto
soccorso. Il coreano invece ha avuto fortuna, vedo.”
“Oh
sì, questo gioiellino stava nascosto sotto un armadietto
dell’armeria” sorride, accarezzandolo come fosse un
animaletto da compagnia: “L’ho chiamato
Vera.*”
Jin
scuote la testa e passa le chiavi della jeppe a Lars, che mette in
moto: “Allacciatevi le cinture signorine, stiamo per
decollare!”
La
guida di Lars non è esattamente sicura e adatta ai deboli di
stomaco, e non sarebbe nemmeno un problema se la nausea di Jin non si
facesse risentire.
Tranquillo
ragazzino. Passerà in fretta, te l’ho detto.
“Kazama,
tutto ok? Stai sudando e hai una cera orribile.”
“Sono
infetto.”
Lars
inchioda di colpo, poco fuori il parcheggio della Zaibatsu, e sia lui
che Hwoarang gli puntano gli occhi addosso.
“Tu
cosa?!”
Lui
non risponde e si limita a sollevare la manica sul braccio sinistro,
mostrando la fasciatura.
“Ma…
ma come, quando…?”
“Aspetta,
aspetta! È stato Fury in ospedale, non è
vero?” strilla il coreano, e Lars urla con lui:
“Fury? Avevi detto di non esserti avvicinato a lui!”
Hwoarang
sta per dire qualcosa, ma Jin lo zittisce: “Non importa,
ormai è fatta.”
“Che
vuol dire ‘ormai è fatta’? Non eri
andato nel laboratorio di Boskonovitch a-”
“A
cercare medicine, sì. E un antivirus” ammette.
“Boskonovitch ci aveva provato a sintetizzarlo, prima di
sparire dalla circolazione. Ma a quanto pare ha fallito, ho trovato dei
test che lo confermavano.”
Per
qualche minuto regna il silenzio. Sulle loro spalle grava il peso di
quella notizia e la consapevolezza, almeno per Jin, che la fine sta
arrivando.
“E
ora?”
“Ora
niente. Quando è il momento mi farete fuori”
risponde secco, cercando di non lasciare apparire l’ansia che
lo sta divorando dall’interno. O forse è
l’infezione, pensa.
“Non…
non esiste, un modo deve esserci” balbetta Lars, ma Jin fa
cenno di no.
Te
lo ripeto per l’ultima volta: tu non morirai.
“E
perché dovrei crederti?” sussurra, senza neanche
accorgersi di non averlo solo pensato.
“Jin,
con chi parli?” chiede Hwoarang, senza ottenere risposta.
Perché
mi servi, imbecille. Mi servi vivo per muovere il tuo corpo,
disgraziatamente, se crepi non me ne faccio niente.
“Come
posso esserne sicuro?” prosegue, ignaro degli sguardi
preoccupati degli altri due.
Perché
i miei pur vasti poteri non comprendono la negromanzia, ma posso fare
in modo che il virus non attacchi le tue cellule. Quindi rassicura i
tuoi compagni di viaggio, non diventerai uno zombie, ma rimarrai un
idiota.
“Jin…?”
“Lui…
lui dice che non mi succederà niente.”
“Lui
chi?” chiede Lars, ma è Hwoarang a rispondere:
“Aspetta, stavi parlando con lo Stronzone con le Lucette?
Jin
ride e annuisce: “Chi l’avrebbe detto che un giorno
sarei stato contento della mia maledizione?”
Ovviamente
adesso ridi, mentre fino a due secondi fa facevi testamento. Davvero,
ringrazia il fatto che mi servi.
Dopo
qualche istante di silenzio Lars azzarda una domanda: “Pensi
di poterti fidare?”
“Dice
che gli servo vivo” replica. “Da cadavere non
potrebbe… manovrarmi, per così dire.”
“Allora
possiamo fidarci” commenta Hwoarang, “è
il suo tipico modo di fare. Ora, uomo che venne dall’Ikea,
rimetti in moto e cortesemente vedi di non inchiodare più in
quel modo.”
Lars
lo guarda torvo ma fa quanto detto, borbottando un dra
åt helvete*
che
nessuno dei due sa cosa voglia dire, ma Jin sospetta sia una qualche
parolaccia svedese.
Durante
il tragitto rimangono in silenzio. Di quando in quando Lars e Hwoarang
lanciano un’occhiata a Jin, perché in fondo
nessuno di loro si fida troppo del suo io demoniaco, ma a Jin non da
fastidio. Nemmeno lui si fida. Eppure…
Eppure
sono ancora io pensa,
controllando la ferita: i graffi sono sempre lì, ma appunto
sembrano solo graffi. Niente più ematoma e sangue rappreso.
La nausea è diminuita e anche la fiacchezza. Forse lui
non
mentiva.
“Sai,
potresti avere trovato la soluzione.”
Jin
si volta verso Lars: “Soluzione?”
“Sì,
insomma… se davvero il gene Devil ha represso
l’infezione si potrebbe sintetizzare un antivirus dal tuo
sangue, o roba simile.”
“Scherzi?
Col rischio di passare il gene a milioni di persone?”
“Questo
non succede solo se fai un figlio, che avrà il tuo stesso
dna? O vale anche per il sangue?”
“Beh…
non lo so!” ammette. “Non ho idea di come funzioni
la genetica demoniaca, ma non mi sembra il caso di rischiare.”
Lars
fa spallucce: “Vedremo una volta arrivati ad Hong Kong. Ho
già avvisato la tua scatolina cinese” sorride, e
Jin arrossisce. Non lo ammetterà mai ad alta voce, ma non
vede l’ora di riabbracciarla.
