I
Kilkenny, Irlanda
Abbandonando Michael Street, lungo
John Street Lower, una
giovane soprappensiero si stava avviando verso casa. Era già
calata la sera e
il consueto vento d’Irlanda soffiava, gelido e costante,
raffreddando l’aria.
Era inverno inoltrato. Gennaio era volto al termine ed iniziava
febbraio, e il
Sole era tramontato da qualche ora.
Lei
si soffermò su John’s
Bridge, guardando l’acqua del fiume Nore ed ascoltandone il
rumore. Stringeva
il lungo cappotto nero con le mani e sospirava. Era in una di quelle
giornate
in cui provava nostalgia e sentiva in modo più forte la
solitudine. Riprese il
suo cammino, accelerando il passo dato il lungo tragitto che doveva
ancora
intraprendere per giungere a destinazione.
I suoi stivali, con un leggero tacco,
producevano un rumore
ritmato lungo la strada lastricata.
Si lasciò alle spalle il
castello di Kilkenny e giunse
all’ingresso di Abbey Street. Lì, come sempre, si
ammassava l’unica folla che
incontrava ogni sera sul suo cammino. Lungo la via non incrociava quasi
mai
qualcuno ma lì trovava sempre i clienti dei tre locali
più famosi della città.
Continuò a camminare tranquilla, nonostante tutti i loro
sguardi. Si specchiò
in una delle vetrate del Pub all’angolo e si chiese
perché tutto questo
interesse ad ogni suo passaggio. Non riusciva a capirlo, e nessuno in
tutta
Kilkenny lo capiva.
Era una ragazza normale, nella media:
altezza media, nessun
dettaglio particolare come gambe particolarmente lunghe o seno
abbondante,
vesti sobrie e mai troppo corte e nessuna abitudine degna di nota. Era
una
persona tranquilla, fin troppo riservata e, a suo dire, con un pessimo
carattere. Quella sera, quando passò, tutti gli sguardi
furono su di lei
nonostante il forte vento, che aveva scompigliato i suoi lunghi capelli
rossicci
e dritti, e il suo sguardo scocciato. Forse era quello che attirava
tutti,
uomini e donne. I suoi occhi erano di uno splendido azzurro, che lei si
vantava
di aver ereditato dal padre. Erano di un colore così
splendido da far invidia
alla volta del cielo. La giovane cercava sempre di nasconderli, dietro
a degli
occhiali da Sole o delle lenti, ma erano così luminosi da
essere quasi
impossibili da celare.
Il ticchettio dei suoi stivali
accompagnò il suo cammino,
assieme al fruscio dei jeans, fino all’ingresso del
condominio dove risiedeva,
lungo Abbey Street. Era un edificio anonimo, senza niente che lo
distinguesse
dagli altri in schiera lì accanto. Tipicamente irlandese
come architettura e
impostazione aveva, all’ingresso, cinque scalini in pietra
che conducevano alla
porta in legno scuro, chiusa solo nelle ore notturne. Lasciandosi alle
spalle
gli sguardi ed i commenti, la ragazza si avviò lungo le
scale. Nemmeno guardò
all’ingresso se c’era qualcosa per lei nel
portalettere: lei non scriveva a
nessuno, nessuno scriveva a lei. E le bollette arrivavano tutte
all’amministratore.
Contenta solo per il fatto di non
aver preso la pioggia,
giunse all’ultimo piano dove stavano due piccoli
appartamenti. Non accese la
luce lungo il corridoio e inserì la chiave nella serratura.
La porta non si aprì.
Accadeva piuttosto spesso a causa
dell’usura. Era un edificio vecchio e malandato in cui
nessuno dei coinquilini
aveva disponibilità economiche a sufficienza per mettere a
posto qualcosa,
salvo l’indispensabile. Sbuffò, spingendo la porta
che scricchiolò ma non si
aprì, ruotando gli occhi verso il cielo e verso la terra,
non sapendo a chi di
preciso dar la colpa delle sue disgrazie. Con un ghigno d’ira
prese a calci
l’uscio di legno, rischiando di farci un buco,
finché non avvertì una presenza
alle spalle. Si girò di scatto, pronta a reagire, ma si
sentì dire di stare
tranquilla. Era il suo vicino di pianerottolo, evidentemente uscito sul
corridoio sentendo troppo rumore. Era un giovane sui venticinque anni,
molto
alto e coi capelli scuri.
“Tranquilla. Sono
io” ridacchiò il ragazzo. “Serve una
mano?” chiese, educatamente.
“No”
affermò lei, convinta.
Ma lui diede un deciso strattone alla
porta e questa si
aprì.
“Capita anche alla mia, a
volte” disse sorridendo.
Lei lo fissò, con
fastidio, e fece per entrare. Ma lui la
guardava, come in attesa di qualche cosa.
