Una lama tentatrice

di Aenris
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Era stata la neve. Cio che piu amavo dopo la mia famiglia mi portò via tutto.
Era stata la neve. Quei piccoli cristalli così innocui ed eleganti avevano frantumato la mia anima. Distruggendone i pilastri. Spezzando il pavimento. Polverizzando il tetto. Tutto era andato distrutto.
Sono stato io. Io e solo io avevo insisto per quella maledetta passeggiata in montagna. Era il mio compleanno. Facevo 15 anni. Zii,  cugini, fratelli,  nonni paterni, genitori, amici di papà e mamma.
 Ne avevo contati 23. 23 anime perdute.23 anime sulla mia coscienza.
Nel bel mezzo di quella passeggiata un muro di neve investì tutti. Riuscì con mio padre ad aggrapparmi ad un albero. Ma un masso. Un maledetto masso grosso quanto il mio petto colpì il bacino di papà, portandoselo via.
 Quegli occhi che ero abituato a vedere così caldi e amichevoli. Così ricolmi d’affetto e amore. In quel momento strapieni di paura. Paura di morire. Paura di lasciarmi. Per sempre. Senza possibilità di ritorno.
Urlai il suo nome fino a quando lo spezzare delle sue ossa cessò nel candido bianco della neve. Sentì gli urli. Urli ricolmi di disperazione. Di rabbia. Risuonarono nella mia testa. Gradavano disperate alla riceda di aiuto. Aiuto che non potevo dare, essendo paralizzato dallo shock.
A nulla erano serviti assistenti sociali, psicologi, vecchi amici, persino i miei nonni materni. Era troppo doloroso vederli. Ci provarono decine e decine di volte a portarmi da loro. Scappavo sempre. Le lacrime rigavano le guance incontrastate. Senza alcun tipo di ostacolo. Non c’era rimedio alla perdita. Avevo perso la voce. Avevo perso tutto. Avevo perso la voglia di vivere.
Senza altra scelta mi diedero un appartamento. Tutto pagato. Un letto, mai usato. Un tavolo con 4 sedie, 3 sedie vuote. Lo usai una volta. Poi le sedie vennero ridotte a brandelli. Troppi ricordi. Troppi sorrisi persi.
A distanza di un anno quegli urli mi tormentavano ancora, ancora e ancora. Nei sogni e nella realtà, nella notte e nel caldo giorno.
Uscivo a malapena di notte. Camminavo senza meta, senza scopo. Ma dovunque andavo, la voragine non mi abbandonava mai, era come un assassino. Amichevole fino a che non compi un passo falso. Poi, ti inghiottisce.
 Per un anno il sole non toccò mai la mia pelle. Divenne bianca, fredda, come quella dei morti. Persino gli occhi e i capelli divennero grigi. Grigio spento, un grigo morto. Forse perché ero morto dentro.
Le persone che mi incrociavano per strada sussurravano come in presenza di un fantasma. Forse perche lo ero diventato.
Tornavo a casa e mi sedevo nell’angolo piu buio della casa. A ricordare. A piangere.
Le visite erano regolari. Ma la mia bocca non emetteva suoni. Alla fine se ne andavano. Qualcuno mi preparava da mangiare. Ma anche quello era troppo. Qualche boccone al massimo e lo stomaco si chiudeva. Mi ricordava mia mamma.
Ora. Seduto nel solito angolo della stanza, rimiravo le lame celate allacciate ai polsi. Le avevamo fatte io e mio papà. Insieme. Mesi e mesi spesi al tavolo del garage. Risate e sudore. Perse.
Ora brillavano di una luce invitante. La luce della tentazione. La tentazione di farla finita. Era follemente invitante. Raggiungerli e star con loro in paradiso. O all’Inferno. Bastava aprire il polso, la lama usciva, un piccola incisione sull’arteria e sarei morto. Definitivamente.
Per quanto resisterò, o Dio. Tu che mi hai, indirettamente, tolto tutto? Pensai…




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