Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Unported.
Metatron
Aveva caviglie sottili.
Era la prima cosa che
aveva notato di lei mentre tornava al bancone dopo avergli
servito una tazza di caffé bollente e una fetta di torta
alle nocciole. Uomini diversi avrebbero posato il loro sguardo su altre
parti del corpo, ma lui non era un uomo come tutti gli altri, e allora
le caviglie.
Portava anche delle belle scarpe, alla moda, di un azzurro pastello in
tinta con il vestito che indossava una volta tolta la divisa da
cameriera. O meglio, l'aveva vista con quel vestito, stretto un vita da
un cinturino marrone sottilissimo, in una sola occasione, ma era
davvero bellissima.
Gli aveva servito una tazza di caffè e una fetta di torta al
cacao due anni prima, in una fredda mattinata di Dicembre in cui
aveva ardentemente desiderato di dimenticare il ghiaccio su cui era
scivolato appena uscito di casa, e quelle caviglie gli erano
così piaciute che era tornato giorno dopo giorno,
associandole ad un candido viso sempre sorridente e con una calma tale
da tranquillizzare anche la persona più agitata e frettolosa.
Per giorni si erano scambiati occhiate curiose, poi non aveva
più potuto rifugiarsi in quel locale a causa del lavoro.
Si erano incontrati così, per caso, una domenica al
supermercato. Lei lo aveva riconosciuto per prima e, sfacciatamente,
gli aveva chiesto se lo avesse offeso dato che non aveva più
frequentato il locale. Non le aveva risposto subito, sopreso che lei si
ricordasse così bene di lui.
Finita la spesa l'aveva accompagnata in casa, riparandola dalla pioggia
con il suo ombrello grigio fumo.
Avevano cambiato routine: prima si erano osservati come cliente e
cameriera; adesso camminavano insieme, parlando e raccontandosi le
reciproche esistenze.
Aveva scoperto molto. Era giovane, laureata in Lettere Antiche a pieni
voti, ma lavorava al locale per aiutare la zia con cui era cresciuta;
non era ricca, ma possedeva abbastanza per poter vivere da sola
coccolandosi qualora lo desiderasse; aveva molte amiche, ma tutte si
erano trasferite in altre città per il lavoro o il
matrimonio e si tenevano in contatto tramite lettere e rare telefonate.
Poi c'erano i dettagli interessanti, quelli che conosceva solo lui:
amava dormire con i calzini per non sentire freddo ai piedi durante la
notte; ascoltava musica di tutti i generi con un vecchio giradischi e i
45 giri, seduta comodamente sulla poltrona con le gambe su uno dei
braccioli; le spezie nella dispensa erano ordinate secondo l'ordine
alfabetico e ogni giorno aveva un bicchiere speciale da usare. La
domenica mattina beveva il caffé amaro e poi andava a
cantare nel coro gospel della chiesa del quartiere.
Aveva imparato tutto di lei, ogni suo dettaglio, anche insignificante,
eppure lui non si era esposto.
Aveva raccontato le linee generali della propria vita, pochi dettagli
che non gli appartenevano, inventati sul momento per dirle qualcosa.
Lei si era sempre accontentata, annuendo con la testa e proseguendo a
camminare al suo fianco, a braccetto, stringendolo appena. Erano storie
credibili, ma non aveva dubbi sul fatto che lei sapesse che mentiva.
Una volta l'aveva invitata a cena. Un locale piccolo, illuminato con
lampade di carta a forma di stella, cucina italiana. Aveva realizzato
solo una volta seduto a tavola, lei al suo fianco, quanto il luogo
fosse incredibilmente romantico e quanto lei sembrasse incredibilmente
felice di trovarsi lì. Aveva sorriso e l'aveva chiamata con
il suo nome, Anita, per la prima volta, sentendo un calore dolce nello
stomaco.
Così anche le cene erano divenute una routine: tutte le
settimane, una volta alla settimana, l'accompagnava a casa finita la
spesa, aspettava nell'androne della palazzina che lei si preparasse e
dopo si allontavano insieme, sempre a braccetto.
Erano passati secoli, letteralmente, dall'ultima volta in cui si era
concesso il lusso di una compagnia femminile, nonostante l'avesse
più volte desiderato, negandosi sempre la soddisfazione. Non
riusciva a separarsi da quella ragazza: alcune sere cercava di
costringersi ad andare via mentre l'aspettava ma falliva ogni
tentativo, offrendole il braccio non appena arrivava come se il suo
animo non fosse stato in guerra con se stesso.
C'era tranquillità nel loro rapporto, un tacito accordo per
rispettare l'uno le necessità e i tempi dell'altro; c'erano
sguardi che scavavano più delle domande che si rivolgevano
e ogni tanto credeva che lei sapesse molto più di
quanto desse a vedere. C'era lei che faceva scomparire i millenni che
pesavano sulle sue spalle solo sfiorandogli per caso la mano e lui che,
come si era reso conto all'improvviso, dipendeva dalla sua presenza.