La ragazza rimase un attimo senza
capire, poi mormorò un
“Grazie” poco convinto e iniziò a
chiudersi la porta alle spalle.
“Posso sapere come ti
chiami? Da tanto vivi qui ma non ho
mai saputo nemmeno il tuo nome” azzardò lui,
continuando a mantenere sul volto
un sorriso ebete.
“Ci conosciamo?”
sbottò lei “Ci conosciamo, per caso, che mi
dà del Tu?”.
“No…in effetti,
no” ridacchiò, imbarazzato, il giovane
“Appunto per questo ti chiedo come ti chiami. Così
ci conosciamo e posso darti
del Tu”.
Lei rimase in silenzio.
“Io sono Andres. Piacere.
Tu?”.
Altro silenzio. Lei notò
la sciarpa bianca che lui portava
nonostante fosse in casa.
“Hope. Mi chiamo
Hope” rispose lei, dopo un po’, con un tono
piatto e infastidito.
Era
sempre sconcertata
davanti alle persone che danno tanta confidenza a perfetti estranei.
“Piacere Hope! Che
splendido nome!”.
“Sì,
sì” tagliò corto la ragazza
“Ora scusatemi ma dovrei
mettermi in contatto con mia cugina”. “Cugina?
Allora hai dei parenti…”.
“Ovvio! Potete lasciarmi
entrare e vivere la mia vita?”.
“È che mai
nessuno ti è mai venuto a trovare. Non ti arriva
posta, non hai mai ospiti. Nessun amico, nessun fratello o
genitore…”.
“Sono forse affari
Vostri?”.
Lei stava perdendo la pazienza. Il
giovane allora si arrese.
Salutò con un poco formale “Ciao”.
“In realtà, mio
vicino di pianerottolo, io sono una killer e
devo celare la mia vera identità e nessuno sa esattamente
dove abito”.
Ci furono parecchi secondi di
silenzio assoluto. Poi Hope si
mise ridere, mostrando uno splendido sorriso, e rassicurò il
suo vicino
dicendogli che era uno scherzo. Rientrò in casa lasciando
Andres solo, lungo il
corridoio, non molto convinto che fosse tutto uno scherzo.
Hope sbatté la porta. Che
fastidio quando qualcuno si
intrometteva nella sua vita!
Non accese la luce della cucina, che
fungeva anche da
salotto, sapendo benissimo che non si sarebbe accesa mai, dato che era
fulminata da giorni. Spalancò la finestra, salutando
educatamente i piccioni,
per far entrare un po’ d’aria. Notò
quanta polvere ci fosse in quella stanza ma
ignorò temporaneamente la cosa. Non era un grande sforzo
pulirla tutta. Casa
sua era carina ma piccola. Troppo piccola. Insufficiente per la grande
quantità
di oggetti che possedeva.
Scavalcò una pila di libri
e andò in camera. Si stese sul
letto e accese il computer portatile.
Sua cugina le aveva inviato un
messaggio sul cellulare
quella mattina, avvertendola che le avrebbe spedito una e-mail. Hope
conosceva
bene sua cugina e sapeva che, se la cercava, era solo per chiederle
qualche
cosa, tipo un favore o un prestito.
Mentre il piccolo portatile si
avviava, lei volse lo sguardo
al soffitto, dove notò un alone
d’umidità in uno degli angoli. Colpa dei
lavori, troppo a lungo rimandati, che necessitava il tetto. Lei aveva
la
sfortuna di abitare all’ultimo piano e tutto il condominio
voleva accollare a
lei, e al suo compagno di corridoio, tutte le spese. Ma lei non ne
aveva
nessuna intenzione, anche perché non stava mai troppo tempo
nello stesso posto
e quindi, probabilmente, presto avrebbe cambiato domicilio lasciando
nell’appartamento solo gli oggetti che non poteva portare con
sé. Non era un
problema pagare l’affitto per quattro o cinque appartamenti
in cui tornare, di
tanto in tanto, nel caso le servisse qualcosa che si era lasciata
indietro. Il
suo sogno era comprarsi una bella casa grande ma al momento non aveva
trovato
il luogo adatto. Rifletté sulla possibilità di
lasciare Kilkenny, pur amandola
molto, e di spostare un po’ delle sue cose dove si trovava
ora. Spostarle dal
suo loft in affitto a Londra, città troppo caotica per i
suoi gusti, fino a lì.
Così facendo si sarebbe liberata dall’affitto
mensile più costoso.
Sospirò pensando al fatto
che apparteneva ad una della
famiglie più importanti del Mondo, se non la più
importante, ed era costretta a
quel tipo di vita.
Lasciò che il computer si
connettesse ed entrò nella sua
casella di posta. C’era un messaggio solo, come si era
aspettata, di sua
cugina. Lo aprì e lo lesse attentamente.