“Sai
che mondo di merda se il gene Devil si potesse passare tramite
l’antivirus sintetizzato dal sangue di Kazama?”
borbotta Hwoarang, senza rivolgersi a nessuno in particolare.
“Non diventano zombie ma in compenso gli spuntano loro corna
e ali, e svolazzano in giro ridendo come degli squilibrati mentali. Una
meraviglia”
Se
ne avesse la forza gli mollerebbe un cazzotto sul naso, ma è
così stanco che lascia correre. Addirittura gli scappa una
risata. “Quanto manca al lancio della testata?”
chiede, e il coreano controlla l’ora: “Credo
quattro ore, o poco meno”
Lars
accelera: “Ora ci metteremo molto meno!” urla, e
nel farlo investe un paio di infetti.
Hwoarang
sghignazza: “Strike! Noi redivivi…”
“...loro
redimorti”* conclude Jin. La risata del coreano gli comunica
che ha apprezzato l’aver completato la citazione.
Finalmente,
di fronte a loro, le mura che delimitano Tokyo da Kangawa: il varco si
vede benissimo anche da lì.
“Ci
siamo” sussurra Jin, con un tremolio nella voce. La paura che
succeda qualcosa proprio in quel momento è alle stelle.
“Ci
siamo” conferma Lars.
“E
ora?”
“E
ora cerchiamo l’elicottero, poi ce la diamo a
gambe.”
Jin
annuisce, imitato da Hwoarang.
È
la fine del mondo, e io sono sopravvissuto.
*
Edit 17-03-2021: Sto traducendo alcune delle mie storie per AO3 e FF.net, e visto che ho deciso di accompagnare quelle versioni con una fanart, ho pensato di aggiornare e aggiungerla anche qui. :D
*Umaibo:
snack salato di forma cilindrica a base di mais soffiato, confezionato
singolarmente e famoso per la sua mascotte (Umaemon, ispirato a Doraemon).
*T-Virus:
l’arma batteriologica causa di zombie e amenità
varie in Resident Evil. Nei miei headcanon Jin è un nerd
impenitente e mi piace fargli fare citazioni a tema. :D
*Biohazard:
titolo originale di Resident Evil, quello usato in patria.
*“è
un maledetto cyborg!”:
la natura mezza umana e mezza robotica di Bryan mi ha causato qualche
dubbio sul fargli contrarre il virus oppure no, e la Namco ovviamente
non fornisce abbastanza informazioni su quanto di organico sia rimasto
in lui… consideratela quindi una mia “licenza
poetica” in cui ho deciso che Bryan aveva ancora abbastanza
parti organiche che lo mettevano a rischio contagio.
*Adamantio:
materiale che esiste nell’universo Marvel, una lega
particolarmente forte e resistente usata per armi e parti del corpo di
vari super eroi. Lo scheletro di Wolverine, ad esempio, è
fatto in adamantio.
*Dasvidania:
‘Arrivederci’ in russo. Non credo che Bryan parli
russo, ma in mezzo a quel nonsense ci stava.
*“L’ho
chiamato Vera.”:
Se avete visto Firefly coglierete sicuramente il riferimento a Jayne
Cobb e la sua Vera (il suo amato fucile Callahan, che non era di
precisione ma non importa XD).
*dra
åt helvete: vaffanculo
in svedese, almeno stando al traduttore. XD
*”Noi
redivivi, loro redimorti!”:
Colta citazione dal primo, glorioso Ghostbusters.
*******
Note
burocratiche:
Questa
oneshottona è stata scritta per il contest “Apocalisse:
Vivere o Morire” indetto da ManuFury
sul forum di Efp: il mio pacchetto prevedeva il fucile a pompa come
arma e la sopravvivenza del mio protagonista. Ammetto che non sono del
tutto sicura di aver inserito l’arma per bene nella storia,
ma… insomma, non è che tutti sanno usare un
fucile a pompa. E Jin di sicuro non ne è capace. XD
Mi
è venuto istintivo smorzare l’angst con qualche
battuta e citazione (tutte segnate) sparse qua e là:
Hwoarang serio non è Hwoarang. Spero non sia troppo
smorzato,
ecco. XD
Una
piccola parentesi dedicata agli zombie di questa storia: da amante
dell’horror quale sono, ho voluto mischiare caratteristiche
prese qua e là da alcuni dei miei film preferiti, e da
questa unione è nato questo virus che muta casualmente, a
seconda del corpo che lo ospita. I “corridori” sono
ispirati agli infetti di REC
(che
non erano esattamente zombie…), mentre i sintomi particolari
(il camminare all’indietro, dire cose strane, ecc) sono un
omaggio a E
venne il giorno,
film di M. Night Shyamalan a mio parere troppo sottovalutato. Il titolo
invece non penso abbia bisogno di presentazioni. XD
Per
quanto riguarda nomi di posti e distanze, è tutto vero: mi
sono armata di Google Maps e pazienza nel cercare di raccapezzarmi tra
i vari quartieri di Tokyo (tra l’altro non ho idea di dove si
trovi effettivamente la Zaibatsu, quindi ho fatto di testa mia). XD
Credo
di aver detto tutto quello che c’era da dire, spero che
questa storia vi piaccia e di non aver scritto castronerie. :°D
Un
sentito grazie alla mia beta Nyappy
(che mi beta sempre in condizioni surreali XD) e a
Kuruccha, che me l’ha gentilmente ricontrollata
un’ultima volta. <3
Alla
prossima!
Mana
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