Aveva deciso di corteggiarla seriamente la prima volta che si erano
presi per mano, spontaneamente, in una sera primaverile particolarmente
ventosa. Aveva iniziato con piccoli regali: una spilla, un libro, dei
fiori. Lei li aveva adorati, elargendogli sorrisi generosi. Alcune
volte, rare, aveva visto lo spavento nei suoi occhi, il lampo di un
secondo, quando faceva apparire i fiori con la magia
affinchè fossero freschi e lei sapeva che ci fosse qualcosa
di sbagliato ma non capiva.
Ricordava con particolare calore la questione delle rose: non
era stagione, ma lui le aveva fatte comparire dal nulla.
«Sai perché le rose hanno le spine?» Gli
aveva chiesto ridendo. Lui aveva risposto di no, incuriosito da quello
che avrebbe detto.
«Perchè l'amore punge le nostre esistenze: qualche
volta è inaspettato e ci fa sanguinare, ma il sangue ha il
sapore del miele.»
L'aveva baciata e lei aveva risposto al suo bacio, stringendosi a lui.
Poi gli aveva chiesto da dove arrivassero quelle rose, e aveva rovinato
tutto.
Non le aveva mai confessato il suo vero nome, preferendo che lo
chiamasse con un banale Luke, senza il cognome; le aveva detto di avere
un lavoro, ma non quale. Tutto ciò che lui era veramente era
stato omesso, o credeva lei sarebbe scappata via.
Avevano litigato furiosamente e lei aveva tirato fuori tutte le domande
che si era posta in quei sei mesi di conoscenza, e lui non le aveva
risposto. L'aveva cacciato da casa sua, dicendogli di non volerlo
rivedere mai più nella sua vita.
Erano passate settimane in cui lui era rimasto ogni pomeriggio davanti
al portone della palazzina, sul marciapiede opposto: la guardava uscire
ed entrare, fermarsi a chiacchierare con la postina per qualche minuto,
accarezzare il cane bianco della vicina. Era stato sotto la pioggia ad
osservarla, sotto il sole ed esposto al vento. Le aveva lasciato un
biglietto con il suo vero nome nella cassetta della posta, sperando che
capisse.
Una sera gli si era avvicinata: «Metatron, eh? Avresti potuto
dirlo fin da subito. Sei una buona persona, rara da trovare, non sarei
scappata via urlando.»
L'aveva preso per mano e l'aveva portato nella sua camera, ordinandogli
di raccontarle tutto dal principio e così aveva fatto.
«Io sono immortale,
come posso costringerti a vivere a fianco a me...»
«La domanda sarebbe
come posso farlo io. Sarai tu a vedermi morire. Io avrò
vissuto una vita piena e meravigliosa con l'angelo che amo e la natura
mi obbligherà ad abbandonarti.»
«Il sangue ha il sapore del
miele, no?»
Aveva sorriso e l'aveva baciato. Gli aveva accarezzato le ali. Avevano
fatto l'amore.
Avevano vissuto i mesi successivi come uno splendido idillio. Si era
sposati e trasferiti in una città più grande: lei
insegnava in una scuola, lui badava alla casa.
Quando gli aveva annunciato che aspettavano una figlia si era
spaventato, pensando alle possibili conseguenze con altri angeli
caduti, ma alla fine la gioia del momento aveva eclissato ogni
preoccupazione.
Poi si era ritrovato in una stanza d'ospedale, appoggiato alla spalla
di Raziel, a sentire il suono continuo di un cuore ormai fermo mentre
Lucifero cullava la bambina appena nata, salva per miracolo,
canticchiando vecchie nenie.
La sua bambina meravigliosa, identica alla mamma, che aveva chiamato
Astrid e che, senza nemmeno saperlo, era diventata l'unica donna che
avrebbe ancora amato nella sua infinita vita.
Coro dell'autrice
Se siete arrivati fino a qua, ne sono immensamente felice
e spero che questa minuscola storia vi sia piaciuta, anche se ha solo
mezzo lieto fine.
Questo piccolo racconto
deriva dalla storia più grande cui sto lavorando, e che un
giorno
finirò, dove ho inventato una storia tutta mia sui vari
angeli e
arcangeli esistenti: chiamiamo questa one-shot uno spin-off appena
appena accennato. Mi auguro di pubblicarne altri, anche se temo
rimarrano decontestualizzati, in quanto per il momento non ho
intenzione di pubblicare la storia originale.
Per
i meno esperti della religione, Metatron e Raziel sono due Arcangeli
del Paradiso, forse un po' meno famosi dei classici Gabriele e Michele,
ma sicuramente tra quelli che amo di più, essendomi
documentata un po' sulle loro caratteristiche. Lucifero immagino
tutti sappiano chi sia, non c'è bisogno di introdurlo
né spiegarlo, anche se pure lui è introdotto
sempre secondo la mia personale idea creativa. Astrid è
invece un nome che amo da sempre e il suo significato è
"Amata da Dio". L'ho trovato molto bello, forse anche appropriato.
Come al solito, sono la beta reader di me stessa e spero sia tutto
corretto.
Spero vogliate lasciarmi una piccola recensione per farmi sapere il
vostro parere, che è sempre ben accolto, sia che sia
positivo, sia negativo.
Un saluto a tutti quanti!
Izumi
|