Si alzò e si mise a fare
le valige, pur non avendo tante
cose indispensabili da portarsi dietro. Sua cugina le aveva dato il
pretesto
definitivo per lasciare Kilkenny. Un rapido giro su Internet per
prenotare il
viaggio e poi spense il Pc. Faceva parte delle cose indispensabili.
Era un po’ delusa. Non
riceveva mai notizie dai parenti se
non in caso di bisogno ed era certa, per comprovata esperienza, che se
fosse stata
lei quella a necessitare aiuto non ne avrebbe ricevuto.
Pensò di contattare per
telefono la mittente del messaggio ma
calcolò rapidamente il fuso orario e decise di lasciar
perdere. Laggiù era
quasi l’alba e di sicuro non le avrebbe risposto.
Provò allora a cercare
qualche altro consanguineo.
Afferrò il cellulare,
piccolino e senza suoneria, al quale
giungevano principalmente solo messaggi di pubblicità o
d’avviso che da troppo
tempo non ricaricava.
Per primo chiamò suo
padre. Ma, ovviamente, una vocetta metallica
e pre-registrata le comunicò che l’utente da lei
richiesto non era al momento
disponibile. Inutile lasciare un messaggio in segreteria
perché tanto lui non
li ascoltava mai. Altrettanto inutile era mandargli un sms
perché al padre
bastava leggere il suo nome per non rispondere. Probabilmente nemmeno
li apriva
i suoi messaggi! Probabilmente l’aveva salvata come
“rompina” o cose simili.
Probabilmente non pensava mai a lei. Probabilmente. Odiava le
probabilità!
L’unico modo per parlarci
era iscriversi con falso nome a
qualche chat ed andarlo a cercare. Ma dopo un po’ capiva il
trucco e toglieva
la connessione.
Provò allora a chiamare
l’altro suo cugino, attualmente in
America, che però lasciò squillare il telefono a
vuoto. Esasperata, Hope infilò
l’apparecchio in tasca e finì di preparare le
valigie.
Non provò nemmeno a
contattare suo fratello perché
attualmente si trovava in Nepal, fra le montagne più alte
del Mondo, in cerca
di pace ed illuminazione mistica, senza nessun contatto con
l’esterno. Da tantissimo
non aveva sue notizie e lei aveva la certezza che tutte quelle balle
sul fatto
che i gemelli fossero in costante contatto non avevano alcun
fondamento. Non
aveva proprio idea di che combinasse il suo gemello lassù,
ai confini con
l’India, in mezzo al nulla, e se stesse bene. Trovava
divertente che proprio
lui, il pupillo e figlio preferito di papà, avesse deciso di
vivere in quel
modo. Lo trovava ironico. A quanto pare il bambino perfetto che il
padre tanto
amava non sarebbe mai diventato come il genitore aveva sempre
desiderato.
“Chissà cosa
direbbe la mamma sapendo tutto questo” si
chiese la giovane “Chissà cosa direbbe la mamma
sapendo che il suo bambino sta
in mezzo al nulla in cerca di se stesso e cresce così
diverso dal padre”.
Se effettivamente era
“diverso” il termine da usare…
Ma non avrebbe mai potuto sapere i
pensieri della madre. Sua
madre non c’era più. Era morta. Anche se suo padre
non si rassegnava e
continuava a cercarla, ritrovandola in qualche volto sconosciuto ed
estraneo,
che nulla aveva a che fare con la sua consorte, non l’avrebbe
più incontrata.
Hope era arrabbiata. Anche lei
avrebbe voluto sparire nel
nulla come il fratello, ma il suo modo di pensare la spingeva a tentare
di
mantenere vagamente unita la famiglia. Doveva raggiungere la cugina
dall’altra
parte del Globo per aiutarla. Suo padre, lo zio di Hope, aveva seri
problemi di
salute e quindi le due parenti avevano deciso di incontrarsi in cerca
di
sostegno.
“Ma non sarebbe stato
meglio il sostegno di tutta la
famiglia?” si chiese la giovane di Kilkenny. Sapeva che era
impossibile. Da
molto, moltissimo tempo, la famiglia non si riuniva.
Nella maggior parte dei casi Hope non
aveva insistito ma
QUEL caso era diverso. Era decisa,
nell’eventualità che suo zio stesse davvero
male, di ricercare, scovare e riunire tutti i parenti sparsi e
menefreghisti, pur
sapendo quanto difficile sarebbe stato!
Strinse i denti, legò i
capelli a riflessi rossi per
proteggerli dal vento, infilò il cappotto nero, gli stivali
e partì. Con una
valigetta piccola e poco ingombrante si avviò verso la
stazione dei treni.
Da lì sarebbe arrivata in
poco tempo a Dublino,
all’aeroporto. Senza voltarsi indietro, pur conservando la
solita, bruciante,
sensazione nostalgica, lasciò Kilkenny per arrivare in
Australia.
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